Lindo Ferretti e Davide Dall'Osso

6 Gennaio 2014

Una mostra in un piccolo paese dell'alto Appennino Tosco Emiliano può essere un'anomalia ma anche un evento culturale e un'occasione di intrattenimento: tutto questo e molto altro dentro la breve estate della montagna.
Una stagione questa, oggi consumata tra fiere e sagre per villeggianti e (pochi) residenti, fino a ieri teatro di un pullulare di vita, da maggio fino a settembre, prima di un'altra esistenza verso i pascoli della Toscana e della Pianura Padana.
Una mostra peraltro limitata, ma non occasionale e perfettamente coerente con i luoghi, e con l'originalità della collocazione.
Certamente originale solo se si pensa in termini "urbani", solo se si considera una mostra come esposizione di oggetti o elementi artistici, rappresentazione di concetti o idee che possono essere razionali o irrazionali, astratti o concreti ma sempre dentro una cornice e un contenitore "ordinato", luogo dove la rappresentazione, la mostra, l'evento culturale deve avere sede e palcoscenico.

Eppure due stalle lontane solo poche passi e un'aia di pietra sono state durante tre settimane il teatro raccolto per le sculture equestri di Davide Dall"Osso e per una testimonianza – la riproduzione fotografica nonché i costumi di scena – della Saga, Il canto dei canti, lo spettacolo equestre di Giovanni Lindo Ferretti. Nell'aia di pietra un enorme divano, bianco, spazio in cui sedere e riposarsi, icona di modernità e di nessuna nostalgia.

Evidente che l'apparente filo comune – tematico ed estetico – che hanno legato armature e mantelli, fotografie e sculture della mostra siano stati i cavalli. Sculture equestri quelle di Davide fatte con fili metallici o policarbonato: le prime di rame o ferro zincato a delineare musi e criniere, le arcuate fattezze degli animali che si stagliavano sui supporti naturali mentre le statue di policarbonato – con tutta la contrastante modernità della loro sostanza – attaccate – quasi ad emergere – sulle mura secolari di pietra arenaria.

 

 

Dentro ancora le statue di Dall'Osso ma anche e soprattutto le armature, gli elmi, i mantelli, i costumi di scena delle Saga e alle pareti le immagini dello spettacolo di Ferretti durante la rappresentazione estiva tenuta al Chiostro di San Pietro di Reggio Emilia in cui si sono raccontati alcuni frammenti di storia dell'antico sodalizio tra uomini, cavalli e montagna...
Una passione quella di Ferretti per i cavalli forte e di lunga data. Una passione-ossessione di cui chiacchierare diverse volte con lui, per poi chiedere nell'occasione ragione, e nella sua risposta c'è stato più o meno che "qualunque immagine ricordi della mia infanzia in paese è un'immagine che a che fare con gli animali, il loro muoversi in gruppo o in gregge, la presenza che riempie gli spazi".
Quella presenza e quel ricordo più tardi si è concentrata sui cavalli, più che ossessione sorta di essenza e di simbolo di una vita differente.
E lo spettacolo della Saga è pagine di storia di un territorio e del suo popolo liberamente reinterpretata, insieme alle gesta di cavalieri e alla presenza fisica dei cavalli a rappresentare, a far immaginare e percepire, anche fisicamente, quella vita differente...

Una vita diversa quella della montagna... comunque la si metta, comunque più difficile rispetto a quella delle zone costiere e di pianura, lontanissima per abitudini e attenzioni a quella che normalmente si può condurre in città. E più autentica... solo nel senso di forzatamente più spoglia rispetto a quello che oggi definiamo benessere o modernità... il clima, la rarefazione umana, i ritmi naturali, giocoforza e ancora oggi in grado di dettare inevitabilmente i contorni del vivere quotidiano...

Del resto, in tutto il fiorire di studi, discussioni, business... e talvolta chiacchiere a vanvera... sulla cultura e sulle civiltà mediterranee, spesso si dimentica che il Mediterraneo è anche e soprattutto montagne e come Fernand Braudel ci ha insegnato, nel Mediterraneo la presenza dei monti, per la vita degli uomini, è invadente come quella del mare: le Alpi, gli Appennini, in pratica tutti i Balcani, i monti del Tauro in Turchia, i Pirenei, i monti dell'Atlante sono elementi decisivi del paesaggio, del clima, dei modi in cui la natura detta le possibilità del vivere.
Gli Appennini poi, dal loro estremo limite occidentale, poco lontano dalle Alpi Marittime, fino al loro limite meridionale in Calabria, sono una lunga "spina" che si sprofonda nel Mediterraneo, dove l'altezza dei monti crea, anche a latitudini meridionali, quella che Braudel assimilava a un "nord verticale". Il modo di produrre e di vivere nella Sila era, ed è ancora, più simile alle popolazioni dell'Appennino Tosco Emiliano che ad esempio a quelle della Puglia o della Campania.
Il business dicevamo... certamente negli ultimi decenni è stato il "lato solare" della cultura e dell'alimentazione mediterranea di ciò che ha accompagnato l'attenzione dei media, del turismo, dell'industria alimentare, inevitabilmente dei consumatori...
La montagna, invadente nel Mediterraneo come il mare, è stata tuttavia attrice di gran lunga minore e misconosciuta nella valorizzazione della propria cultura, alimentare compresa.
Una tendenza, ed è difficile dubitare del contrario, che si ripeterà nel 2015 nell'occasione universale dell'expo. Almeno per quello che riguarda l'Italia – forte della sua riconosciuta ricchezza agroalimentare – si preannuncia un pullulare di valorizzazione del tipico, del tradizionale, dell'innovativo, dello scientifico, della qualità e sicurezza alimentare in tutte le sue diverse sfumature.
Programma comunque veritiero, lodevole, fotografia di una realtà agroalimentare interessante e tra le più ricche del pianeta, di un momento storico che ha nella sicurezza alimentare un imperativo assoluto.
Eppure il tema Dell' Expo 2015, Nutrire il pianeta, non potrebbe avere a che fare anche con la montagna e le sue popolazioni?
Almeno da un punto di vista culturale, quelle popolazioni sono state tra le più attrezzate per combattere (e vincere) la lotta quotidiana per la sopravvivenza. In un ambiente e in un clima tra i più ostili hanno sviluppato tecniche e strategie a basso impatto ambientale per sopravvivere ma anche per prosperare. Un'economia indirizzata allo sfruttamento dei pascoli, dei boschi, dedita ad un allevamento transumante (leggero sul territorio), ad un agricoltura stagionale come alle risorse spontanee (caccia, pesca, prodotti selvatici), almeno concettualmente ha qualcosa da proporre in contrasto con l'economia intensiva e stanziale, la cultura del grano, del pane, delle carni, del vino...
Non un ritorno ad impossibili ed arcaiche condizioni, ma il confronto, quello sì, con un diverso modo di utilizzo dell'ambiente, che era integrato e a basso impatto ambientale e in cui la povertà era ugualmente condivisa, ma soprattutto questo sistema non negava a nessuno un sufficiente accesso al cibo.
In questo senso, se Nutrire il pianeta sarà anche un momento per interrogarsi sulle possibilità e le modalità di sopravvivenza in un mondo che ha superato i sette miliardi di individui, se le strategie di utilizzo non usuranti del territorio e un diverso modo di consumare saranno tra i temi di riflessione, allora, probabilmente sarà necessario interrogarsi anche sulla cultura agroalimentare della montagna, sulle scelte e le strategie delle popolazioni nomadi, oggi marginali e chiaramente uscite sconfitte dalla storia della civiltà e della modernità.
Un paradosso? Forse... ma anche una possibilità qualora si guardi la storia di un mondo che ha scelto l'agricoltura e la tecnologia ma che non riesce ancora a garantire un sufficiente accesso al cibo per tutti.
Comunque sia e comunque sarà, le culture nomadi restano un'"altra cultura", testimonianza di un'altra economia, di un'altra ecologia, di un rapporto con la natura profondamente diverso, se non da recuperare, almeno da osservare, da considerare...
Del resto, lontano dal Mediterraneo ma con le stesse attitudini, le stesse scelte osservate o in parte vagheggiate, per lontane popolazioni, Jorge Luis Borges poteva scrivere:

 

"La generosità: virtù della pianura e dei pastori e mai di coloro che mortificano la terra diseguale e sono mendicanti dell'acquazzone e della siccità [i contadini].
Lo spazio, in pianura si fa infinito, il tempo, quadrettato nelle terre coltivate dalle quattro stagioni con le loro attività prefissate, tra i pastori aspira all'eternità. Crescono la comodità, la pigrizia la generosità, la narrazione che si insinua nelle serate, la musica e il ballo che non si affrettano ma vanno riempendo le ore poco a poco... Il tempo in queste narrazioni chimeriche non soltanto è dilatato: ha una fluidità del sogno...". (Jorge Luis Borges, Racconti del Turkestan)

 

Un altro modo di vivere il territorio, il lavoro, di concepire la vita...
In fondo, anche questi, "spazi di una visione"... su questi sentimenti, su queste percezioni, anche quando fossero indistinte, una mostra in un piccolo paese di montagna può aprire ad inaspettate suggestioni.

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