L'epica del naufragio

29 Agosto 2024

C’è stata un’epoca in cui il naufragio – letteralmente “rompere la chiglia” della nave – era un evento temuto ma al tempo stesso carico di un elemento epico, dal momento che è uno dei possibili esiti della navigazione, come scrive Esperanza Guillén, conseguenza d’una passione che spinge l’uomo “ad ampliare i limiti del quotidiano”. Byron coi suoi versi celebra l’idea dell’amore legata alla morte per mare: “Ti osservai tra la schiuma./ E sulla roccia/ sbatté la nostra prora. La tempesta/ ruggiva e tu, fragile e spaventato/ tutto e tremante, ti abbracciavi a me/ Il mio braccio forte era la tua barca/ e il mio petto la tua eterna sepoltura” (Amore e morte, 1824). In quell’epoca oramai lontana pittori come Claude-Joseph Vernet (1714-1789), Johan Christian Clausen Dahl (1788-1857), Charles Wood (1793-1856), Wijnand Nuyen (1813-1839), e altri, dipinsero grandi quadri che rappresentavano celebri naufragi. Era il momento in cui si diffondeva nella cultura europea l’idea del sublime attraverso gli scritti di Edmund Burke e Immanuel Kant. Davanti allo spettacolo del mare, forza primigenia della Natura, che sommerge e distrugge le grandi navi a vela, sorge il sentimento di sgomento e al tempo stesso quello di una possibile superiorità morale dell’essere umano.

La Natura appare sublime perché spinge l’immaginazione a raffigurarsi situazioni “in cui l’animo può percepire la speciale sublimità della propria destinazione, anche al di sopra della natura”. Il sublime non è il mare scuro battuto dai venti e neppure la lotta che la nave conduce per restare a galla, piuttosto il sentimento che è in grado di sviluppare in chi osserva a distanza, dalla riva del mare, la lotta coi flutti. Naturalmente una cosa è trovarsi a bordo dei velieri sbattuti da un fortunale di grandi dimensioni e un’altra contemplare queste pitture nelle esposizioni o nei musei cui sono destinate da committenti come il Museo della Marina di Parigi. William Turner, pittore di naufragi e burrasche, per dipingere il suo Tempesta di neve (1842), si fece legare per qualche ora all’albero maestro della Ariel, volendo sperimentare gli effetti di un temporale. È con il celebre quadro di Théodore Géricault, La zattera della Medusa (1818-19), che si modifica la pittura dei naufragi e insieme l’idea eroica che s’accompagnava a questi eventi perigliosi.

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Le radeau de la Méduse (1818), Théodore Géricault © 2010 GrandPalaisRmn (Musée du Louvre), Michel Urtado. 

La fregata Meduse, inviata in Senegal per sostenere il dominio coloniale francese, fu portata al disastro dal suo capitano incapace; gli alti ufficiali si imbarcarono sulle sei scialuppe mentre centoquarantanove uomini, e con loro la cuoca di bordo, salirono su una zattera che vagò per due settimane nel mare. Il resoconto di quel naufragio, cui si accompagnarono episodi di follia, disperazione, fame e sete – sopravvissero solo quindici persone – fu raccontato da due naufraghi, Alexandre Corréard e Henri Savigny. Il primo scrisse un libro di memorie in cui riferiva come i sopravvissuti si fossero cibati di morti e ucciso i più deboli. Il quadro di Géricault, come ha scritto lo storico dell’arte Hugh Honour, fu la prima opera pittorica in cui i grandi temi eroici del passato, i riferimenti storici e mitici, furono usati per narrare le sofferenze della gente comune; l’effetto fu che l’eredità della Rivoluzione e quella delle guerre napoleoniche, che insistevano sulla nobiltà della morte, furono messe seriamente in crisi.

L’idea della navigazione come rischio da Goethe a Nietzsche, ovvero nel solco della tradizione romantica, sottolineava il tema vincere o fallire. Il poeta scrive a Lavater nel 1776: “Adesso sono imbarcato sull’onda del mondo, assolutamente deciso a scoprire, vincere, fallire o saltare in aria con tutto il carico”. Gli fa eco il filosofo in La gaia scienza (1882): “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! (…) e non esiste più ‘terra’ alcuna”. In un racconto autobiografico incluso in Lo specchio del mare (1906), “Fedeltà della nave e crudeltà del mare”, Joseph Conrad, che aveva fatto lui stesso naufragio nel corso delle sue innumerevoli navigazioni nei mari di tutto il mondo, racconta il soccorso prestato dalla propria nave ai marinai di un brigantino che sta per affondare. Nella narrazione, questo polacco naturalizzato inglese sino a diventare uno dei maggiori prosatori in quella lingua, mette bene in luce l’insondabile crudeltà del mare: “In quella giornata deliziosa di pace dal dolce alitare e di luce solare velata perì il mio amore romantico per quello che l’immaginazione degli uomini ha proclamato essere l’aspetto più augusto della natura.

La cinica indifferenza del mare per i meriti dell’umana sofferenza e del coraggio, messa a nudo nel ridicolo e sbigottito spettacolo estorto a nove bravi e onesti marinai ridotti allo stremo, mi nauseò”. Il giovane Joseph comprende in quel momento la duplicità della passione per il mare, e capisce cos’è la vita che si è scelto e il fascino incantatore di quella immensa distesa d’acqua: “Le sue illusioni se ne erano andate, ma il suo fascino restava. Ero infine diventato un marinaio”. Comincia così un’altra idea del mare, più laica ma non meno avventurosa. E oggi? Cosa è per noi il naufragio in un mondo così tecnologico e interconnesso, dove il mare è controllato attraverso sonde, sonar, scandagli, telefoni satellitari? L’emigrazione attraverso i mari, in particolare attraverso il Mare Nostrum, ha trasformato la morte per acqua, ci ricorda Esperanza Guillén, in uno dei più tragici fenomeni della storia contemporanea.

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Ship at Sea,Albert Ernest Markes (British, 1865–1901 Newquay).

Non possiamo certo considerare sublimi e neppure epici questi continui naufragi lungo le nostre coste. La decisione di chi sale su gommoni affollati, barche precarie, carrette del mare, per attraversare il braccio d’acqua che separa da un approdo favorevole, inseguendo l’utopia della prosperità e del lavoro, non si può considerare dello stesso coraggioso dell’imbarco dei marinai del passato. La disperazione è la sola ragione che spinge migliaia e migliaia di persone a salire su quelle imbarcazioni, mentre noi abitanti dell’altro lato del mare ci sentiamo in colpa per la loro ingiusta e mostruosa sorte. I romanzi dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento ci tramettono la testimonianza di un mondo in cui le navi, fragili vascelli di legno e fasciami, erano in balia della forza ingovernabile degli oceani, eppure questa somma fragilità trametteva un senso di libertà e d’indipendenza che ancora ci colpisce proprio per la capacità di “riuscire a scuotere l’immaginazione degli uomini, soprattutto romantici” (Guillén). Per quanto le navi del passato siano state sostituite da navi di metallo, anche esse affondabili, com’è accaduto al Titanic, sappiamo che il naufragio dei migranti non è causato tanto dal mare, ma da altri uomini e donne che ne impediscono il soccorso.

Per questo, conclude Esperanza Guillén, il quadro di Géricault La zattera della Medusa rappresenta il naufragio non solo del XIX ma anche del XXI secolo con il suo carico di nequizie, colpevoli responsabilità, bramosie di potere e supremo egoismo. Tuttavia sarebbe un errore cancellare per questo la memoria di quegli uomini e donne che, imbarcati su fragili vascelli, solcavano i mari non solo per professione, ma per un’innegabile sete d’avventura. È ancora possibile commuoversi dei loro complicati destini.

Da leggere:

E. Guillén, Naufragi. Immagini romantiche della disperazione, Bollati Boringhieri; H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, il Mulino; J. Conrad, Lo specchio del mare, il Melangolo; Racconti di vento e di mare, a cura di G. Bertone, Einaudi. 

Questo articolo è stato pubblicato su "la Repubblica", che ringraziamo.

In copertina, Whalers,Joseph Mallord William Turner (British, London 1775–1851 London).

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