Un albero empatico e amico / Leccio, mitologie del distacco

28 Febbraio 2016

Espandono la densa e scura chioma tondeggiante fin quasi a terra i lecci tenaci. Le grosse branche si dipartono presto dal tronco e danno loro quell’espressione solida, affidabile che li contraddistingue e che ha indotto Italo Calvino – figlio di illustri botanici – a piazzarne uno in favore di finestra per la fuga del suo rampante barone costretto a mangiar lumache:

 

Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. […] Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: – Ho detto che non voglio e non voglio! – e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave. […]

 

 

Trovai quindi naturale che il primo pensiero di Cosimo, a quell’ingiusto accanirsi contro di lui, fosse stato d’arrampicarsi sull’elce, albero a noi familiare, e che protendendo i rami all’altezza delle finestre della sala, imponeva il suo contegno sdegnoso e offeso alla vista di tutta la famiglia. […] Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo, e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla fronte.

 

 

Un albero empatico e amico, che consente a Cosimo di salire a un altro mondo, offrendogli le sue braccia per passare all’olmo vicino – «alto di palco» perciò difficilmente arrampicabile da terra – e, di albero in albero, di guardare dall’alto in basso la vita di chi rimane a terra. 

 

 

Elce o leccio che dir si voglia, si tratta sempre di Quercus ilex. Quercia, dunque, e sempervirens, dalle foglie coriacee d’un verde cupo ma lucido nella pagina superiore, tomentose e argentee (come le giovani frasche) in quella inferiore. Per giunta, foglie eterofille: curioso fenomeno per cui sullo stesso esemplare si hanno lamine fogliari di forme e dimensioni molto diverse, brevi o lunghe, ellittiche o lanceolate, con base a cuneo o arrotondata, dal margine intero o dentato (ilex). Le ghiande maturano in autunno inoltrato; portano un cappuccio coprente la capsula fin quasi al mezzo, mucrone rilevato in apice. Sono edibili, e non soltanto da animali: tostate, nei tempi magri fornivano un succedaneo del caffè; nell’Ogliastra ci facevano farina per il pane.

Tipico albero mediterraneo, è simile alla sughera, salvo per la scorza, liscia e chiara da giovane, che negli anni si incide in piccole scaglie scure.

 

 

Legato a mitologie del distacco – tale è anche la vicenda di Cosimo – consente ascese ribelli ma anche eroiche discese: frondeggia su un ombroso elce («opaca ilice») il ramo d’oro che consente a Enea l’ingresso all’Ade. Nel novero delle leggende funebri va poi recuperata quella che la madre racconta a Angelo Uras, protagonista del romanzo di Giuseppe Dessì Paese d’ombre (premio Strega 1972):

 

Piangeva per se stessa e per lui, per l’anima nuda di Francesco Fulgheri, e recitò mentalmente la preghiera dei defunti. Era stato buono, con loro, li aveva protetti in vita e avrebbe continuato a proteggerli anche dopo morto, il burbero, stravagante, bisbetico Don Francesco. Madre e figlio piansero abbracciati. Poi lei cominciò a rivestirlo mentre lui le raccontava ancora una volta come aveva trovato il vecchio in fondo al greto del fiume, sotto il calesse fracassato, con la lunga ferita che aveva cessato di sanguinare e che aveva irrorato una pianticella che cresceva tra i ciottoli proprio ai piedi del grosso masso liscio.

– Una pianta di felce? – chiese lei asciugandosi gli occhi.

– Una pianta di elce – rispose Angelo, come se la cosa avesse importanza. Allora parlò lei, sommessamente, e per la prima volta gli rivelò che l’anima dei defunti, secondo un’antica credenza di Norbio, dopo aver vagato per la campagna come l’odore di un’erba o di un fiore, sceglie una tenera pianta, e vi si rifugia, e in quell’asilo vegetale rimane fino a quando non piaccia a Dio di accoglierla nella sua gloria.

 

In quella lontana, mitica Sardegna gli alberi erano un purgatorio ben più clemente di quello dantesco. Teniamone conto. Teniamoli da conto.

 

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