Cento anni di Nosferatu / Morto un vampiro se ne fa un altro

27 Marzo 2022

Forse vi sarà sfuggito (anche perché la stampa – travolta da ben altre notizie – non ne ha praticamente parlato) che qualche settimana fa, esattamente il 4 marzo, ricorreva il centenario della proiezione, al cinema Marmorsaal, all’interno dello zoo di Berlino, del film Nosferatu, del regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau, liberamente tratto dal romanzo Dracula di Abraham “Bram” Stoker (1847-1912). “Liberamente” perché, all’epoca, la produzione Prana-Film, non avendo ottenuto la cessione dei diritti, aveva cercato di modificare – per quanto possibile, ma non abbastanza – personaggi e storia, tanto che, portata in giudizio dalla vedova di Stoker, fu condannata per violazione del diritto d’autore e tutte le copie del film finirono al macero. Beh, non proprio tutte: per certo se ne salvò una francese che, restaurata e rititolata, è quella che, per fortuna, circola ancora oggi.

In contemporanea all’uscita di Nosferatu, sempre in quel 1922, l’editore Sonzogno pubblicava, nel numero 12 della collana “I racconti misteriosi”, la prima edizione italiana di Dracula (l’uomo della notte) di Brahm [sic] Stoker, per la traduzione di Angelo Nessi, anche se non in edizione integrale: quella uscirà nel 1945 nelle edizioni dei Fratelli Bocca, con il nome dell’autore, questa volta, corretto.

 

L’illusione dell’immortalità

 

Un anniversario, questo, che cade in concomitanza della tragedia che stiamo vivendo in diretta a seguito del vampiresco outing di Vladimir Vladimirovič Putin, novello Nosferatu in vena di sublimare radicate e mai sopite pulsioni sovietiche, spedendo i suoi lanzichenecchi a spargere sangue fresco (e non figurato), facendo indossare loro – forse l’avrete visto in alcuni di quei filmati amatoriali in cui donne ucraine insultano, a muso duro, militari grandi e grossi dell’Armata Rossa – una sinistra e simbolica maschera nera, bucherellata, in stile Hannibal the Cannibal. 

Come Nosferatu, il neo zar di Mosca, è alla ricerca dell’illusione dell’immortalità, nel suo caso storica, chissà, forse per essere ricordato come Vladimir il Grande, riunificatore di “tutte le russie” (mentre, dietro le mura del Cremlino, lo avrete certamente letto, si fa fare iniezioni “ringiovanenti” di botulino, come una sciura qualsiasi). Ma attenzione, ammonisce Jean Baudrillard: «da sempre l’immortalità ha rappresentato la peggiore delle condanne, il destino più terrificante». 

 

 

Già Nikolaj Gogol metteva in guardia – con il simbolismo demoniaco di Vij, il vampiro russo che, antecedente a Dracula, dà il titolo all’omonimo racconto del 1835 – da coloro che, con gelido sguardo, portano morte, uccidono uomini, distruggono e riducono in cenere le città. Mentre, dal canto suo, Aleksej Konstantinovic Tolstoj, scrittore, poeta e drammaturgo, cugino di secondo grado dell’altro Tolstoj, scriveva di poveri diavoli che amavano stare seduti, davanti a samovar fumanti, a parlare dei tempi andati e del morbo del vampirismo che avevano contratto e che si era tramutato in un’epidemia altamente contagiosa, a sua volta simbolica di un’altra attualità: l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Potenza visionaria della letteratura. 

 

Il vampiro omeopatico

 

E dire che eravamo ormai abituati a ritenere caduto in prescrizione l’uso ideologico della figura del vampiro come capitalista sfruttatore o dittatore, alla Hitler e Stalin, o magari come il “vampiro-editore” descritto nel racconto grottesco di Edgar Allan Poe, Vampiri a Manhattan, in cui l’autore ironizzava sugli editori che facevano soldi alle sue spalle.

Questo, mentre nel corso del tempo, in occidente, fra il dilagare della moda di Halloween, del dolcetto o scherzetto, dell’avvento del Grande Cocomero, e il successo della magia di Harry Potter, si faceva largo una nuova «covata di adolescenti non-morti» – così il critico Ranieri Polese etichettava i personaggi della fortunata serie “paranormal-romantica” Twilight, partoriti dalla scrittrice statunitense Stephenie Meyer – neo-vampiri che si cibano di sangue sintetico, non dormono in bare imbottite di seta, non vivono in castelli della Transilvania, e sono belli, sensibili e tormentati, come un James Dean in versione omeopatica. Certo è, però, che non danno i brividi del buon vecchio conte Dracula.

 

 

Quell’anno mirabile senza estate

 

Non staremo certo qui a ripercorrere la storia labirintica della dinastia dei vari Vlad, voivodi di Valacchia, impalatori seriali (i documenti con dipinti, disegni, incisioni conservati al Kunsthistorisches Museum di Vienna lasciano ben poco all’immaginazione), e al tempo stesso eroi nazionali rumeni: Vlad III, appartenente all’Ordine del Drago (Dracul, il diavolo in rumeno) aveva liberato la nazione dall’invasione islamica e i suoi connazionali non hanno mai visto di buon occhio l’accostamento con il Dracula stokeriano. Anche se poi, il flusso di turisti che si incolonna per andare a visitare in Transilvania i luoghi di Vlad l’impalatore li ripaga ampiamente della licenza letteraria proto-pop di Bram Stoker.

 

D’altronde prima di lui si erano esercitati sul tema del vampiro il medico John Polidori, con il romanzo The Vampyre [sic], mentre soggiornava con l’amico Lord Byron, il poeta Percy B. Shelley con la moglie Mary, accompagnata dalla sorellastra Claire, a Villa Diodati, presso Cologny, nel canton Ginevra, in Svizzera. Era successo che la comitiva era incappata in quello che le cronache ricordano come “l’anno senza estate” (1816), dovuto, con molta probabilità, all’eruzione, l’anno precedente, del vulcano Tambora, nell’arcipelago indonesiano, apparentemente l’eruzione più potente mai registrata negli annali della storia recente, la cui cenere vulcanica, dispersasi nell’atmosfera, causò sostanziali cambiamenti climatici a lungo termine. Tutto questo per dire che non potendo uscire per la pioggia violenta, gli amici, bloccati in villa, decisero, su idea di Byron, di gareggiare a chi avesse ideato il racconto del terrore più bello. Polidori scrisse The Vampyre, appunto, e Mary Shelley si dedicò a Frankenstein. E poi ci si lamenta del cattivo tempo.

 

Ma non è tutto, solo quattro anni più tardi, sulla scia del successo di Polidori, l’entomologo francese Charles Nodier prese a scrivere di vampiri finendo con l’influenzare persino Alexandre Dumas padre che si esibì, a sua volta, in Le vampire (in italiano diventerà, in stile Vanzina, La bella vampirizzata) che ci riporta, indirettamente, al conflitto in corso. Già, perché la protagonista del romanzo, polacca, racconta in prima persona: «L’anno 1825 vide nascere tra la Russia e la Polonia una di quelle lotte nelle quali parrebbe destinato ad esaurirsi tutto il sangue d’un popolo, come si esaurisce il sangue di tutta una famiglia. Mio padre e i miei due fratelli, insorti contro il nuovo Zar, erano andati a schierarsi sotto il vessillo dell’indipendenza polacca. Un giorno seppi che il mio fratello minore era stato ucciso: un altro giorno mi annunciarono che il mio fratello maggiore era stato ferito a morte; e finalmente, dopo una giornata angosciosa, durante la quale avevo udito atterrita il rombo sempre più vicino del cannone, vidi arrivare mio padre con un centinaio di cavalieri, solo avanzo dei tremila uomini che comandava. Era venuto a rinchiudersi nel nostro castello con l’intenzione di seppellirsi sotto le sue rovine». Sostituite Polonia con Ucraina e ci siamo capiti.

 

 

Mordere sul collo, sì, ma in modo elegante

 

A dare vera fama ai vampiri saranno soprattutto le varie trasposizioni e varianti cinematografiche del romanzo di Bram Stoker che, col tempo, sarà sempre più cannibalizzato, adattato, citato, teatralizzato, postmodernizzato. L’adattamento più celebre sarà il Dracula di Tod Browning (1931), regista che la stampa dell’epoca aveva battezzato “l’Edgar Allan Poe del cinema”, interpretato da un (al momento) oscuro attore ungherese, tale Bela Lugosi, che nel 1923 era emigrato a Hollywood, città che è «il primo perfetto esempio di organizzazione sociale basata sui sogni», scrive Edgardo Franzosini nella sua eccentrica biografia dell’attore (Adelphi, 1998). Lugosi sarebbe riuscito a ottenere la parte, ricorda Franzosini, per essere riuscito a convincere la vedova Stoker (quella, come raccontavamo all’inizio, che aveva fatto sequestrare e mandare al macero le copie di Nosferatu) a ottenere uno sconto da duecentomila a quarantamila dollari per la cessione dei diritti cinematografici. «La Universal, ammirata e riconoscente, affida a Bela Lugosi la parte di Dracula».

 

Da allora sarà un susseguirsi di vampiri in celluloide (e relative vittime femminili) in cui si cimenteranno pezzi da novanta hollywoodiani: da Werner Herzog a Francis Ford Coppola a Tony Scott; da Brad Pitt a Isabelle Adjani, Catherine Deneuve, Susan Sarandon, Tom Cruise. Quest’ultimo vestirà i panni del vampiro Lestat de Lioncourt, parto della scrittrice Anne Rice, recentemente scomparsa. Lestat, come i vampiri di Twilight, vive ai giorni nostri, fa di professione la rock star, è biondo, ha gli occhi verdi e il New York Times lo ha definito un «filosofo ciarliero». Ma soprattutto morde sul collo in modo elegante, come ebbe a farmi notare lo stesso Tom Cruise al quale, all’epoca dell’uscita del film, avevo chiesto quale fosse stata la maggiore difficoltà incontrata nelle riprese. La sua risposta fu, appunto: «trovare una soluzione all’aspetto che più mi disturbava in questo film, e cioè come mordere qualcuno sul collo in modo elegante, come è elegante Lestat» (Max, 1994).

 

 

Un’indagine letteraria tra-il-qua-e-il-là

 

Ma torniamo un attimo ai vampiri letterari e a un inconsueto libro, Il vampiro innominato (Medusa, 2008), che l’autore Renato Giovannoli, costruisce come un’indagine poliziesca alla ricerca del vampiro nascosto in alcuni insospettabili classici della letteratura “non vampirica” dell’Otto e del Novecento. Libro che nasce da un gioco “echiano”, ricorda Giovannoli, sulla scia di Diario minimo in cui Umberto Eco recensisce I promessi sposi come se fosse un’opera di James Joyce. «Io ho invece letto il romanzo di Manzoni come se fosse una variante della storia di Dracula, costruendo una teoria che spiegasse questa e altre coincidenze. In parte l’ho ricavata da un libro di Michel Serres (Sellerio, 1979) in cui le opere di Jules Verne venivano lette come versioni moderne di antichi miti. Applicando un testo su un altro, diceva Serres, si può scoprire che i due testi presentano dei punti notevoli in comune. Ne parlai, fra l’altro, con Omar Calabrese che utilizzò una teoria molto simile per applicare Sandokan a Garibaldi». 

 

I primi tre capitoli, o “dossier polizieschi”, come li chiama Giovannoli, coinvolgono direttamente, e indirettamente, Alessandro Manzoni a cui allude lo stesso titolo del libro (si parla, fra l’altro, dell’influenza manzoniana sull’horror di Poe, e la scoperta di un vampiro “innominato” nello stesso Dracula). Segue un’indagine sull’Ulisse di Joyce, «dove a dire il vero il vampiro è chiamato per nome e ha un ruolo cruciale nell’intreccio», mentre, andando avanti, Giovannoli ipotizza, partendo da un saggio di Deleuze e Guattari (Kafka. Per una letteratura minore, ristampato da Quodlibet, 2021), che Il Castello di Kafka sia stato concepito come una parodia di Dracula. A proposito dello scrittore boemo, e soprattutto del suo epistolario, i due filosofi francesi scrivono: «C’è un vampirismo delle lettere, un vampirismo propriamente epistolare. C’è del Dracula in Kafka, un Dracula epistolare, che ha nelle lettere i suoi pipistrelli. [...] Scrivendo a Felice, Kafka si descrive, seriamente e senza vergogna, come straordinariamente magro, bisognoso di sangue. Kafka-Dracula ha [...] la sua sorgente di energia in ciò di cui le lettere si accingono a rifornirlo. [...] Le lettere devono rifornirlo di sangue e il sangue deve dargli la forza di creare». Infine, l’indagine di Giovannoli si concentra sui caratteri vampirici di Peter Pan, un rapporto che rivela una simmetria strutturale fra un Dracula mai veramente morto e un Peter mai del tutto nato, che, a causa della sua “fuga” dal mondo degli adulti, non diventerà mai un vero bambino, restando, per usare la definizione dell’autore, James Matthew Barrie, un “metà-e-metà” o un “Tra-il-Qua-e-il-Là”.

 

 

La strana coppia e il “cekista” sovietico

 

A proposito di strane coppie vampirico-letterarie non possiamo dimenticare il saggio di Franco Moretti, “Dialettica della paura” (in Calibano 1978, n.2.) in cui il critico analizza il successo di due figure come Frankenstein e Dracula, rispettivamente «il miserabile sfigurato e il possidente crudele», archetipi della «paura della civiltà borghese», capaci di trasformarsi e riapparire in epoche successive mantenendo intatti i loro caratteri originali. Nell’analisi marxiana di Moretti questo terrore (reale o letterario che sia) dovrebbe concludersi con la sconfitta del vampiro e «l’illusione di poter fermare la storia». Dovrebbe, appunto, perché la sua sconfitta è purtroppo solo temporanea. Ora ne abbiamo prova. Nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale ci eravamo crogiolati nell’illusione dello slogan “mai più guerra”, pur sapendo, in cuor nostro, che in qualche modo il vampiro sarebbe tornato e lo scontro sarebbe stato ancor più violento. Settantasette anni dopo – scriveva Anna Politkovskaja (in La Russia di Putin, Adelphi, 2022) prima di essere assassinata per le sue critiche al potere del Cremlino – il vampiro è riapparso nelle vesti di un «cekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino». 

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