Ludwig Josef Johann Wittgenstein

29 Luglio 2014

Lo scorso inverno mi è capitato di leggere un libro molto bello: Wittgenstein. Una biografia per immagini, curata da Michael Nedo e pubblicata da Carocci. Non leggevo più il filosofo austriaco dalla fine degli anni Ottanta, dopo il termine dell’università, quando, insieme a Walter Benjamin, Wittgenstein era lettura obbligatoria: Benjamin ai seminari con Luciano Anceschi e i suoi allievi; Wittgenstein nelle letture che ne facevano Massimo Cacciari e le persone del suo giro, Michele Bertaggia e Giorgio Franck, da cui ho imparato l’importanza di Della certezza.

 

In quegli stessi anni Aldo Gargagni lo traduceva e ne scriveva in modo affascinante; poi la rivista “Nuova Corrente”, da cui appresi molte cose. Prima ancora c’era stata la tesi di laurea di Mario Porro sul Tractatus, discussa con Giovanni Piana; l’ho letta alla fine dei Settanta, ma non era molto facile. L’ultimo libro del filosofo austriaco che avevo preso in mano era stato Pensieri diversi (Adelphi), che mi sono trascinato dietro per un decennio, o quasi, con letture e riletture, e annotazioni a margine (oggi del tutto incomprensibili). Poi più niente.

 

Anche se continuavo ad acquistare, e a mettere da parte per il futuro – sempre più lontano –, i libri del filosofo che uscivano, i vari “quaderni” di differenti colori. La biografia curata da Nedo mi ha riacceso l’interesse. Contiene immagini d’epoca, dall’infanzia sino alla morte di Wittgenstein; ma la cosa più importante è che le didascalie delle foto e dei documenti sono composte di brani scritti dal filosofo, dai suoi amici e parenti, passi di lettere, citazioni dalle opere, conversazioni pubblicate postume. Piccoli testi, che legati alle fotografie, creano un cortocircuito tra parola e immagine.

 

Nel frattempo avevo cominciato a leggere le Lettere di Wittgenstein (dal 1915 al 1951), pubblicate da Adelphi, a cura di Brian McGuinness. Libro davvero imperdibile (voluminoso, e l’edizione italiana non è neppure completa). Ne leggevo un poco alla volta, quasi solo nei fine settimana, partendo da quelle più ostiche a Russell, e poi a Sraffa, davvero memorabili, per arrivare alle lettere dirette al giovane Norman Malcolm. Non ho ancora finito di leggerle, ma questa estate lo farò.

 

Sono un documento troppo intenso: da leggere poco alla volta. Preso dall’entusiasmo, dopo aver finito la biografia per immagini, ho riletto un vecchio libro Bompiani scritto da Malcolm, l’uomo che ospitò Wittgenstein nel suo viaggio in America, dove il filosofo scoprì di essere affetto dal cancro. Sono i resoconti delle conversazioni e degli incontri con il suo maestro a Cambridge; documentano anche le crisi tra loro, per via di una frase detta da Malcom che era parsa a Wittgenstein ben poco filosofica: un estremista del pensiero e della vita.

 

Questo libretto l’avevo letto quasi quaranta anni fa. Un ritratto bellissimo. Ho avuto l’impressione di cominciare a capire il pensiero di Wittgenstein da lì, da queste due biografie, uno dei pensieri più ardui che ho incontrato, e insieme uno dei più semplici e assoluti. Non sono un filosofo, anche se ho fatto studi di filosofia, ma penso che capire Wittgenstein significhi capire il pensiero nella forma aurorale, sorgiva, quando si dispiega, e mette in discussione tutto, anche il nostro modo quotidiano di pensare e parlare. Per questo mi propongo di finire la lettura delle lettere, e di leggere subito dopo Conversazioni e ricordi, uscito da Neri Pozza, tradotto da Emanuele Coccia e Vincenzo Mingiardi.

 

 

Ma vorrei rileggere altri piccoli libri editi tanti anni fa da Armando, testimonianze dedicate all’attività di maestro elementare, quando il filosofo, dopo aver scritto il Tractatus, ed essere stato a Cambridge, era tornato in Austria, tra le montagne del suo paese, a fare il maestro di scuola, convinto di aver chiuso con la filosofia. E poi il libretto con le testimonianze raccolte durante la sua prigionia in Italia, a Cassino. Wittgenstein venne catturato dagli italiani durante la Prima guerra mondiale, e spedito in un campo.

 

Nello zaino aveva il manoscritto del Tractatus, terminato e corretto nel campo di concentramento. A chi chiede quali siano le condizioni ideali per scrivere, mi viene sempre in mente di raccontare questa storia del filosofo, che si concentra sulla sua ardua opera mentre è prigioniero di guerra; e poi anche di Konrad Lorenz, un altro personaggio dal pensiero eccentrico, che catturato dai russi durante la Seconda guerra mondiale, scrisse il suo Manoscritto russo, da cui derivano tutti i suoi libri, sulla carta strappata dai sacchi di cemento scaricati durante la detenzione, poi legati con il fil di ferro.

 

Mi propongo inoltre di finire il libro di Hans Sluga, Wittgenstein (Einaudi), cominciato a gennaio, e non ancora terminato (a tratti scolastico, ma tutto sommato discreto), e poi rileggere Lezioni e conversazioni (Adelphi), curato da Michele Ranchetti. Forse l’idea di aver cominciato a capire Wittgenstein è solo un’illusione. Ho come l’impressione che il suo pensiero contenga qualcosa d’importante che devo afferrare, qualcosa che non riguarda solo il mondo delle idee, quelle filosofiche, ma prima di tutto il modo di vivere e di pensare. In una parola: l’etica.

 

Di recente, poi ho potuto leggere un saggio inedito di Gianni Celati sul filosofo austriaco, redatto negli anni Ottanta, e ho consultato gli appunti dedicati a lui nello stesso periodo. Ho trascorso l’anno rileggendo le opere di Celati, soffermandomi particolarmente su Verso la foce, uno dei libri più belli degli ultimi decenni, dove ho ritrovato, oltre a Heidegger (altra lettura obbligatoria negli anni Settanta e Ottanta, spesso insieme a Lacan, spesso senza capirli), molte osservazioni che vengono da Wittgenstein. L’ostinazione con cui Celati legge e chiosa Wittgenstein ha a che fare con l’etica dello scrivere, e sul rapporto tra esperienza e scrittura.

 

Non ci sarà solo questa lettura estiva. Porto con me nei piccoli e grandi viaggi dell’estate – viaggi da fermo, spesso – anche il nuovo libro di Alberto Arbasino, Ritratti italiani (Adelphi), che ho già assaggiato qua e là, perché è bello leggerlo saltando da un personaggio all’altro. Lo finirò di sicuro prima della presentazione di Mantova, avendo mancato quella di Milano (ascoltare Arbasino è come leggere un suo libro, e viceversa). Poi ci sarà anche un altro libro di cui ho letto in passato diverse parti, e che ora esce completo: L’inchiostro della malinconia (Einaudi) di Jean Starobinski.

 

C’è un legame tra tutti questi libri, credo. Un filo che li lega. Di sicuro la malinconia è la musa di Arbasino, una malinconia molto poco malinconica. E anche Celati reca con sé nelle opere degli anni Ottanta un senso di malinconia: il confronto con il Tempo. Ho la sensazione che Wittgenstein con la sua assolutezza e con il suo rigore, ed estremismo del pensare, servirà a far piazza pulita di tutte queste nuvole grigio-nere della malinconia.

 

A proposito, sto cercando da tempo la biografia di Wittgenstein di Ray Monk edita da Bompiani. Non si trova neppure usata. Vorrei proprio averla, oltre che leggerla, tutti dicono sia la migliore. Inoltre, devo ordinare Movimenti di pensiero. Diari 1930-1932/ 1936-1937, sempre di Wittgenstein, edito da Quodlibet. Lo leggerò durante il prossimo inverno. L’importante è lasciarsi qualcosa da fare. Capire Wittgestein è una di queste cose.

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