Matisse: luce fino all'accecamento

31 Dicembre 2022

Anche per la storia dell’arte è invalso il gioco delle contrapposizioni agonistiche: Coppi o Bartali, Mina o Vanoni, Milan o Inter ecc. Il più alto di tali dualismi per il XX secolo è stato introdotto, per altro mirabilmente, da Octavio Paz nel suo bellissimo Il castello della purezza (in Apparenza nuda, Abscondita, Milano 2010) contrapponendo Pablo Picasso a Marcel Duchamp: “i due pittori che hanno esercitato maggior influenza sul nostro secolo. Il primo per le sue opere; il secondo per un’opera che è la negazione stessa della moderna nozione di opera” – è il famoso incipit del testo. Anche per rompere tale meccanismo io allargherei a una triade aggiungendo Henri Matisse, il più pittorico e fascinoso dei tre, emblematico di una pittura davvero “pittorica”, nei vari sensi che questo aggettivo ha significato proprio lungo tutto il secolo e tutt’ora conserva. La pittura di Matisse è davvero “bella” e lo è in un modo e in un senso contemporanei, non classico, non tradizionale.

Come tutti sanno, è stato capofila dei “fauves”, le belve, i selvaggi, come sono stati chiamati nel 1905, ma di selvaggio e provocatorio sembra avere avuto ben poco nelle intenzioni, indicava anzi come scopi dell’arte la “gioia di vivere” e “lusso, calma e voluttà”, come titolò le sue prime opere innovative. Non tutti evidentemente le hanno ricevute in questo senso. Chi aveva ragione? C’è al riguardo proprio uno dei tanti aneddoti raccolti nel libro che vado a presentare. È in una sua lettera in cui racconta alla sua interlocutrice: “La mattina ero in una sala dove ho incontrato Blot [un gallerista], che come sempre mi ha detto: ‘Non capisco!’. Gli ho risposto: ‘Forse è per colpa vostra. Ero al Louvre il giorno dell’inaugurazione e condivido i quadri che si trovano lì. Li amo come li amate voi, ma perché ci si possa comprendere dovrete prendervi la briga di venirmi incontro’”.

Comunque sia, Matisse in realtà ha avuto momenti diversi, è naturale, non si può ridurre tutto a una forzata omogeneità, il percorso di un artista, così come di un uomo, è sempre complesso: due guerre mondiali, avanguardie, crisi, negazioni, lusinghe, richieste. Le sue stesse dichiarazioni, per quanto in realtà molto parche e ben calibrate, non sono così chiare come dicono coloro che le impugnano per una loro chiave di lettura esclusiva. Per esempio che i pittori si dovrebbero tagliare la lingua, cosa significa veramente, cosa intendeva? O altre affermazioni famose: “Raramente sono riuscito a lavorare davanti ad un insieme di oggetti creato deliberatamente. Il mio interesse deve essere catturato da qualcosa di sconosciuto”. Che cos’è questo “sconosciuto”, “ignoto”, di cui parlano, o parlavano, tanti artisti? Non è semplice. Matisse dice altrove di finire un’opera in modo da “poterla riconoscere in seguito come una rappresentazione della mia anima”. Non basta, a me pare, ridurre un’affermazione così profonda, che mira proprio alla profondità dell’animo, a un generico desiderio e valore di “espressione”.

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Ebbene, raccolte dei testi di Matisse erano già uscite, prima presso l’editore Einaudi, poi riprese e ripubblicate anche recentemente da Abscondita (Scritti e pensieri sull’arte, Milano 2022), ma dopo quella erano usciti in originale diversi volumi di corrispondenze, interviste ritrovate e testimonianze. Benvenuta per questo è una nuova raccolta appena pubblicata dall’editore Donzelli con il titolo Gioia di vivere. Lettere e scritti sull’arte. Il titolo dichiara il taglio del curatore, il sottotitolo a sua volta la preminenza data alle lettere. Di scritti non ci sono infatti inediti ma comunque una selezione che ne fa una raccolta se non esauriente comunque con i testi fondamentali, come i più citati “Note di un pittore” e “Note di un pittore sul suo disegno” e altri dell’ultimo periodo, cioè anni quaranta e cinquanta, tutti ritradotti per l’occasione da Lila Grieco. Il blocco forte è costituito piuttosto da più di centocinquanta pagine di lettere ai più vari interlocutori, colleghi, famigliari e altri interlocutori. Come non ricordare le bellissime scritte a Pierre Bonnard e quelle all’amico di tutta la vita André Rouveyre? Valgono da sole la lettura del volume.

Il quale in particolare presenta poi un lungo saggio introduttivo del curatore, Giorgio Agnisola, nonché un accurato apparato di introduzioni alle sezioni e note ai testi.

Il saggio ripercorre bene tutta la vita dell’artista, è dettagliato e aggiornato alle ultime rivelazioni, come quelle delle ex modelle, e dimostra una perfetta conoscenza dell’opera di tutti i periodi. Il titolo del volume però, appena corretto dal titolo del saggio introduttivo che è “Matisse, lo sguardo e la luce”, tradisce una chiave interpretativa un po’ troppo marcata sull’esaltazione della gioia e della luce, a loro volta intese in una chiave piuttosto ottimistica e religiosa, in nome in particolare dell’ultima grande impresa della Cappella di Vence a cui è dedicato uno spazio ampio, ricostruita a tinte piegate all’intento interpretativo che finisce con il trascurare altri aspetti. Per Agnisola è tutta una chiave espressiva, di sentimento ed emozione, come se tutto fosse spontaneo, intuitivo, e scontato a posteriori: interiorità, spiritualità, trascendenza, luce divina.

Non vorrei a mia volta sembrare troppo indirizzato, ma questo tipo di approcci risulta del tutto aproblematico, come se non può essere che così e tutti lo sanno e lo condividono, ignorando interpretazioni diverse e interi dibattiti fioriti sull’opera di Matisse. Nella seconda metà degli anni sessanta e poi nei settanta, per esempio, Matisse si è trovato impugnato come il precursore del colore come elemento pulsionale – altro che gioioso – della pittura, riletta in chiave psicanalitica lacaniana dai componenti del gruppo della rivista “Tel Quel”, Marcelin Pleynet in particolare che lo mise al centro di un libro che ha fatto epoca, intitolato L’enseignement de la peinture (1971), e di tutto un gruppo di artisti denominato Support/Surface. Poi in anni più recenti uno storico come Yve-Alain Bois ha reinterpretato tutta l’opera fin dal periodo fauve in chiave davvero selvaggia, sottolineando lo scandalo della Joie de vivre, fino a definire quella di Matisse una “estetica dell’accecamento”, facendo notare che i colori della Danza, per esempio, sono tutt’altro che idilliaci bensì, verrebbe da dire, dionisiaci, così forti, saturi e contrastanti da far lacrimare gli occhi: luce fino all’accecamento, potremmo dire, una “aporia percettiva”, la chiama Bois (Arte dal 1900, Zanichelli, Milano 2016). Jean-Cristophe Bailly da parte sua ha dedicato ancora più recentemente un bellissimo saggio all’ultimo Matisse in uno dei suoi ultimi libri (L’imagement, Seuil, Paris 2020), partendo dalla serie di fotografie che lo ritraggono nell’ultimo periodo confinato a letto, ma ancora con la forza per disegnare sulle pareti e sul soffitto della camera con una grafite innescata in punta a una lunga canna. Le immagini gli hanno fatto pensare ai graffiti preistorici nelle caverne e all’idea dunque che il disegno sia l’origine del fare immagini dell’uomo: “si potrebbe caratterizzare il disegno come l’arte stessa, simultaneamente, dell’inizio e del ricominciamento, un instancabile inseguimento che non si conosce e non è possibile se non come ciò che comincia, incide e riprende”, scrive, “il contorno attento e spontaneo di questo avvenire della forma”, nel doppio senso del termine “avvenire”.

Perché ignorare tutto questo e non farci i conti, tranquillamente, pur o proprio perché non si è eventualmente d’accordo? Davvero storici e critici devono rimanere così separati da non riuscire a trattare tali questioni in maniera motivata? In fondo c’è in gioco anche ciò che ne è di Matisse oggi, e con lui della pittura.

Ma insomma, poiché è Natale, ma non solo per questo, vorrei segnalare anche tre libretti su Matisse per bambini. Trovo molto interessante vedere da un lato come si affronta un artista in operazioni del genere, quali opere si scelgono, cosa si sottolinea, e d’altro lato come si decide di presentarle ai bambini e cosa. Non sono, del resto, le stesse questioni degli storici ad altro livello?

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Partiamo dal bellissimo libretto Se fossi Matisse (Giunti, Firenze 2015), un piccolo capolavoro di “poesia”, discreto, che non cerca di insegnare niente su Matisse – il titolo originale, The iridescence of birds, non lo nomina neppure, lo lascia scoprire – in quel modo paternalista in cui perlopiù ci si rivolge ai bambini per le cose d’arte, tanto più contemporanea. Il nostro fa invece un discorso coinvolgente: Se tu fossi un bambino di nome Henri Matisse e fossi nato là, con una mamma così, una casa cosà, i piccioni sul davanzale, “non sarebbe una sorpresa vedere che stai diventando un bravissimo pittore che dipinge stanze rosse … e l’iridescenza degli uccelli”. Così facendo, fa pensare al bambino il legame tra la vita e l’arte, quello che sta vivendo e il suo futuro. Lo fa andando all’indietro: non deterministicamente, per affermare un legame di principio, la “storia” o la “biografia” come dimostrazione di ciò che è avvenuto, ma come interrogazione. Inizia infatti il suo breve testo di postfazione l’autrice, Patricia MacLachlan: “Perché i pittori dipingono quello che dipingono? Dipingono quello che vedono o quello che ricordano?” La risposta alla fine è un po’ salomonica: dipingono sia l’uno che l’altro, ma la domanda è ottima.

John Berger, per esempio, dice al riguardo una cosa ancora più semplice all’apparenza, ma più acuta: dipingono qualcosa che comunque hanno visto. Alberto Giacometti da parte sua diceva: dipingo per vedere, letteralmente. A me pare che questo valga in altro senso anche per Matisse, il quale pure ha sempre dipinto dal vero, ciò che aveva davanti, scena, modello, paesaggio, natura morta, osservato con tale intensità che si racconta che sia arrivato a diagnosticare la scoliosi a una modella! In più, direi che Matisse dipingeva, e lo si vede bene soprattutto nel disegno, per pensare. Guardando i suoi quadri, si vede bene la sua mente che pensa, pennellata per pennellata, segno per segno: pensava per pennellate, per colori, per segni. È uno dei significati della frase ricordata. “Il pittore si dovrebbe tagliare la lingua”, pensare e parlare in pittura, direbbe Jacques Derrida, naturalmente rifacendosi a Cézanne.

Tornando al libro, le illustrazioni sono molto belle, per niente scontate, per le quali l’illustratrice, Hadley Hooper, ha inventato una tecnica, anzi un misto di tecniche, che spiega nella sua postfazione, che giustamente integra il lato artigianale e un lavoro aggiornato di postproduzione che attualizza il rimando alle tecniche di Matisse senza scimmiottarle semplificandole. Il tutto con una freschezza che è perfetta per la storia e il tono lirico del racconto.

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Più scontato da questo punto di vista è invece Il giardino di Matisse (realizzato nientemeno che dal Moma, Museum of Modern Art di New York, edito in versione italiana da Fatatrac, Casalecchio di Reno 2015), tutto dedicato al periodo dei papiers découpés dell’artista che hanno costretto, per così dire, l’illustratrice Cristina Amodeo a rifarsi direttamente ed esclusivamente ad essi, con grande dovizia però e inventando da parte sua una efficace “immersione” finale dell’artista dentro i suoi ritagli, che diventano un mondo reale, il suo mondo, il suo giardino, come appunto dice il titolo del libro. La storia, di Samantha Friedman – anche qui due donne, siano benedette che si dedicano con tanto trasporto e intelligenza all’illustrazione –, confesso che non mi piace nel suo cercare di legare insieme le opere di quello stile di Matisse si rivolge a un pubblico che, se non lo conosce già, non lo coglie, se lo sa già, vede solo la semplificazione di un artista che sembra giocare con forme e colori e ricordi.

C’è infine un terzo libretto dal bel titolo: Guarda che artista! Henri Matisse (Franco Cosimo Panini, Modena 2014) di Patricia Geis. Si apre con una dichiarazione che ci guida nel percorso: “Per tutta la vita Henri Matisse lotta contro l’oscurità, riempiendo i suoi quadri di luce, vita, energia e colore”. L’indicazione non è qui così scontata perché parla di lotta, il che è verissimo, e inserisce la “gioia di vivere”, il “lusso, calma, voluttà” nell’intento di contrastare l’oscurità; inoltre lo dice al presente, invitandoci a comprendere piuttosto che a compiacerci della distanza di un passato trascorso.

Questo è un libro con finestrelle che si aprono e pop-up; alla fine, in una apposita tasca, ci fornisce anche dei fogli colorati per creare i nostri papiers découpés. Molto giusto: provateci, fatelo per capire con la vostra testa. Il testo ripercorre sinteticamente ma correttamente e senza sbavature tutta la vita e l’opera di Matisse con riproduzioni di sue opere e citazioni di frasi dell’artista – scritte a mano, bella trovata, che dà il senso della scrittura e si rivolge al tempo stesso più direttamente al bambino.

Alla fine, incredibilmente per libretti del genere, l’autrice introduce un parallelo con Picasso, ricordando che si sono sfidati per tutta la vita e che alla morte di Matisse Picasso ha realizzato tutta una serie in omaggio al suo rivale, “uguale a quelli di Matisse, ma pieno di cordoglio”, e, scritte a mano in chiusura, due frasi dei due artisti: “Solo una persona ha il diritto di criticarmi: Picasso” di Matisse, e “In realtà, esiste solo Matisse”, di Picasso. Commovente.

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