Speciale
A Reggio Emilia la storia di Un paese / Strand e Zavattini: Italia mia
Giugno 1955, sede romana dell’Einaudi, conferenza stampa per la presentazione di un libro; sono presenti Giulio Einaudi, Italo Calvino, allora redattore, e l’autore, Cesare Zavattini; o meglio, uno dei due autori, perché si presenta Un paese, un “libro-film” (così viene descritto in quella sede), con fotografie di Paul Strand. Sulla “Stampa” del giorno seguente, l’inviato sostiene che più che una conferenza stampa si era trattato del “maggiore avvenimento mondano e culturale insieme di questa estate romana già soffocante a metà giugno”. In un primo tempo, Zavattini racconta il fallimento del suo progetto di un film dal titolo “Italia mia”, poi spiega che il progetto si era trasformato in una collana di libri, che manteneva però questo titolo: “un titolo – disse lo scrittore e sceneggiatore emiliano – che vuole essere un grido di fede”. A questo punto vengono descritte le linee della nuova collana Einaudi: “una guida fotografica che mostrasse lati di quell’Italia minore da molti a torto trascurata”. Interviene ancora Zavattini: “Spero che il turista quando si metterà in viaggio per il nostro bel Paese dia un’occhiata a questi libri. Vi troverà pochi monumenti, ma parecchi uomini, donne, bambini, e sarà un buon risultato se il turista di passaggio per un luogo illustrato dalla collana guarderà più attentamente la gente che lo abita e di qualcuno ricordando una frase, cercherà perfino di rintracciarlo per scambiare due parole con lui. Spero insomma che si cominci una biblioteca dove ogni villaggio, ogni città sia presente con la sua raccolta il più possibile numerosa di voci e di facce”.
A questo punto si comincia a descrivere Un paese – dedicato proprio a Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, patria di Zavattini – le foto di Strand, le “didascalie” dello scrittore. Subito dopo si ritorna alla collana: prende la parola Luchino Visconti, che annuncia il suo libro su Milano (in un primo tempo aveva pensato alla via Emilia); non è presente Vittorio De Sica (sta girando Pane, amore e …), ma sta preparando un volume su Napoli; qualcuno riferisce che Eduardo De Filippo, invece, vorrebbe curare il libro su Genova, la città che “gli sta più simpatica”. Zavattini apre il dibattito e chiede consigli ai presenti: l’attrice Isa Miranda, milanese, dà suggerimenti a Visconti; Antonello Trombadori consiglia di evitare “spunti polemici troppo accesi”; dalla “Stampa” veniamo a sapere che sono presenti anche Sibilla Aleramo, Natalia Ginzburg e Carlo Lizzani; altri giornali riferiscono che tra il pubblico c’è anche Ernesto De Martino.
L’interesse per l’iniziativa di Zavattini ed Einaudi, dunque, fu notevolissimo. Ma le cose non andarono come si sperava. Un paese – un capolavoro indiscusso nella storia della fotografia – non fu certo un successo editoriale e la collana “Italia mia” finì qui. La storia di Un paese viene raccontata ora in una mostra da poco aperta a Reggio Emilia nell’ambito di Fotografia Europea, a cura di Laura Gasparini ed Alberto Ferraboschi. Esposizione e catalogo ne ricostruiscono in modo esemplare la genesi, le fasi della realizzazione, la ricezione, offrendo una serie di materiali inediti, in buona misura dall’archivio Zavattini (Reggio Emilia, biblioteca “Panizzi”). Sono i saggi di Gasparini e Ferraboschi, soprattutto, a mettere in fila le tappe di una vicenda artistica ed editoriale tutt’altro che lineare; intoppi, difficoltà, incomprensioni si intrecciano alla determinazione dei due protagonisti, la silenziosa costanza del fotografo e l’entusiasmo esuberante dello scrittore.
Una volta si parlava di “ispirazione”, oggi è più di moda parlare di “creatività”; al di là dei termini usati, in molti rimane ferma l’idea – tutto sommato di derivazione romantica – che l’artista sia avvolto da una sua leggenda e, soprattutto, che l’opera d’arte sia esito di un’improvvisa illuminazione, misteriosa e fascinosa insieme. Ogni passo percorso nella mostra reggiana lo smentisce: qui c’è ben poco spazio per l’estrosità, la fantasia al potere, il colpo di genio. L’incastro tra lo studio del fotografo, la scrivania di Zavattini e il laboratorio della casa editrice è un affare complesso.
Da una parte c’è Strand, che si porta dietro una grande fama, ma anche una grande macchina fotografica in legno, il treppiede, e il telo nero, quasi fosse un fotografo del secolo precedente (in mostra lo vediamo in una foto di Arturo, figlio di Zavattini).
Strand si avvicina a uomini e donne, li piazza sempre davanti a a uno sfondo consistente, un muro, una porta, balle di paglia; in altre parole non li toglie mai dal contesto. Così scrive anni dopo Zavattini: “L'offesa che l'uno fa contro l'altro oggi come ieri consiste nel togliere dal contesto, dal dramma, dal confronto, anche uno solo; Strand non ne escludeva neanche uno. Siamo stati e siamo per lui eroi dal primo all'ultimo”.
Poche fotografie a figura intera (ecco un’eredità degli “uomini del XX secolo” di August Sander), molti ritratti. Non sappiamo cosa dice loro; se parla, è Valentino Lusetti – che è stato prigioniero negli Stati Uniti – a tradurre. Sta di fatto che tutti, tranne un giovane contadino che accenna un timido sorriso, sono serissimi, anche il bambino di otto anni a cui piace la storia, ma non vuole più studiare.
La moglie Hazel lo accompagna coi suoi appunti su carta azzurrina (persone, luoghi, cose) e intanto fa scatti anche lei. Luigi Ghirri ha scritto che queste sue foto sono “le sinopie del grande affresco di Strand”.
A volte, però, le sinopie vanno per conto loro: quella che Hazel scatta davanti a casa Lusetti – prima o dopo che il marito facesse la celebre foto che verrà scelta per la copertina del libro – sembra la ricreazione in mezzo alle ore di scuola. Il confronto dà il senso del lavoro, del lavorìo anzi, di Strand sulle persone e le cose.
Che cosa ha detto Strand ai cinque fratelli e alla madre, che cosa ha chiesto loro, com’è che tre lo fissano e tre distolgono lo sguardo? Da dove viene questa solennità? (So bene che non esiste alcuna relazione, ma quando guardo questa foto, penso alla Macelleria di Annibale Carracci, gli uomini in primo piano e la vecchia sotto un’architrave, su uno sfondo buio). Una foto studiata, costruita. Zavattini ricorda così il fotografo americano: “camminava avanti e indietro in mezzo alla gente intabarrata osservando tutto come un agente del fisco, toccava il catenaccio di una porta, uno stipite e indicava la linea di un muro”. Claudio Parmiggiani (nato a Luzzara) più tardi avrebbe scritto che Strand aveva ritratto la campagna, le vie, le case di Luzzara “in silenzio e con calcolo estremo”.
Nel libro si comincia con i paesaggi. La prima foto è accompagnata da una vera e propria introduzione geografica: “Questo è il Po, va verso il paese di Luzzara (…)”; e anche la seconda: “Anche questo è il Po, ma dopo che ha passato Luzzara una decina di chilometri (…)”. Il fiume ritorna poco dopo: è l’“anca della Paolina”, un vecchio alveo in cui si era inabissata una suicida per amore.Di nuovo il Po a metà del volume, con una barca di pescatori e due biciclette da donna sulla riva, fino all’ultima foto, un paesaggio di pioppeti e di fossi. La terza foto, a piena pagina, è un intrico di fili d’erba: vengono in mente le pagine di Ipocrita 1943, in cui Zavattini si propone di raccontare millimetricamente l’aspetto di un prato.
Da qui in poi le foto si susseguono secondo un’impaginazione movimentata e in un montaggio per niente prevedibile, in cui si alternano paesaggi, ritratti, foto di gruppi, vere e proprie nature morte. Solo ogni tanto si colgono nessi tematici: due signore fanno “la treccia” all’aperto e accanto, a piena pagina, un interno con pile e pile di cappelli di paglia, sormontati da un quadretto con la vecchia foto di un signore con un cappello in testa (quanto ha imparato Ghirri da foto come questa, con un’immagine dentro l’altra).
Solo quando le foto sono pronte, Zavattini comincia a scrivere. Ma non si tratta mai di vere didascalie, ce ne accorgiamo sin dalla prima: comincia con “Questo è il Po”, ma finisce con un ricordo personale (“nessuno crederà che una volta ebbi la voglia repentina di mangiare del pane del mio paese, così partii su due piedi da Milano, e quella notte mi addormentai col letto pieno di briciole”). E poi parlano i personaggi ritratti: “sono sindaco da due anni”; “ho sempre fatto il mediatore di formaggi”; “sono andata in Piemonte quest’anno con mia mamma”. In un’intervista del 1952, Zavattini aveva detto che il libro sarebbe diventato “un’Antologia di Spoon River alla rovescia: parleranno i vivi delle loro speranze, anziché dei loro fallimenti…”.
A volte, tra immagini e testo si crea un ritmo asimmetrico: in una pagina un contadino parla di sè, ma accanto ci sono rami di vite intrecciati a un olmo; nella pagina dopo, mentre vediamo una casa colonica e un borgo più lontano, uno che abitava a Villarotta racconta la storia di un truffatore finto marchese. In alcuni casi, la stessa impaginazione rimarca questa metrica (volutamente) sfasata, facendo scorrere il testo senza fotografie.
Rispetto al tono “eroico” di Strand, quello di Zavattini è un controcanto che assomiglia piuttosto alla trama composita del “far filòs” contadino, tra racconto e chiacchiere; c’è posto per il risultato locale delle ultime elezioni, ma anche per la suora che si mette a cantare per far tacere le vecchie del ricovero che litigano. Un paese è da guardare, ma anche da leggere.