L’uomo che pettinò Marilyn Monroe

4 Agosto 2022

Sessanta anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1962, moriva nella sua casa di Los Angeles, per overdose di barbiturici, l’attrice Marilyn Monroe, trentaseienne icona di bellezza e sensualità. Vogliamo ricordarla nel racconto di un testimone che l’ha incontrata e conosciuta poco prima della sua scomparsa, un testimone che faceva parte dello staff del presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy. Il suo nome, Mickey Song (1940-2005). La sua professione, parrucchiere. L’intervista risale alla fine degli degli anni novanta ed è stata fatta a Los Angeles, nella casa-studio di Mickey Song, al piano terra di un piccolo condominio di due piani di South Roxbury Drive.

La nostra storia comincia, come in un classico noir hitchcokiano, con un telefono – un vecchio apparecchio da scrivania, a disco, di bachelite nera – che squilla. Immaginiamolo inquadrato in primo piano, con la cinepresa che si allarga lentamente sulla stanza, un tipico ufficio hollywoodiano, dove un uomo, che scopriremo essere il produttore cinematografico Mervin Griffith, è seduto al centro, e si sta facendo tagliare i capelli dal protagonista del nostro racconto, Mickey Song, texano, nato a Fort Worth nel 1940, meritevole allievo della celebre, ma ormai scomparsa, Lapel Brothers School of Beauty. 

«Sono sempre stato affascinato dai capelli: studiavo le pettinature delle mie compagne di scuola, leggevo giornali specializzati e torturavo le mie sorelline esercitandomi su di loro. Finita la scuola uno dei miei insegnanti aprì un salone a Woodland Hills, un quartiere di Los Angeles che si stava sviluppando proprio allora, alla fine degli anni cinquanta. Molti attori compravano case e terreni laggiù perché tutto costava meno. Era ancora una zona vergine. Su Ventura, il viale che attraversa l’area non c’erano ancora grandi negozi. Però c’eravamo noi. E le signore invece di guidare fino a Beverly Hills venivano lì perché si trovavano bene. Era un continuo via vai di “mogli di...”.

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Tutto è iniziato un giorno che ero andato nell’ufficio del produttore Mervin Griffith a tagliargli i capelli. Suona il telefono. Era l’attore Peter Lawford, all’epoca cognato dei fratelli Kennedy [N.d.A. ne aveva sposato la sorella Patricia nel 1954. Il matrimonio gli aveva permesso di entrare nel giro giusto e di essere invitato da Frank Sinatra a far parte del celebre e invidiato Rat Pack, il clan che comprendeva Dean Martin, Sammy Davis jr. e Joey Bishop].

Nel corso della conversazione Mervin dice che deve sbrigarsi perché si sta tagliando i capelli. Capisco che Lawford gli chiede chi sia il suo parrucchiere di fiducia. Mervin non vuole dirglielo. Il tira-e-molla va avanti per un po’. Evidentemente Lawford insiste, e allora Mervin sorride, mi guarda, mette una mano sul microfono, abbassa la voce e mi dice: “Watch this”, sta a vedere. Poi si rivolge a Lawford: “Ti ricordi che l’altra sera mi parlavi di certe azioni che sarebbero salite? Bene...?”. Fu così che io fui scambiato con delle informazioni azionarie».

Jacqueline è il lasciapassare per arrivare a John

«La prima telefonata che ricevo da Lawford è per fissare un appuntamento a casa sua, a Malibu, per tagliargli i capelli. Peter, all’epoca, li portava molto corti e quando una settimana dopo mi richiama non capisco come possano essergli ricresciuti così in fretta. Magari, pensai, vuole aggiustarli tutte le settimane, e mi fregai le mani pensando che avevo trovato proprio un gran cliente. Invece arrivo a Malibu e trovo Robert Kennedy. Sapevo solo vagamente chi era perché i politici non mi impressionavano più di tanto.

Ero giovane: mi interessavano solo i divi del cinema. Comunque, feci i capelli anche a lui, e deve essersi trovato bene perché la prima volta che il fratello John arrivò in città, in piena campagna elettorale, fui chiamato per occuparmi di lui. Non ricordo più se era al Biltmore o al Beverly Hills Hotel. Uno dei due. Prima di arrivare a John Kennedy dovetti però passare lo scrutinio di Jacqueline. Non mi chiese di tagliarle i capelli, ma semplicemente di metterglieli a posto. Le piacque il risultato e mi lasciò andare da lui.

A quel punto scoprii il motivo di tutto quel traffico, di tutti quegli esami a cui ero stato sottoposto: Kennedy aveva i capelli incredibilmente folti, tanto che nella sua prima apparizione televisiva sembrava avesse un toupet. Il problema era “alleggerirlo”. Così gli assottigliai i capelli col rasoio. A Kennedy e al suo staff piacque il mio lavoro e nonostante lui avesse un suo parrucchiere regolare, prese a chiamarmi tutte le volte che i capelli si infittivano troppo. E cominciai a volare da una parte all’altra del Paese, dovunque lui si trovasse».

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Bob aveva un caratteraccio

«Il più difficile dei Kennedy era Bob. Era esigente, voleva che fossi sempre pronto ai suoi bisogni. Una volta chiamò ordinandomi di incontrarlo immediatamente in un certo posto che neanche mi ricordo, ma in quel momento ero con dei clienti e avevo appuntamenti per il resto della giornata nel mio piccolo salone di Woodland Hills, dove la gente pagava 3 dollari per il taglio e 3,50 per taglio e shampoo, contro i 50 dollari che mi pagavano i Kennedy. Allora Bob cominciò a urlare e io non ci pensai due volte a sbattergli il telefono in faccia. E lui richiama urlando ancora di più e io gli risbatto giù il telefono. E lui richiama di nuovo, ma adesso dice: “Non riabbassare, cerchiamo di ragionare”. Così alla fine trovammo un accordo. Credo che era la prima volta che qualcuno lo trattava, così, a pesci in faccia. Oggi, ti confesso, non ne avrei il coraggio. Oggi avrei detto: sissignore, faccio tutto quello che vuole lei».

Il dibattito, il giuramento, lo smoking 

«John Kennedy mi chiamò anche in occasione del famoso confronto televisivo, quello con cui, praticamente, vinse le elezioni contro Richard Nixon che, pallido e sudato, era platealmente a disagio davanti alle telecamere. Kennedy arrivava da Palm Springs [NdA, dove era solito intrattenersi con l’attrice Angie Dickinson a casa di Bing Crosby] abbronzato e in gran forma. Non ricordo molto del dibattito perché ero nel retro dello studio, ma in quel giorno ho imparato da lui una grande lezione: se non sei abbronzato è bene che ti metta su un fondo tinta. Lavorai ancora spesso con John Kennedy a partire dalla cerimonia del giuramento.

Quel giorno, finito il mio lavoro me ne tornai in albergo per guardare la cerimonia di inaugurazione in televisione. Alle dieci di sera un membro dello staff del Presidente mi chiama per sapere dove diavolo fossi finito, e io gli spiego che, siccome non avevo lo smoking per partecipare alla festa, avevo pensato di starmene in camera mia. Tutto lì. E quello, per tutta risposta, mi dice che, “su espressa richiesta del Presidente degli Stati Uniti”, avrebbero fatto riaprire un negozio di abbigliamento e il servizio segreto mi avrebbe recapitato uno smoking in tempo per partecipare alla festa in suo onore. Rimasi senza fiato».

E poi arrivò Marilyn. 

«Sabato 19 maggio 1962 ero stato chiamato a New York per aggiustare i capelli al Presidente la notte della festa per il suo compleanno. [N.d.A. Kennedy avrebbe festeggiato in anticipo di qualche giorno i suoi 45 anni nel corso di un evento organizzato al Madison Square Garden dal Partito Democratico per una raccolta fondi: alla serata, che avrebbe visto sfilare sul palco celebrità che andavano da Maria Callas a Shirley MacLaine, Jimmy Durante, Ella Fitzgerald, si presentarono circa quindicimila persone. Tutte quelle star finirono, comunque, per essere messe in ombra dall’arrivo sul palco di Marilyn Monroe, inguainata in un abito disegnato dallo stilista Bob Mackie (recentemente andato all’asta per quattro milioni di dollari) che lasciava ben poco all’immaginazione, e dalla sua celeberrima interpretazione di “Happy Birthday Mr. President”. Alcuni scatti “inediti” di quella sera si possono trovare nel sito degli archivi della JFK Presidential Library

Quella sera mi chiesero di tagliare i capelli anche a Bob e, per la prima volta, a Ted. Seppi da loro che sarebbe arrivata Marilyn Monroe. Era la mia attrice preferita. Chiesi se potevo fare i capelli anche a lei. Mi dissero che non sapevano, ma che avrebbero chiesto. Non vedevo l’ora di conoscerla. Io stavo sotto, dove ci sono gli spogliatoi del Madison Square Garden, quando ecco che spunta Marilyn Monroe accompagnata da Bob Kennedy.

Ero un po’ deluso perché aveva i capelli perfetti e non avrebbe certamente avuto bisogno di me. Ma Bob Kennedy mi disse: “Tieniti pronto, ha bisogno di essere ripettinata”. Non capivo cosa volesse dire. Poi Bob mi chiese di uscire dalla stanza. Non passò molto e quando mi fece rientrare, Marilyn aveva i capelli scompigliati e una macchia umida sul vestito. Lei mi guardò e disse: “Fai quello che puoi”. Così la ripettinai e con un fon le asciugai la macchia sul vestito, in basso, vicino al bordo. Il motivo per cui lei salì in ritardo sul palcoscenico fu proprio perché, in quel momento, le stavo ancora riassettando il vestito.

Il problema era che la stoffa era così fragile, così sottile che non potevo dirigere il getto dell’asciugacapelli direttamente sull’abito: l’avrebbe arricciato o, peggio, sciolto o bruciato. Quando, poi, Marilyn salì sul palco, io rimasi nella stanza a pulire e riordinare. Prima che se ne andasse le chiesi un autografo: avrei voluto avere con me una sua foto da farle firmare, ma tutto quello che avevo era un tovagliolino di carta. Lei me lo firmò, ma nella confusione lo persi. Pensa che razza di cimelio sarebbe stato, anche perché quello non era un tovagliolino qualsiasi, c’era stampato sopra “The Kennedy Birthday Party”. Ma vuoi sapere cosa ho sempre pensato di tutto questo? Che Marilyn fosse il vero regalo di compleanno per il Presidente, altro che la torta con le candeline».

E poi Marilyn mi richiama

«Ero sicuro che non l’avrei mai più rivista. Invece un mese più tardi ricevo una telefonata dalla sua governante. Dice che vuole che vada a casa sua, a Brentwood. E io mi faccio delle idee. Penso di esserle piaciuto e penso che mi chiederà di diventare il suo parrucchiere personale. Invece arrivo e la prima delusione è la casa: piccola, priva di fascino, praticamente senza mobilio, roba che non assoceresti mai a una diva del cinema.

Lì scopro che non le interessavano i capelli, voleva solo avere informazioni. Aveva avuto l’impressione che fossi intimo dei Kennedy, e pertanto sapere un mucchio di cose. Del tipo? Del tipo: quali altre donne andavano e venivano, chi vedevano e via di questo passo. Mai in vita mia mi ero trovato in una situazione di stress del genere: da una parte mi sentivo legato da un senso di lealtà verso i Kennedy, dall’altro a farmi queste domande era Marilyn Monroe, santiddio, Marilyn Monroe, la mia diva preferita. Credo di aver avuto la pressione alle stelle. Le dissi che non potevo parlare e me ne andai.

Poi, per la prima volta in vita mia ebbi paura. Qualche settimana più tardi mi chiamò Bob Kennedy e durante la conversazione buttò lì un: “Bravo, fai bene a proteggere i Kennedy”. E io: “Cosa vuol dire con questo?” E lui: “Marilyn ha registrato la vostra conversazione”. Mi sentii mancare. “Come è possibile”, chiesi. “Può aver messo il registratore sotto il divano”, disse lui, divertito, con noncuranza. In quel momento fui proprio contento di non aver detto niente di compromettente. Ma poi pensai: e se a registrare la conversazione non fosse stata Marilyn?»

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[N.d.A. In effetti Marilyn era tenuta d’occhio non solo dall’FBI, ma anche da Jimmy Hoffa, il capo del sindacato autotrasportatori, uomo di forti legami con la mafia italo-americana, nemico giurato dei fratelli Kennedy che volevano la sua testa. Per contro, Hoffa aveva assunto un investigatore privato per piazzare dei microfoni nella casa dell’attrice dove pensava, e non a torto, che avrebbe potuto registrare conversazioni compromettenti, tali da permettergli di ricattare soprattutto Bob che, nella sua veste di Ministro della Giustizia, gli stava alle costole per incriminarlo. I federali, dal canto loro, tenevano d’occhio l’attrice perché avevano informazioni circostanziate sulle sue frequentazioni con esponenti del partito comunista, espatriati in Messico, con i quali parlava a ruota libera dei suoi incontri e delle conversazioni “politiche” avute soprattutto con il Presidente, con il quale avrebbe addirittura discusso di “moralità dei test atomici”. E quelli non erano tempi in cui si poteva scherzare su argomenti simili. Non dimentichiamo che quel 1962 fu il periodo di maggiore contrapposizione militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica: il mondo era sull’orlo di una catastrofe nucleare a causa della crisi scoppiata a Cuba dove i sovietici stavano installando missili balistici a medio raggio, su richiesta di Fidel Castro.

Marilyn, insomma, si stava rivelando una minaccia troppo grande per l’amministrazione Kennedy: sapeva troppo e parlava troppo. I fratelli dovevano darci un taglio. A Bob fu dato l’incarico di intimarle di smettere di chiamare la Casa Bianca. E qualcosa si ruppe nel già fragile equilibrio mentale di Marilyn. Andava dicendo cose come: «Mi sento usata, scaricata, mi sento un pezzo di carne». Questo è, in estrema sintesi, una parte di ciò che racconta il recente documentario prodotto da Netflix (Il mistero di Marilyn Monroe: i nastri inediti), firmato dal giornalista investigativo premio Pulitzer Anthony Summers – già autore di una dettagliata biografia della Monroe (Goddess) – documentario che ricostruisce con puntigliosità cosa sarebbe accaduto la notte tra il 4 e il 5 giugno 1962 tramite una serie di interviste inedite, appunto, che smontano pezzo per pezzo la ricostruzione ufficiale dei fatti, non tanto per avallare fantasiose teorie cospirazionistiche, piuttosto per provare che ad essere stata insabbiata era stata la sequenza temporale che aveva portato alla morte dell’attrice e soprattutto il contesto.

Come il fatto che Bob, quel giorno, sarebbe stato a Los Angeles, che avrebbe litigato violentemente con Marilyn, che alla notizia della morte dell’attrice sarebbe stato fatto volare in elicottero a San Francisco per essere imbarcato, in tutta fretta, sul volo Pan Am red-eye per Washington, che Peter Lawford sarebbe corso a casa di Marilyn per ripulirla da prove che avrebbero potuto compromettere i Kennedy. I testimoni che sfilano davanti al microfono di Summers – amici, colleghi di lavoro di Marilyn, investigatori privati, agenti federali, persino il pilota dell’elicottero – raccontano una storia molto diversa dalla realtà ufficiale]. 

Epilogo

«L’ultima volta che tagliai i capelli al Presidente fu poco prima che fosse ucciso a Dallas, nel novembre del 1963. Mi ricordo che a un certo punto, per qualche ragione, mi venne di fare il nome di Marilyn e all’improvviso il Presidente diventò serio e smise di parlare. Appresi della morte di John Kennedy, come tutti, dalla televisione. Rimasi traumatizzato. Mesi più tardi incontrai Jacqueline che mi chiese cosa avrei voluto fare.

Ricordo che risposi: “Voglio cercare di vivere la mia vita”. Avevo 23 anni, allora, e avevo già due morti ingombranti alle spalle. Jacqueline mi chiese anche se volevo restare in contatto con la famiglia. Non so perché, dissi di no. E, sai una cosa, credo che, per un momento, mi abbia invidiato. Da allora non ho più avuto contatti con i Kennedy. Solo anni più tardi, un giorno, al salone, arriva Nancy Reagan e chiede di incontrarmi. Disse: “Ti porto i saluti della signora Kennedy”. E quella semplice frase mi esplose in testa, così, all’improvviso».

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