Diario clinico 5 / È più forte di me
È più forte di me: una delle espressioni che sento più spesso. So che dovrei, potrei, mi farebbe bene. Ma non ci riesco. C’è la parte con la quale andiamo in giro, ci esibiamo, la presentiamo in pubblico, con la quale ci identifichiamo. Con lei siamo egosintonici. Quella che ci danna, quella che spesso è l’unica che conta, il nostro sintomo, quella che ci ha spinto a intraprendere un percorso imprevedibile come quello analitico è l’altra, è la nostra parte numero 2. Irregolare, emotiva, inaffidabile, illogica. Un po’ ci vergogniamo, ma non l’abbandoniamo. Oggi come sempre “L’Io non è padrone a casa propria”.
Affermare che il sentire è la nostra bussola, uno strumento che guida il nostro orientamento, ricordare che Jung considera il sentimento una funzione razionale, chissà se aiuta. In Ricordi, sogni, riflessioni racconta di aver convissuto per l’esistenza intera con due parti. Quando ha temuto di impazzire, ha cercato di avvicinarle, di farle dialogare per stanarle dalla loro postura conflittuale. Trovare un’armonia in questo parlamento interiore, provare a sostituire il modello della opposizione o-o con un più comprensivo e-e, può essere l’obiettivo di una vita. E, come oggi capita con sempre maggiore frequenza, di molte tranche di analisi.
È cosi per Erika, una donna generosa e affermata, che cura persone e progetti e ha notevoli qualità artistiche. Lavora su di sé, sul proprio sé, da molti anni. Eppure, il momento di crisi, ancora, dopo decenni, è più forte di lei.
Quando arriva la prima volta e si siede di fronte a me, Erika mi dice: “Se mi potessi mettere al suo posto avrei meno paura, ho paura che la paura mi prenda alle spalle”. Così corre in macchina, spacca oggetti e si taglia con le forbici, i segni si vedono, vuole farli vedere: così diventa visibile la sua lotta infinita tra la Vita e la Paura. Se vive normale ha paura di fare così per la paura di aver paura.
“Tra ieri e oggi, continua, ho iniziato a pensare che voglio uscire dai miei sintomi, ho iniziato a sentire che la mia ‘malattia’, come la chiamo io, la mia isteria non è più funzionale alla mia vita. Calma, questo non significa che prima mi facesse comodo o mi servisse, ma sicuramente aveva i suoi vantaggi, nonostante il costo spesso troppo alto. La mia ‘follia’ mi piaceva, era creativa, disorganizzata, scintillante, maniacale, allegra, contraddittoria, violenta, affettiva, disperata, autodistruttiva, ma era ‘mia’ e in fondo non mi dispiaceva. Nonostante questo ho lottato per la maggior parte della mia vita per essere ‘normale’, come gli altri, e quando mi sembrava di aver trovato l’essere umano che assomigliava di più alla normalità, mi pareva una noia atroce e mi sembrava che quella normalità fosse una lastra di acciaio sul petto che mi schiacciava”.
La passione della paura può presentare gli stessi sintomi della passione d’amore – “voce tremante, gola secca, occhio di incerto bagliore, pelle arrossata o madida, cuore palpitante... I sintomi dell’amore sarebbero i sintomi della paura?” si chiede Julia Kristeva che in Storie d’amore scrive: “Paura-desiderio di non essere più limitati, trattenuti, ma di andare oltre. Timore di attraversare non soltanto delle convenienze, dei divieti: ma anche, ma soprattutto, paura e desiderio di oltrepassare le frontiere del sé…”.
Erika è teoricamente attrezzata e psicologicamente consapevole, non è facile trovare interpretazioni ulteriori, medicare la sua disperazione.
“Buona sera, le scrivo perché ho bisogno di non dimenticare. La mia vita è un turbine di cose che si mischiano insieme e non riesco più a comprendere i livelli di importanza e le priorità. Non voglio essere manipolatoria in nessun modo, anche perché so quanto sia facile cadere in questa dinamica, ma se lei non mi aiuta, non mi prende per i capelli, io sono nella merda e affondo nella follia. Non la follia che mi affascina, ma quella vera, dalla quale non si riesce più a uscire nemmeno a volerlo.
Subito dopo aver chiuso il telefono ho iniziato a sentirmi male, a piangere, avevo la sensazione di essere intrappolata, strangolata, e più mi mancava l'aria più piangevo, mi disperavo e iperventilavo. E dal pianto sono passata a un grido di dolore lancinante che mi strappava ovunque dentro, ero distesa per terra e piano piano mi sono ritrovata con la testa sotto il termosifone con le mani aggrappate alle sbarre calde. Ho incominciato a entrare in uno stato alterato di coscienza, il respiro era a momenti molto affannoso e in altri si bloccava come se poi passassero minuti senza riuscire a riprendere ossigeno.
Le racconto tutto questo perché è stato l'apice di un dolore tremendo e di una paura terribile, la paura della follia vera senza ritorno e io non voglio sentirmi trascinata nella follia. Ho fatto spesso la folle e oggi so che ne vedevo anche i confini, l'altra sera no. Preferisco piuttosto scegliere io come e quando essere folle.
La mia domanda oggi è questa: come si fa a lasciarsi senza impazzire?
Grazie davvero per aver letto”.
Nel ping-pong relazionale con chi mi sta di fronte continuo a lanciare parole: tolgo quella che fa male, ne rimetto un’altra, spolvero la parola, mi ingegno a scovarne un’altra ancora. Cerco di affinare l’ascolto. Sento musica classica, è stata la colonna sonora della mia infanzia, appena riesco prendo in mano un libro, anche per pochi minuti.
Leggere poesie e racconti per un terapeuta può essere quasi un metodo, come suggerisce Ogden, che conduce gruppi dove si legge a voce alta, per farsi l’orecchio – una pratica che addestra all’ascolto. Perché le modalità del linguaggio, i suoi ritmi e le sue associazioni, le sue tonalità e assonanze, i suoi acuti e le sue “stecche” sono il mezzo di comunicazione delle due menti al lavoro. Quando la malattia dell’anima è così estrema, quando l’altro appare dannatamente incapace di uscire dalla sua coazione a ripetere, le parole mi appaiono ali tarpate con le quali provo, ridicolmente, a risanare il mondo. E l’abitudine ad ascoltare si limita a un empatico stare.
“Ecco, il problema è proprio questo: la parola. Ormai da settimane sto male e non capisco più niente, sono in preda al terrore e so che nessuno potrà fare nulla per me, nemmeno lei, nemmeno io. Sto male continuamente, anche ora che le scrivo, non so cosa mi succeda ma sono sicura che mi sto ammalando. È sempre stata la mia paura ammalarmi dopo i cinquant'anni, come dire che prima qualcuno si sarebbe preso cura di me mentre dopo avrei dovuto farcela da sola, vivere per me stessa, sopportare e superare questo maledetto male che mi attanaglia, questa tremenda incapacità di vivere. Mi manca il fiato, il problema però non è quello, è che mi mancano le parole, la possibilità di capire e farmi capire. Mi trovo come dietro a un vetro e parlo agli altri che non capiscono cosa dico, poi loro mi rispondono come se non avessero capito e le loro parole sono sassi, macigni, peggio, sono come uno scorticamento. Ma com'è possibile che le parole facciano così male?”.
Esco in strada. Da un anno il buio è tutt’uno con il deserto. Ripasso mentalmente le frasi della giornata. Quante insensatezze avrò detto! Mi consolo, penso a Freud, anche in questo è stato il primo a definire quello terapeutico un mestiere impossibile.
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