McCarthy nell’abisso
I re supremi d’Irlanda regnavano da Tara, nella Contea di Meath, il luogo in cui i futuri sovrani del tutto venivano consacrati e lì, tra sedi di pietra e di parole, governavano in bilico tra Samhain e Imbolc, l’equinozio d’autunno, il solstizio d’inverno, e poi, come in un sogno di anemoni, l’equinozio di primavera. Uno di quei re era Cormac mac Airt, un fantasma che pare aver regnato tra il secondo e il quarto secolo dopo Cristo, contemporaneo forse di Marco Aurelio, che visse e morì, dopo quarant’anni di regno, soffocato da una lisca di salmone. Così, dopo qualche insignificante manciata di secoli, quella lisca fatale, nel passaggio di tempi e metafore, pare aver ucciso alla fine Charles Joseph McCarthy Jr, nato a Providence, Rhode Island, il 20 luglio del 1933.
Adesso, davvero, non abbiamo bisogno di una carrellata di titoli e temi. Sarebbe facile e offensivo. Per le tre, forse quattro generazioni che hanno letto i suoi libri è il momento di fermarsi, di uscire dalla cronaca, e cercare di capire che cosa ha significato vivere nello stesso tempo relativo in cui ha vissuto il Faulkner dell’Antropocene. Non è il momento, insomma, di parlare di letteratura e soggetti, ma di guardarsi dentro e fare alla fine il punto. Il 13 giugno 2023 è l’occasione per segnare sulla mappa la presenza inequivocabile di un faro in capo al mondo, la baracca ultima, l’osservatorio intimo e collettivo da cui raccontarci nel modo più spietato possibile. Se c’è una cosa che McCarthy ha cercato per tutta la vita è proprio questa franchezza atroce, quella che proietta vite e amori e luoghi e bestie in un deserto feroce e assoluto.
Il punto di partenza è irrisorio. Ognuno deve scegliere, ognuno ha il suo, ancorato in una contingenza che è il senso della letteratura, quando intercetta la vita modesta del lettore e la risucchia in un lontano così lontano che trasfigura una banalità qualunque per elevarla a un’appartenenza che è di tutta la specie. Dove eri, padre, leggendo la storia di un padre e di un figlio in un mondo distrutto? Eri in un appartamento qualunque e, parola dopo parola, hai visto anche tu la fine del mondo, sgomento, nel desiderio di offrire al sangue del tuo sangue un’ostia di futuro? Oppure eri nei massacri di individui e popoli, assorbiti da paesaggi allucinati, sul dorso di un cavallo o nel pelo di un lupo femmina che alla fine marcisce nel vento freddo di febbraio? O sei stato anche tu Anton Chigurh nelle desolazioni di steppe e di piscine di motel? McCarthy non ha fatto letteratura. McCarthy ha collezionato un catalogo di eccezioni. E ci ha fatto credere che le nostre cucine, la nostra domesticità addomesticata, fossero abitate dal caos e dall’abisso.
Un giorno ho ascoltato una vecchia cassetta registrata. James Kilgo, Coleman Barks e John Seawright leggevano e commentavano brani da The Orchard Keeper. Era chiaro che parlavano di un autore che non avresti mai dato da leggere a tua figlia adolescente, ma era chiaro che a quella figlia adolescente avresti fatto il regalo più grande della vita dicendo di leggere una storia che partiva da un meleto marcio. Perché? Forse perché il buio è l’ingrediente essenziale del passaggio alla maturità, forse perché il buio, per quanto buio, fa luce nel momento in cui lo investi con la forza della lingua, nel momento in cui la parola di chi ha dato uno spessore enorme alla letteratura americana – Melville, Faulkner, DeLillo – diventa la presa di coscienza di come siamo Sapiens, in disequilibrio tra redenzione e stupro.
McCarthy è morto. È forse strano accettare la commozione di questi primi minuti in una residua tribù di lettrici e lettori che ancora sono in grado di onorare la complessità del deserto e del peccato. Bisogna essere squallidi amanti traditi, fidanzati gelosi, ordinari mariti, mogli, impiegati, insegnanti, avvocati, gestori di pub, vedove, studenti, artisti, negozianti per sentirsi spettatori di una tragedia di cui non saremo mai all’altezza. Perché McCarthy non ha mai giocato al gioco della lusinga della vita ordinaria. I suoi paesaggi, i suoi personaggi non ci assomiglieranno mai. La sua scommessa con l’universale non è mai stata la narrativa compiacente e borghese del chi siamo e di chi eravamo. Il suo mondo è la deroga. È il chi non possiamo essere, e proprio per questo il suo racconto ci ha scosso come si dà uno schiaffo a un ragazzo inebetito, ci ha messo di fronte a un imperativo senza perdono, a un’antropologia possibile ma inarrivabile.
Per chi sa cercare, ma non troppo, si può leggere con cautela una sceneggiatura inedita. Si intitola Whales and Men. Comincia così:
A beach off the main highway going to the Keys. It is gray dawn and a number of pilot whales are lying on the beach. The beach is sheltered by an embayment and in the water whales are circling. Their small cries are incessant. A truck passes on the highway.
E finisce così:
John looking out to the sea. In the mountains the muffled boom and flare of the artillery. The roll of the surf at his feet. The calls of the whales. A great bulk passing in the dark sea. The whale’s great eye. His receding. The sea vast and empty. The calls fading. The silence.
C’è qualcosa di ipnotico nella maniera in cui McCarthy sonda l’Apocalisse attraverso l’acqua e le sue presenze. I salmerini di The Road, gli enormi pesci di The Passenger, le balene. Abituati ai suoi arrocchi geologici, ai paesaggi americani del nulla, la sua idea liquida della fine, abitata da esseri prelinguistici, ha il potere della profezia. Non è tempo però, dicevo, per titoli e temi. Non ha senso ricordare Cormac McCarthy per i suoi libri. Li rileggeremo. Verranno letti nel gabinetto dei classici o nelle camere spoglie, anonime, di scrittori che devono ancora nascere. Ma il punto, ovviamente, non è questo. Il punto è che il suo mondo di massacri e commozioni può funzionare come un’ipotesi di grandezza anche per chi, come noi, è solo lettore, spettatore. A Tara sono sepolti i re. A Tara servi e contadini accendono fuochi notturni.