Nel cuore razzista degli Stati Uniti

2 Novembre 2022

E poi arriva il punto in cui mi perdo. Leggo o sto per strada? Gli spari che punteggiano le notti, i lampeggianti blu della polizia, la violenza che al calar del sole svuota la città. Queste nostre vite in America, dove il colore della pelle fa la differenza. Mai titolo è stato più azzeccato. Che razza di libro!, il nuovo romanzo di Jason Mott vincitore del National Book Award, da poco in italiano per NN Editore (trad. Valentina Daniele, 320 pp.), ha l’effetto di certe bevute epiche in cui il mondo si sdoppia e raddoppia finché il cervello esplode in un’emicrania lancinante. 

In questo caso, l’emicrania è quella dell’America e questo è un viaggio strepitoso nel cuore razzista del paese che strappa la risata, le lacrime, la rabbia e accende una girandola di domande scorrette. Sono pagine da cui è impossibile uscire indifferenti. E non occorre, come me, vivere quaggiù per restare ipnotizzati perché Mott chiama in causa le fondamenta stesse di una società diversa e plurale insieme allo stato della letteratura e del sistema editoriale.

Il viaggio c’è davvero ed è quello di uno scrittore afroamericano che ha appena pubblicato un libro di successo, un libro capace di catturare i lettori in modo nuovo – a hell of a book, come suona il titolo nell’originale. L’autore parte per un tour promozionale e fra visioni, sesso e sbronze, nei momenti più inaspettati incontra un ragazzino che nessun altro vede. In parallelo, corre la storia di Nerofumo, un bimbo dalla pelle nera (“Ma non solo nera, è scura a livelli impossibili”) che vive in un’area rurale del Sud e potrebbe, o forse no, essere capace di rendersi invisibile. 

Fra scene fin troppo reali e sogni a occhi aperti, queste voci si sfiorano, s’intrecciano, s’inabissano fino a convergere nel racconto di cosa significa oggi essere neri in America. Jason Mott fa i conti con la violenza poliziesca, le sparatorie quotidiane, la paura che strozza le vite, le morti – la vulnerabilità che segna la comunità afroamericana e il suo riflesso sulla società tutta. Sono pagine che stillano sangue, parlano di madri, padri, figli e seminano domande.

Chi è stato ucciso? Ci si può sottrarre agli occhi del mondo? Qual è il prezzo che si paga? E come si cresce un figlio in un mondo-mostro sempre pronto ad allungare gli artigli? In pagine toccanti – che richiamano alla mente tante testimonianze e certi passaggi dello scrittore Ta-Nehisi Coates – Mott racconta le botte e le punizioni dei genitori nel tentativo di tenere i figli al riparo un po’ più a lungo dalle offese e dalla brutalità che prima o poi si abbatteranno su di loro.

“I nostri ci picchiavano e ora noi picchiamo i nostri figli, perché siamo tutti terrorizzati”, spiega la madre a Nerofumo: “Perché anche se li perderai, e sai che li perderai, una parte di te preferisce infliggere quel dolore, per poterlo controllare. Per dargli un limite”. 

E poi il Discorso, The Talk, quello a cui ogni genitore afroamericano prima o poi è costretto. “Verrai trattato in modo diverso per via della tua pelle. Le regole per te sono diverse. Ecco come ti devi comportare se incontri la polizia. Ecco come ti devi comportare se sei nato nel Sud. Questa è la realtà del tuo mondo”. Da quel momento, “non puoi mai dimenticare che non appartieni più a te stesso, ma alle mani, ai pugni, alle manette e ai proiettili di uno sconosciuto”. 

È il ceffone più duro – quello che segna la perdita dell’innocenza e l’inizio di un’angoscia che ogni giorno trova alimento nella cronaca degli abusi. “Che roba è da dire a un bambino? Che tipo di momenti crea? Che cosa gli toglie? Che cosa gli lascia?”. “È difficile dire a un ragazzino: “Tu sei lo specchio che nessuno vuole vedere. E per questo motivo tu e tutti quelli come te nascono scomunicati. Una nazione intera, non voluta né cercata, nata in esilio nel ventre di un’altra [...]?” scrive Mott. 

Nerofumo, tenero e saggio come i bambini raccontati di Jesmyn Ward, l’altra autrice che risuona in questo libro, finirà dunque per rifugiarsi nel sogno di un pianeta del colore dell’onice. “Oceani, montagne, foreste, tutti profondi e scuri come la pelle che odiava così tanto”, una casa, “il luogo di suo padre e di sua madre, della loro pelle, della loro lingua e delle loro battute”. Un luogo che non è Africa né America e non esiste se non nel desiderio che la realtà si incaricherà di smentire.

La magia di Che razza di libro! sta in un impasto che oscilla senza sosta fra ironia, tragedia e lampi di poesia. Jason Mott amplifica e deforma il quadro finché esplode sotto i nostri occhi e a quel punto si salvi chi può. Sono pagine che non fanno sconti né al moralismo progressista né alle regole politically correct e tanto meno a un’editoria che degli stereotipi e dell’appartenenza fa commercio.

mE se l’identità fosse invece un peso, un vincolo, una gabbia? Si può uscire dalla propria pelle? O chi è parte di una minoranza deve per forza farsi ambasciatore dei suoi nella società maggioritaria? “Dovresti dire qualcosa. Devi parlare della condizione dei neri! Devi essere una voce!” si sente intimare lo scrittore. “Una voce? Quale voce? La voce della mia gente? Sempre? Ogni secondo di ogni giorno della mia vita? È questo che i neri devono essere, sempre?” ribatte lui.

“È la condizione dei neri? Che condizione è? Intendi dire uno stato dell’esistenza? O una condizione clinica ... come una malattia?” insiste. E poi la questione cruciale “Mi è permesso essere altro, a parte il colore della mia pelle?”. 

La riposta è no, come dimostra l’esilarante impatto del protagonista con il gran circo dei media. Però le regole sono stringenti. Non scrivere dell’essere nero, gli dice il media trainer. Scrivi di personaggi neri, non di discriminazione. “Senza offesa, essere neri è una maledizione: e nessuno vuole sentirsi addosso una maledizione mentre legge un libro per cui ha appena speso ventiquattro dollari e novantacinque”. 

In altre parole, non si piantano bandiere da nessuna parte: “il futuro di questo paese – annuncia il media trainer – sta tutto in una lingua patriottica e unificatrice. Post-razziale. Trans-segregazionista. Epi- traumatica. Altriparatrice. Omni- risarcitoria [...]”.. Scrivi dell’amore, lo esorta. “Amore e finali alla Disney”. 

Che razza di libro! s’inoltra nel dibattito sull’America, la razza e la polizia ma non regala risposte. “Il romanzo – spiega Jason Mott – è bloccato nell’ambiguità, ma solo perché penso che gli scrittori devono essere filosofi e che ciò che la buona filosofia fa è non rispondere alle domande. Invece credo che i buoni filosofi sollevino buone domande”. 

È quest’ambiguità a innescare la tensione e lo scontro con quella che è diventata la narrazione dominante. Come notava lo scrittore Ismail Muhammad sul New York Times Magazine, nell’ultimo decennio il quadro dell’industria culturale statunitense è mutato nel profondo. Gli scontri sulle politiche razziali e le morti che hanno dato il via al movimento Black Lives Matter hanno catapultato il tema della diversità al centro dell’attenzione. La rappresentazione dell’esperienza afroamericana, fino allora relegata in secondo piano o considerata un tema “regionale”, ha così trovato una doverosa benché tardiva ribalta nazionale. 

Per conferma, basta scorrere l’elenco dei premiati dal National Book Award, uno dei massimi riconoscimenti letterari americani. Jesmyn Ward, che dopo numerosi rifiuti stava per dire addio alla scrittura e diventare infermiera, è diventata la prima autrice afroamericana a vincere due volte nel 2011 e 2017. Il premio è andato a Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates nel 2015 e l’anno dopo a La ferrovia sotterranea di Colson Witehead. E mentre tante altre voci trovavano infine riconoscimento, il mondo dell’editoria, per tradizione dominato dai bianchi, nominava esponenti delle minoranze a ruoli di vertice.

Questa nuova apertura, su cui il mercato editoriale si è affrettato a capitalizzare, ha però finito per coagulare nuovi luoghi comuni che oggi governano il racconto della realtà afroamericana: la vulnerabilità, l’accumulo del trauma, l’oppressione, il dolore, lo stop poliziesco, la disperazione delle madri. Il melodramma. Ed è questo il copione che Jason Mott rovescia e riscrive svelando la retorica, i conformismi e le ipocrisie su cui si regge. 

Non per caso Che razza di libro! è maturato in solitudine. Lo scrittore racconta di averlo immaginato a lungo vedendo però la proposta naufragare nel disinteresse generale – benché all’attivo avesse già tre libri fra cui l’horror Returned (2013) da cui è stata tratta una serie tv. In un periodo in cui non era sotto contratto editoriale, ha deciso di scriverlo per se stesso. “Alla fine ero in un posto in cui non mi importava come il libro sarebbe stato recensito dagli altri. Era solo il libro che volevo ammirare per delle mie ragioni e questo mi ha aiutato a scriverlo nel modo in cui volevo scriverlo”.

La pubblicazione poi è arrivata, il successo non si è fatto attendere e neppure il National Book Award – il che al tempo stesso conferma e smentisce le aspettative, ma poco importa. Quel che conta è che insieme alla gioia di leggere questo è un libro che regala una nuova fiducia nella letteratura e nelle sue possibilità. È crudo, tenero, vero. Capace di trasportarti nel mondo e lasciarti lì. In mezzo alla strada, mentre gli spari esplodono, la polizia arriva a sirene spiegate e la testa esplode.

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