Marcel Jousse e l'antropologia del gesto

11 Novembre 2022

“Ho voluto martirizzare tutta la mia vita di antropologo-contadino per cercare di strappare a quelle bende morte non il cosiddetto ‘Dio morto’, ma il Rabbi-contadino galileo sempre vivente”. Questa rapidissima autobiografia intellettuale di Marcel Jousse (1886-1961) si legge nel suo L’antropologia del gesto, oggi riproposto da Mimesis, a cura di Antonello Colimberti.

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Bastano queste righe per avere un’idea della personalità di Jousse, padre gesuita, professore all’ École d’Anthropologie, docente alla Sorbona et all’ École Pratique des Hautes Études. E anche in queste righe ci si imbatte in un linguaggio che è tanto originale, quanto praticabile con fatica, a cominciare dal lessico (non a caso, alla fine del volume, il curatore ha inserito un Glossario Joussiano). 

Prima di tutto spicca, in questa brevissima autobiografia, la definizione di “antropologo-contadino”: Jousse richiama ripetutamente le proprie origini nelle campagne della Sarthe e dichiara l’importanza della madre nella sua formazione di uomo e di studioso: “In fondo io non conosco che mia madre, Yeshua [Gesù] e le loro ninne nanne”.

La figura del contadino non è affatto il simbolo di un bel tempo perduto, l’idealizzazione di un rimpianto stato di natura, e non è affatto detto che coincida con la figura dell’agricoltore. Il contadino è per Jousse l’essere umano che si muove sulla terra, la percorre e la vive, è l’anthropos che si misura ogni giorno con la consistenza delle cose.

Tutta la prospettiva teorica dello studioso parte da questo essere umano che non è mai, per così dire, al di fuori del proprio corpo e della concretezza del mondo in cui è immerso. È qui che si fonda la sua idea di gesto. Tutto parte dall’intuizione di Aristotele, nel passo della Poetica (4.1) che Jousse traduce a modo suo: «L’uomo è il più mimatore tra tutti gli animali e per mezzo del mimismo egli acquisisce tutte le cognizioni». 

L’imitazione – che a volte banalizziamo contrapponendola all’originalità – è una tendenza connaturata all’uomo (il “mimismo”). Che cosa si imita? Si imita, anzi si “rigioca” (termine schiettamente gestuale) il reale esterno a noi, il reale ricco di tutte le sue interazioni che si imprime in noi e ci costringe a esprimerlo. “Le cose si ripercuotono” nell’essere umano che diviene allora un “risonatore vivente” del “cosmo”. La memoria stessa niente altro è che un “rigiocare” senza la presenza dell’oggetto. 

Il gesto, quindi, non viene inteso in senso ristretto – puntare l’indice, mettiamo, o stringere le mani – ma in senso più che mai esteso, a comprendere cioè tutti i movimenti espressivi. È per questo che in tutto il libro non si parla mai di posture, di atteggiamenti, di questa o quella espressione del volto, e si parla invece – soprattutto – di parole: “io sono una muscolatura che proferisce una parola semantico-melodiata, e questa parola è il compendio di tutto il mio corpo il quale soffre, in questa lotta dell’espressione, la più grande tragedia che si possa immaginare”.

La parola è dunque “gesticolazione laringo-boccale”, perciò è prima di tutto voce, “l’efflorescenza del gesto corporeo-manuale”. Per questo il gesto e la parola sono sempre sovrapposti, e l’una non fa a meno dell’altro. Viene in mente la storiella raccontata in uno straordinario saggio di David Efron sui gesti delle comunità di origine italiana ed ebraica negli Stati Uniti (Gesture and Environment: A Tentative Study of Some of the Spatio-temporal and "linguistic" Aspects of the Gestural Behavior of Eastern Jews and Southern Italians in New York City, 1941): un ebreo rifiuta di passeggiare con un amico di notte “perché fuori è troppo buio per parlare”.

E viene in mente quella soluzione iconografica che Chiara Frugoni definì “mano parlante”: per indicare che un personaggio sta parlando, gli artisti medioevali fino al XV secolo compreso mettono in grande evidenza i gesti delle mani, in particolare della destra.

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Robert Campin e aiuto, Annunciazione del Trittico Mérode, c. 1430. New York, Metropolitan Museum of Art.

“Amate ciò che non udirete mai due volte”: se parlare è un gesto, ne deriva il ruolo primario della voce umana, che realizza sempre un “incessante rinnovamento di vita”. Jousse arriva a chiedersi se “ci sarà una resurrezione della voce così come ci sarà una resurrezione della carne”.

Ma sulle parole – come su tutti i gesti – incombe un rischio, la “malattia dell’espressione”, quella che Jousse definisce “algebrosi”, quando cioè gesti e parole, usurati dal tempo, si svuotano della loro concretezza originale, si irrigidiscono quasi in formule matematiche. Un esempio, per restare nell’ambito cristiano, quando lo Spirito viene inteso non più come Soffio, ma come “qualcosa di etereo, di immateriale”.

Questo è il punto in cui il pensiero di Jousse si scontra con un caposaldo della cultura occidentale, il primato della lingua scritta e del libro. Per lo studioso, infatti, lo spazio in cui prolifera questa “malattia dell’espressione” è la scrittura. “Scrivere, soprattutto nel nostro ambiente etnico di stile scritto, vuol dire produrre vita e nello stesso tempo stendere la morte su quel lenzuolo mortuario che è il foglio di carta”. Ecco allora una continua contrapposizione tra “vivente” e “scritto”, poiché “la voce vivente e modulante oltrepassa infinitamente la più ampia pagina scritta”. Come nei versi di Pier Paolo Pasolini: “le povere parole insomma / che si dicono ogni giorno, e che volano via con la vita: / le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello”.

Ma torniamo a quella sorta di autobiografia in due righe da cui siamo partiti. La fatica dell’antropologo è tutta rivolta alle parole del “contadino” per eccellenza, il “Rabbi-contadino galileo” Yeshua, Gesù. È lui che è stato “filologicamente seppellito”, e le “bende morte” sono state avvolte attorno alle sue parole da “sinotticisti amnesici e grafomani” che si accostano al vangelo con “paura della vita”; si allude, insomma, gli studiosi che affrontavano i tre vangeli cosiddetti sinottici (Marco, Matteo, Luca) con gli stessi metodi dei filologi classici, interpretandoli come documenti storici o testi letterari.

Occorre fare, invece, un percorso all’indietro: dalle nostre lingue, al latino, al greco, all’aramaico parlato da Gesù. Ma non è solo e tanto una questione di traduzioni. I passi della Bibbia e dei vangeli, infatti, sono impregnati degli stessi meccanismi che regolano i gesti dell’uomo legato alla terra; gli stessi meccanismi incidono così sulla disposizione, sul ritmo e sulla melodia delle parole del “Rabbi-contadino”. 

È la conformazione bilaterale del corpo umano che detta la struttura delle sue forme espressive. Il camminare, l’andatura nei suoi necessari dondolamenti da un lato e dall’altro, è forse il movimento che meglio descrive questo bilateralismo. Secondo Jousse, insomma, il bilateralismo informa ogni dimensione dell’anthropos, in quanto “legge spontanea onnipresente dell’equilibrio umano”. Onnipresente nel gesto del cullare, come nei gesti che accompagnano da sempre i lamenti funebri: in Stendalì (suonano ancora), un documentario girato nel 1960 da Cecilia Mangini nella Grecìa salentina, vediamo le donne che piangono il morto e spostano ripetutamente – da destra a sinistra – un fazzoletto bianco che stringono nelle mani.

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Quello di Gesù è dunque uno “stile” che si esprime solo nell’oralità. Il destino dei suoi discorsi, allora, non era di essere semplicemente letti, ma di essere memorizzati nella loro globalità; la memoria agisce perché queste parole da una parte non hanno smarrito il legame con le cose, dall’altra sono gesti ritmicamente spartiti nello spazio. Non siamo davanti a letture poetiche, ma a “perle-lezioni” che spiegavano e insegnavano fondandosi su una tradizione di stile orale e gestuale già testimoniata nella Bibbia. Lo sforzo di Jousse è allora quello di scoprire l’articolazione di questo “ritmo-catechismo” nei passi evangelici, restituendone la suddivisione ritmica anche a livello tipografico. Ad esempio, secondo Jousse, nel Padre nostro Gesù “dondola (...) i 6 doppi dondolamenti dei due recitativi paralleli”. Fino al “dondolamento supremo” sulla croce, in cui l’antropologo ritrova l’eco delle ninne nanne materne: “Eloì, Eloì, lammà sabactanì?” [Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?]. 

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