Lévi-Strauss: Il miele, il tabacco, il mito

28 Ottobre 2023

Il miele: la sostanza naturale più artificiale che ci sia, l’esito più sofisticato di una trasformazione gastronomica operata da un’organizzazione sociale fortemente gerarchizzata e assai devota al duro lavoro collettivo: quella delle api – esserini dotati fra l’altro, oltre che di una formidabile architettura, di un linguaggio parecchio efficace comunicativamente e assai rilevante dal punto di vista estetico. La celebre danza che procurò al suo scopritore, l'etologo austriaco Karl von Frisch, un meritato premio Nobel. 

Cucina avant la lettre, il miele stava già qui, sul pianeta terra, ben prima dell’arrivo dei vari tipi di homo che, molti millenni dopo, sono spuntati da queste parti. Di modo che gli scimmioni umanoidi – che col vitto ricercavano già da subito i piaceri del gusto – hanno iniziato prontamente a nutrirsene, apprezzandone la delicata dolcezza e gestendo con maniacale attenzione la non facile relazione con chi quella magnificenza del palato sapeva elaborare. Le api, appunto, animali culturali prima dell’arrivo d’ogni civiltà umana e, per questo, personaggi concettuali che, per il loro stesso esistere, scombussolano ogni aprioristica opposizione fra ambiente e storia, umani e non umani. Se, come insegnano gli antropologi, nell’immaginario diffuso quel che consideriamo ‘natura’ è l’effetto di senso determinato da prodotti poco elaborati e ‘cultura’ quello ottenuto grazie a prodotti molto elaborati, da quale parte sta questo rompiscatole oggetto metafisico che è il miele? E sorge spontanea un’ulteriore domanda: ma chi avrà dato mai alle api la ricetta segreta di questa straordinaria pietanza che, non a caso, era la preferita degli dèi greci e latini, nonché il simbolo della Terra Promessa, il nettare egizio con cui imbalsamare i morti e, manco a dirlo, una fonte preziosa per innumerevoli metafore sessuali? 

La cosa non poteva non interessare Claude Lévi-Strauss, l’antropologo che, senz’altro più e prima di tanti altri, ha dato alla cucina un posto d’onore fra i costituenti principali delle società umane: “così come non esiste società senza linguaggio – ha scritto –, non ne esiste nessuna in cui, in un modo o nell’altro, non si facciano cuocere certi alimenti”, di modo che, continua l’autore di Il crudo e il cotto, “la cucina d’ogni società è un linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la propria struttura e le proprie contraddizioni”. In tal modo, dopo aver esaminato, nel libro appena citato, la maniera in cui le pietanze cucinate – e le loro qualità sensibili (dolce/amaro, acido, salato, secco/umido, pungente/morbido, caldo/freddo…) – giocano un ruolo essenziale nella logica delle mitologie amerindie, dicendo tantissimo delle culture che questi miti tramandano per generazioni, Lévi-Strauss si occupa di ciò che sta intorno alla cucina stessa, allargandone di fatto la portata. 

Ed ecco Dal miele alle ceneri (appena rimandato in libreria dal Saggiatore, pp. 590, € 32), secondo volume della serie delle Mitologiche, uscito per la prima volta nel 1967 dopo appunto Il crudo e il cotto (1964) e prima di Le buone maniere a tavola (1967) e L’uomo nudo (1971) – e già dai titoli si percepisce il profondo interesse di questo studioso per la cucina e l’alimentazione, il gusto e la commensalità. In questo libro viene chiaramente dimostrato come, se pure il senso comune individua i confini della cucina nelle pratiche di cottura (e, parallelamente, nella gestione di ciò che, pur non essendo cotto, è comunque lavorato a fini alimentari, dunque il crudo e il putrido), tali confini vanno negoziati ogni volta, nelle varie culture e nelle relative storie raccontate al loro interno. Da qui l’importanza del miele (che, stando al di qua della cucina, viene definito infraculinario) e del tabacco (il quale invece, incorporando e trascendendo le pratiche di cottura, viene inteso come metaculinario).

Generalmente nell’immaginario occidentale si accosta il miele al latte, dato che entrambi stanno nelle tavole dell’Olimpo e affini. Lévi-Strauss, più interessato alle culture tradizionali americane, lo oppone invece al tabacco, col quale – come si evince dall’analisi dei molti miti in cui sono entrambi presenti – condivide questo strano destino di essere una materia culinaria e no, alimentare e no, senza perdere il ruolo simbolico basilare di qualcosa che, prima ancora d’essere buona da mangiare, è buona da pensare. Da una parte il miele è una sostanza che si offre già pronta al consumo degli esseri umani senza che costoro abbiano minimamente contribuito alla sua preparazione. Il tabacco, al contrario, ha bisogno di essere più che cotto, letteralmente incenerito, per poter essere gustato. I racconti mitologici delle tribù amerinde, dai Bororo agli Apinayé, dai Yabarana agli Opaié e così via, non fanno che sfruttare questa opposizione per ricostruire cosmologie e società, per articolarle, costruire gerarchie, filiazioni e alleanze. Per dare cioè un senso al mondo umano e sociale, dove l’intersoggettività include uomini e cose, animali e vegetali, sostanze e materie. Il mito, del resto, è un racconto narrato quando ancora non esisteva una distinzione fra uomini e animali.

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Miele e tabacco si oppongono già nelle loro qualità sensibili: chiaro e scuro, viscoso e polverizzato, saporito e aromatico, pesante e leggero… Qualcosa del genere accade nelle lingue, piene di figure retoriche che fanno uso di entrambe le sostanze. Da svariati secoli si usano espressioni come “dolce come il miele” o “tutto miele” per indicare una persona affabile. Di contro per sostenere che qualcosa non vale nulla in francese si dice “cela ne vaut pas un pipe de tabac”, così come “tomber dans le tabac” significa finire in miseria. Analogamente in inglese “not to care a tobacco for..” significa disinteressarsi a qualcuno o a qualcosa, laddove in portoghese “tabaquear” vuol dire burlare qualcuno. Ma anche il miele può indicare elementi negativi, come quando diciamo che un discorso è mielato o una persona melliflua. Resta comunque abbastanza stabile l’idea che le espressioni che coinvolgono il miele sono laudative, mentre quelle col tabacco sono spregiative. Generalmente esse servono per dire, rispettivamente, l’abbondanza e la penuria, il lusso e la povertà; da un lato la dolcezza, la benevolenza, la serenità, dall’altro la turbolenza, la violenza, il disordine. Con buona pace di Oscar Wilde, potremo osservare, per il quale, si ricorderà, la sigaretta costituisce il piacere perfetto perché toglie il disturbo man mano che ci allieta. 

Un’opposizione tanto stabile quanto sbilenca, nota però Lévi-Strauss, dato che il miele, esistendo ed essendo utilizzato nelle tavole assai prima del tabacco, in qualche modo evoca già da subito il termine assente, l’idea cioè di qualcosa che, per far funzionare la significazione del magnifico prodotto delle api, deve possedere qualità a esso opposte. Come si evince per esempio dalla proibizione di offrire miele formulata nel Levitico, poiché una volta bruciata questa sostanza emana odori considerati sgradevoli. I miti amerindi dicono anch’essi di questa usanza di dar fuoco al miele, cui corrisponderà, in seguito, la produzione su larga scala dei tabacchi mielati. Per dirla con la linguistica, osserva così Lévi-Strauss, il miele conserva il ruolo di termine marcato, intensivo, là dove il tabacco prenderà quello di termine non marcato, estensivo. Osservazione da cui prendono corpo un metodo e una mentalità basilari: quelli per cui qualcosa è significativo anche se – e proprio perché – assente. In un mito, per dire, la mancanza del miele è importante perché nel mito della tribù vicina è invece presente; stessa cosa con il tabacco. 

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Da cui, poco a poco, l’esplorazione tanto paziente quanto sistematica di centinaia di miti e centinaia di tribù, con la quale Lévi-Strauss arriva a mappare con dovizia di particolari e folgoranti intuizioni filosofiche l’intero continente americano, la verità e la ricchezza delle culture che lo hanno abitato. Il pensiero selvaggio degli amerindi, come lo ha definito non senza ironia questo studioso in un altro suo celebre libro, si rivela in tal modo di una ricchezza stupefacente (sul piano logico prima ancora che sensibile) che soltanto la pavida hybris – melliflua, verrebbe da dire – degli europei riuscirà a non riconoscere. Esplorare i dintorni della cucina, i gusti e i disgusti che essa gestisce e provoca, diviene un buon esercizio non soltanto per restituire ai cosiddetti selvaggi la loro complessa metafisica, ma anche per additare la pochezza di tale occidentale, moderna, coloniale tracotanza. Per accendere il calumet della pace, e farsi una serena pipata tutti insieme, c’è ancora della strada da fare. Tanta. 

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