Le insidie delle immagini

9 Novembre 2022

In un baleno registriamo e condividiamo attraverso i social le nostre esperienze più eccitanti, senza concederci il tempo di viverle fino in fondo. Non ci preoccupiamo neppure di conservare il loro ricordo, confidando nel fatto che il backup automatico dell’applicazione lo farà per noi. I dispositivi mobili vedono, ascoltano e ricordano al posto nostro, inviando a corporation e a governi dati relativi alle nostre preferenze e ai nostri comportamenti.

L’immagine digitale che appare sui display e circola in Rete è composta da una parte algoritmica e da una parte visiva (ciò che l’algoritmo fa apparire temporaneamente sullo schermo); quest’ultima fa da esca ad altri procedimenti di calcolo utilizzati dai sistemi di controllo e sorveglianza per estrarre informazioni (Ingrid Hoelzl, Image-Transaction, in Networker Liminality, Parallax, 2020, Vol. 26, N.1, pp. 20-23). Stiamo assistendo a una scomparsa del soggetto della visione e contestualmente alla nascita di un nuovo sguardo, quello del dispositivo che ci guarda e controlla.

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IOCOSE, A Crowded Apocalypse (2012).

Nel libro Le insidie delle immagini (Postmedia, Milano 2022) Sara Benaglia e Mauro Zanchi indagano sullo statuto delle immagini retroilluminate che appaiono sui monitor dei computer e sui display dei dispostivi mobili, ripercorrendo la strada che la fotografia ha fatto dalle sue origini fino ad oggi in compagnia della metafotografia. Se l’introduzione orienta il lettore, il primo capitolo (Mediare, ancora) chiarisce il modo in cui si debba intendere il termine metafotografia: “il linguaggio di cui la fotografia si serve per parlare di se stessa e [al contempo] per interagire con altri sistemi” (p.23). Dopo aver specificato le ragioni per cui è stato adottato l’uso del prefisso “meta”, il saggio entra nel merito dei processi tecnologici che hanno causato lo “sfondamento del concetto di visione finora conosciuto” (p. 86).

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Carloalberto Treccani, Precision balance with TDK 4 GB USB flash drive (2012). Il dittico è un omaggio alle Misurazioni di Mario Cresci.

A interessare gli autori non è solo la digitalizzazione dell’immagine fotografica e la sua frenetica circolazione in internet, ovvero ciò che Joan Fontcuberta indica con il termine postfotografia (coniato nel 1988 dall’artista David Thomas), ma anche la relativizzazione dell’occhio come dispositivo di visione. Scrivono Benaglia e Zanchi: “La vera novità sta nel fatto che le immagini digitali possono essere lette dalle macchine in un modo completamente diverso da come farebbe un essere umano” (p. 36). Inoltre la tecnologia Machine to Machine (M2M) permette ad alcune macchine di vedere il mondo per altre macchine. I lettori automatici di targhe o i software di studio del comportamento degli acquirenti nei video di sorveglianza dentro luoghi di commercio al dettaglio generano una visione senza soggetto, che mette in soffitta la concezione antropocentrica e umanistica dello sguardo. 

Lo sguardo fotografico che estende i suoi confini oltre la fotografia è anche uno sguardo su “qualcosa che non abbiamo ancora visto, sentito, percepito, ascoltato, immaginato”. Nel saggio La fotografia come medium estendibile (Postmedia Books, Milano 2022), che possiamo considerare complementare a Le insidie delle immagini, Mauro Zanchi esamina il rapporto che questo sguardo intrattiene con l’immaginazione. Non è lo sguardo che controlla e sorveglia ad essere il principale oggetto di questo studio ma l’esperienza visiva in bilico tra scienza e incanto poetico. In questo saggio si chiarisce quale sia il rapporto tra la metafotografia (la “possibilità di trovare nuovi sensi nel passaggio da un linguaggio a un metalinguaggio [e nei] continui tentativi di reinventare il medium”) e l’oltrefotografia (“qualcosa che la fotografia non ha ancora mostrato o colto” (p. 32). Se La fotografia come medium estendibile mette in rapporto il prefisso “meta” con il prefisso “oltre”, Le insidie delle immagini si focalizza sul “meta”.

La fotografia sconfina in processi algoritmici e computazionali, talvolta riunendosi in medium di ordine superiore detti metamedium. Il computer “è il primo metamedium” dove sistemi diversi possono operare in compresenza, ricordano gli autori citando i ricercatori informatici Alan Kay e Adele Goldberg.

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Alan Kay e Adele Goldberg, mock-up del futuro Dynabook (1972).

Andrea Pinotti e Antonio Somaini riferiscono questa compresenza di media al concetto di multimedialità, differenziandolo da quelli di intermedialità, transmedialità, rimediazione e rilocazione, tutti processi riconducibili alla necessità dei media di dialogare tra loro (Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Einaudi, Torino 2016, pp. 158-164). In questo senso è da intendere il passaggio dalla fotografia alla scultura e viceversa nell’opera di Simone Bergantini, che trasforma fotocamere vintage in sculture in creta per poi fotografarle, oppure, con uno scambio disciplinare oltre che mediale, la fusione tra pratica fotografica, giornalismo d’inchiesta e attivismo ecologico nel lavoro svolto da Subhankar Banerjee.

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Simone Bergantini, Modèle 1 (2019-2020).

Per Benaglia e Zanchi la metafotografia è una pratica di ri-mediazione, ma anche una presa di coscienza del fatto che le immagini ci guardano mentre le guardiamo. È una critica al “capitalismo della sorveglianza” che sfrutta questo scambio di sguardi sotto forma di dati come materia prima per pratiche commerciali (Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019). 

Il saggio esamina queste insidie in dieci capitoli dedicati ad approfondimenti su codice, metadata e memoria, intelligenza artificiale e machine learning, algoritmi e Softimage, ai quali si aggiungono sei conversazioni con artisti che affrontano questa deriva del fotografico. È infatti possibile contrastare l’invadenza di queste tecnologie che penetrano nel nostro privato non solo con un atteggiamento critico, ma anche attraverso un atto creativo che scompagina le strategie di chi ci spia e plasma attraverso di esse.

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Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 1.Report a Problem (2012). 

Emilio Vavarella lo fa portando l’attenzione sul glitch, sull’errore che rende visibile ciò che un sistema cibernetico nasconde. Jason Isolini sovverte la logica di Google Maps caricando dei collage surreali anziché immagini panoramiche riprese dal vero (l’artista ha in precedenza lavorato a contratto per Google Maps fornendo panorami a 360°). Erik Kessels decontestualizza le immagini fotografiche prelevate dal web per restituire loro una visibilità che l’accumulo in rete ha depotenziato. Simone Santilli esplora il rapporto tra gaming, fotografia e cinema, analizzando lo scambio di ruoli e di funzioni: “le fotocamere sembrano joystick, e i professionisti fotografano all’interno dei videogiochi” (p. 212).

Insieme all’interesse per la metamorfosi dei sistemi di rappresentazione provocata da un’accelerazione tecnologica, emerge anche la necessità di assumere una posizione critica rispetto alle politiche dell’informazione. Per smascherare il modo in cui l’immagine fotogiornalistica della sofferenza umana “matura valore attraverso lo sguardo” (p. 164), Adam Broomberg e Oliver Chanarin si sono fatti accreditare come embedded journalist in una zona di guerra, portando con loro un rotolo di carta emulsionata, che esponevano alla luce per registrare in modo astratto l’istante di tempo in cui accadeva qualcosa. Scopo del loro progetto era suscitare un dibattito intorno alle immagini di guerra (p. 165). 

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Broomberg and Chanarin, Everything Was Beautiful and Nothing Hurt, Installation View, FoMu, Antwerp (2014).

Anche la chimica fotografica può avere un portato ideologico, come la pellicola Kodak che era più efficace nel riprodurre la pelle bianca rispetto a quella nera, tanto che Jean-Luc Godard la considerava “razzista” (p. 53 e 160). Per altre ragioni, anche Medardo Rosso aveva delle riserve nei confronti della tecnologia Kodak: “Mai conosciuto gente più legalmente assassina dei fotografi” dichiarava in una lettera inviata a Ricci Oddi il 22 marzo 1927, disapprovando l’uso di quello che definiva “occhio Kodak”, ovvero l’aderenza del fotografo alla specificità del medium. Rosso utilizzava in modo improprio la fotografia per negoziare con la scultura. Un caso di metafotografia che corre in parallelo alla storia della fotografia?

La digitalizzazione dell’immagine “ha disseminato il fotografico ovunque” spiegano gli autori, precisando che la metafotografia non cancella la fotografia ma vi si sovrappone. Le funzioni ottiche della camera digitale sono connesse con l’algoritmo informatico e quindi con operazioni diverse da quelle fotografiche, interessate ai metadati che l’immagine veicola (data, luogo, tag, commenti, visualizzazioni). In altri termini, gli aspetti visivi dell’immagine sono secondari rispetto a quelli algoritmici e computazionali, “il capitale semantico di un’immagine è quindi alle dipendenze di fattori che surclassano le precedenti economie visive dell’immagine” (p. 70), che diventa così insidiosa.

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Simone Bergantini, Addiction #1 (2013).

L’insidia maggiore delle immagini forse consiste nel guardarle su un display touch. Gli effetti percettivi connessi alla loro esplorazione impongono all’osservatore di vedere attraverso operazioni tattili. È un’esperienza più sottile di quella che promette la pelle digitale “e-skin” progettata per il metaverso dal Dipartimento di Scienze e Ingegneria del Materiali della Pohang University of Science and Technology, una pelle che permette a chi la indossa di percepire in modo tattile gli oggetti esplorati nella realtà virtuale.

Più sottile perché innalza il senso di presenza in questa nuova realtà attraverso un’esperienza tattile mediata da gesti codificati, da una sorta di galateo che regola il nostro comportamento percettivo entrando in rapporto con il mondo dei segni. Swipe, touch, drag, pinch-open sono gesti codificati che appartengono a un sistema di scrittura indipendente dal linguaggio. Non si tratta solo di un passaggio dal paradigma ottico a quello tattile, nell’economia di una tecnologia che sfrutta una risposta diretta ed emotiva per calarci in un mondo di emozioni e desideri, ma di una trasformazione dei sistemi di comunicazione che, come osserva Simone Santilli nella quinta conversazione (pubblicata anche qui), includono anche “un esperanto fatto di hashtags ed emoji, inglese smozzicato, manuali dell’Ikea, gif animate, meme e via dicendo” (p. 209). 

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Lo studio di Benaglia e Zanchi ci porta nel vivo della mutazione a cui è sottoposta l’immagine nell’era dell’algoritmo visuale denunciando gli abusi dell’algocrazia e la pratica discriminatoria del redlining, criticando la politica visiva dei governi, stigmatizzando il rifluire della produzione culturale all’interno di piattaforme commerciali, analizzando fenomeni sconcertanti, come l’utilizzo della App With Me che consente ai vivi di dialogare con i morti (p. 156), o la pratica del killfie (pp. 153-155).

L’impulso di affermare la propria esistenza attraverso i social spinge un numero consistente di persone a scattare dei selfie in condizioni di estremo pericolo. Il killfie, neologismo composto da killer più selfie, mette in pericolo la vita di chi paradossalmente desidera affermarla. È una delle contraddizioni che testimoniano il disorientamento provocato dalle immagini insidiose che circolano nel “capitalismo di piattaforma”, alle quali Benaglia e Zanchi dedicano uno studio attento e puntuale.

L'immagine di copertina è di Evan Roth, Since You Were Born, 2019-2020.

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