Moravia: la bomba, la terra
“Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra!”. L’esortazione dello Zarathustra di Nietzsche non è mai stata più attuale. Il nesso climatico, come lo ha chiamato il pensatore tedesco Ernst Jünger, mostra come all’arrivo del nuovo, e in particolare di un nuovo clima, seguono un’acclimatazione, un disagio, e poi febbri ed epidemie, e perfino la morte. La profezia di Jünger ci mostra che siamo giunti al muro del tempo, con eventi come il cambiamento climatico, la pandemia e la guerra, di cui non riusciamo a cogliere la concatenazione. Siamo in pieno adattamento, ma esso comprende spostamenti di popolazione a causa del clima, e guerre che ne derivano in modo diretto o indiretto.
In questo orizzonte rientra anche L’inverno nucleare, come Alberto Moravia chiamò negli anni Ottanta del Novecento il suo resoconto sulla imminente possibile catastrofe nucleare, che torna oggi di attualità (e perciò opportunamente ripubblicato da Bompiani con la cura di Alessandra Grandelis). La paura evocata da Moravia e dai suoi interlocutori giapponesi, russi, americani, tedeschi, che si era conclusa con il Trattato dell’8 dicembre 1987 tra Reagan e Gorbacëv, oggi si riapre con la guerra russa in Ucraina. Allora erano due superpotenze a confrontarsi, ora è uno Stato terrorista (così lo ha definito il Parlamento europeo) a minacciare. Aveva scritto del resto Nigel Calder, citato da Moravia: “Tuttavia è sufficiente che un folle, un politico o un militare, si stanchi, e diventi intollerante della pace o che un incapace non sappia gestire una crisi, perché la civiltà del nostro emisfero abbia fine immediatamente”.
Nella più notevole delle sue interviste, Moravia incontrò Jünger nell’agosto del 1983 nel villaggio vicino a Costanza in cui Jünger abitava, in un paesaggio tipicamente tedesco. Tutta la natura è in pericolo, egli esclama, e la guerra nucleare è solo un aspetto di questa minaccia che incombe sulla Terra: l’inquinamento atmosferico, l’alterazione geologica sono altrettante cause di crisi. Ma nessuno sta reagendo a questa minaccia, né le religioni né l’etica sembrano esserne all’altezza. Il primo a rendersene conto è stato Nietzsche. La minaccia è di natura planetaria, è originata in Occidente ma ormai coinvolge tutto il mondo.
Del resto, rallentare il progresso tecnico da cui la minaccia origina è in contraddizione con l’esperienza pratica. L’etica del capitalismo anzi, si potrebbe aggiungere, ha fortemente radicata l’idea che la tecnica possa essere la soluzione a qualsiasi evento critico. Questo moltiplica le minacce, climatiche ambientali geologiche atomiche ecc., cui la tecnica dovrebbe rispondere. Ma in questo modo vediamo barcollare la tecnica in un vicolo cieco. Questa illusione può essere risolta, per Jünger, solo con la formazione di uno Stato universale (che egli aveva preconizzato già nel 1944 in piena seconda guerra mondiale con il suo scritto La Pace).
Moravia commenta l’importanza della visione filosofica di Jünger: mettere limiti alla corsa sfrenata verso l’ignoto, che possa essere fermata da un accordo planetario che riesca ad esempio a creare il tabù della guerra. Ma occorrerebbe creare un Tipo umano che sia all’altezza della catastrofe ormai annunciata.
Sono passati quarant’anni dagli scritti di Moravia e dalla profezia di Jünger, e oltre un secolo dall’esortazione di Nietzsche: nulla di questo auspicio sta avvenendo. O meglio: stiamo sperimentando nuove minacce e nuovi rischi, adattandoci ad essi senza essere “fedeli alla Terra”.
Moravia scriveva lucidamente “sì, la fine del mondo è già cominciata col disastro ecologico. Ma al contrario della fine del mondo nucleare, la fine del mondo ecologica ha tempi relativamente lunghi. Forse potremo ancora invertire la direzione”. Eppure questa inversione non sta avvenendo, prolunghiamo al 2050 o al 2100 quanto dovremmo fare oggi, anzi ieri, poiché I limiti dello sviluppo (che annunciava un limite invalicabile all’azione umana di esaurimento delle risorse naturali) è un testo di cinquant’anni fa.
“Non credo che bisogna essere catastrofici” concludeva Moravia con una nota di speranza. La paura, la fine dei tempi potrebbe essere perfino un passaggio obbligato verso lo Stato universale auspicato da Jünger! Il quale è stato il primo (negli anni Cinquanta del Novecento) a capire che l’uomo con le sue opere stava creando un nuovo strato terrestre, che è insieme geologico e spirituale. Quale senso rivesta per la terra l’attività umana sta in questa evidenza: l’uomo è diventato un fossile-guida di un nuovo strato terrestre. Oggi, decenni dopo, lo chiamiamo ormai Antropocene. Esso ha cambiato la storia della terra. Ma se saremo in grado di essere spirituali, anche la nostra Madre Terra non ci abbandonerà: è la nota di speranza delle ultime parole di Jünger, Al muro del tempo.