L’“Albero Pioggiadoro”, il maggiociondolo

28 Maggio 2023

7 giugno 1962: “È il quarto giorno di fila che il tempo è straordinariamente propizio, azzurro, limpido e caldo. In questi ultimi tre giorni ho lasciato perdere lo studio e ho fatto un po’ di Look out Farm. Ho raccolto tutte le nostre cipolle, spinaci e lattuga – fuori in giardino dall’alba al tramonto, beata, con Frieda che scavava in un angolino per «aiutare» e Nicolas che prendeva il sole nel passeggino. È il periodo più ricco e felice della mia vita. I bimbi sono così belli...

Adesso i due ornelli sono in fiore, e sono lì, proprio di fronte al mio studio. Non è curioso che io abbia parlato nel mio libro degli Alberi Pioggiadoro e ora ce ne siano sei – due di fronte e ai lati del mio studio e gli altri tutt’intorno. Sto pregando perché ci siano ancora dei fiori sul melo quando verrai” (da Quanto lontano siamo giunti. Lettere alla madre, a cura di Marta Fabiani, Guanda 2015).

Così Sylvia Plath alla madre in una delle sue ultime buone giornate durante la difficile estate nel Devon segnata dalla separazione da Ted Hughes. Si suiciderà a Londra la mattina dell’11 febbraio 1963, non senza aver preparato pane e latte per la colazione dei due figlioletti. 

Nutro qualche perplessità per quegli “ornelli” fioriti: il nome popolare è speso anche per i frassini da manna (Fraxinus ornus, fam. Oleaceae), perciò meglio sarebbe tradurre “avornielli” o maggiociondoli (Laburnum anagyroides fam. Fabaceae), sono infatti due di quei sei “Alberi Pioggiadoro” citati poco oltre. «The Golden Rain Tree» è per Plath l’albero del padre, biologo e entomologo, appassionato apicultore cui ella dedica la notevole poesia The Beekeeper’s daughter (1959): un turbinìo di colori e vibrazioni, di palpiti e profumi, cui si oppone il segno di una dolente immobilità.  

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La figlia dell’apicultore

Un giardino di bocche frementi. Viola, picchiettate di scarlatto, nere
le grandi corolle si dilatano, arrovesciando le loro sete.
Il loro muschio dilaga, cerchio dopo cerchio,
un pozzo di profumi troppo densi quasi per il respiro.
Ieratico nella tua redingote, gran maestro delle api,
ti muovi tra gli alveari dai molti seni.

Il mio cuore sotto il tuo piede, sorella di una pietra.

Gole a tromba si aprono al becco degli uccelli.
L’Albero Pioggiadoro stilla le sue polveri.
in questi piccoli boudoir screziati di rosso e arancio
le antere inchinano il capo, potenti come re
a generare dinastie. L’aria è densa di odori.
Ecco una sovranità di regina che nessuna madre può disputare –

un frutto che è morte assaggiare: polpa scura, scure scorze.

In cunicoli stretti come un dito, api solitarie
stanno di casa tra l’erba. Inginocchiata,
accosto l’occhio a una bocca e incontro un occhio
tondo, verde, affranto come una lacrima.
Padre, sposo, in questo uovo pasquale
sotto la ghirlanda di rose zuccherine

l’ape regina sposa l’inverno dal tuo anno.

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«Il mio cuore sotto il tuo piede», immagine straziante: l’aveva perso da bimba, a soli otto anni. Nell’esordio di Menade, sempre del 1959, di nuovo il laburno è associato al padre: «Un tempo ero ordinaria: / sedevo presso il laburno di mio padre / mangiando le dita della saggezza». Invece, in Letter in November (1961) i baccelli del laburno con simpatica metafora sono assimilati alle code di topo («The streetlight / Splits through the rat’s-tail / Pods of the laburnum at nine in the morning»).

Nella mia memoria botanica, il maggiociondolo è l’albero che lega nel dialogo poetico-esistenziale Sylvia Plath e Ted Hughes. Gioioso, caldo, solare nel giallo dei fiori a grappoli, penduli al vento di maggio, giallo come le giunchiglie che i due raccolsero nel giardino di Court Green e vendettero a mazzi. Ma venefico specie nei semi, finanche esiziali: «un frutto che è morte assaggiare».

E velenose furono anche le accuse di istigazione al suicidio scagliate da Ted in The laburnum contro la madre di Sylvia, Aurelia, e l’analista Ruth Beuscher, responsabili anche di averla convinta a divorziare. Sull’immagine luttuosa dell’albero sradicato si accumulano i riferimenti metaforici agli arnesi da taglio (lame, seghe, asce), che affrettano la tragica conclusione.  

Dimmi
che quest’estate siederemo insieme
sotto il laburno. Ma il laburno
non c’è più. Sì, dissi, sì, sì, sì.
Il laburno drappeggiato di morte nella penombra azzurra.
Il laburno come un cadavere vestito di giallo pieno.
L’enorme orologio del laburno fermo sul mezzogiorno
che suona suona mezzogiorno –
chi ha divelto il laburno? Così lontano da dove
le seghe delle loro parole lavorarono su di te, tutta quella settimana,
le piccole asce delle loro parole. Volevano che tu sapessi
tutto quel che pensavano dovessi sapere

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su quel che avevamo sentito.
Con limette da unghie
affilarono i loro dentini, tutti i fili di lama
per farla finita, un favore
fatto a te. Il loro corpo anelava
all’azione. E i loro occhi anelavano
allo spettacolo dei ramoscelli invernali, tremanti. Colpite
più forte, avrei detto probabilmente, incidete più a fondo. E così fecero. Tua madre
battendo a macchina le sue lettere vide i baccelli sputare
velenosi semi di laburno, che si sparsero sui fogli –
doveva toglierti da sotto quell’albero,
togliere quell’albero da sopra di te. Spinse
più a fondo le dita. Non aveva insegnato
alle mani a battere sulla tastiera
tutta la vita per nulla. Il laburno
si rafforzava solo nel mio sonno,
l’inverno era poco più che a metà. Ho bisogno,
dicesti loro, solo di verità. Ti consolarono
con gli ululati del loro divorzio, con la vendetta
che tu non riuscivi a trovare in te, con un futuro
che non riuscivi a trovare in te.
Con le mani nude strapparono il laburno
dalle radici. Solo la verità, supplicasti,
solo la verità. Risero quasi
nel mostrarti la tua tomba, la fossa fresca
delle radici – spezzate nell’aria. Chi altro osa
dirti queste verità? Siamo tue amiche sincere.
Poi fecero un passo indietro per lasciare che accadesse.

Così, nel mio sonno, senza che udissi un sussurro,
il laburno cadde.

Pianta sacra a Maia, una delle Pleiadi, genitrice di Ermes psicopompo, venerata a Roma come dea della fecondità e della primavera. In quanto emblema di Maia, il maggiociondolo rinvia al ciclo di vita e morte che ripropone nel giallo luminoso, raggiante dei fiori, e nell’alcaloide (la citisina ché i botanici la classificano anche come Cytisus laburnum L.) che innerva tutte le sue parti e, come detto, massima si concentra nei semi. 

Eppure, quanto meno vario e ricco, più noioso, sarebbe il mio giardino se dovessi bandirvi tutte le piante tossiche. Come poi spesso accade, i veleni naturali sono anche dei toccasana, e la citisina provoca sì convulsioni dei centri vasomotori e respiratori ma è pure rimedio farmacologico contro il tabagismo. 

Non penso invece che l’attributo “Pioggiadoro” debba essere letto come un riferimento al mito di Danae e Zeus che in forma di pioggia dorata la rende madre di Perseo (cfr. N. Gardini, nota a Ted Hughes, Poesie, Meridiani Mondadori, p. 1684). Più banalmente è la traduzione di Goldregen il nome popolare tedesco dell’albero, e vista l’origine germanica di Otto Plath (oltre a quella austriaca della madre), fin dall’infanzia Sylvia l’avrà sentito chiamare così in famiglia.

Comunque, il maggiociondolo è un piccolo albero delizioso dal portamento un po’ scomposto e chioma ariosa, con foglie decidue nondimeno bellissime: a inserzione alterna sul lungo picciolo, trifogliate con lamine ellittiche a margine intero, con pagina superiore glabra e l’inferiore tomentosa e argentea. I fiori riuniti in racemi penduli come quelli del glicine hanno però corolle rette da un verde calice campanulato, fiori gialli oro dal petalo supero (vessillo) più vistoso, carenato e screziato di rosso, dieci stami aranciati, pistillo bianco e pelosetto: dondolano a maggio sprigionando tutt’intorno luce e allegria. I frutti sono piccoli legumi piatti, pubescenti, contenenti scuri semi reniformi. Nella varietà montana (Laburnum alpinum) i fiori, raccolti in grappoli più densi e lunghi, sono odorosi e con vessillo privo delle striature rubre. Il legno è duro, resistente e di bruno durame, usato per pali e recinzioni, lavori d’intarsio e per confezionare strumenti a fiato.

È pianta pioniera, che ama i suoli calcarei perciò frugale, oltre che eliofila e azotofissatrice. Leggenda vuole che le streghe, durante i sabba, cavalcassero verghe di maggiociondolo e lo usassero per preparare pozioni psicoattive che consentissero il “volo magico”. Sylvia Plath, poeta di magici voli, ne era certo al corrente.

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