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Occhio rotondo 14. Fantasma
Che cos’è? O meglio: cosa c’è sotto quel lenzuolo? Un mobile, un monolite, un’astronave marziana? Semplicemente un’automobile. Tuttavia Mimmo Jodice l’ha fotografata come se fosse proprio un fantasma: un’apparizione. Non solo perché coperta dal telo bianco, ma perché vista nella penombra del vicolo; inoltre, mentre la stampava in camera oscura, come fa di solito utilizzando dei cartoncini, Jodice ne ha sfumato la parte destra in basso. Questo fantasma ha senza dubbio qualcosa d’inquietante. Nel 1992 spiegando le sue immagini raccolte in Vedute di Napoli, la mostra a Villa Pignatelli del 1980 cui lo scatto appartiene, il fotografo ha detto di questa immagine che “rappresenta meglio il mio stato d’animo nei confronti della città”. La sentiva allora profondamente triste in alternativa allo stereotipo della Napoli allegra e rumorosa: era “dolente e con forte e rassegnato senso di morte”. Poi ha descritto così l’oggetto della fotografia: “avvolta nel lenzuolo c’è una automobile in un vicolo scuro, ma si tratta in realtà di un fantasma di automobile, di una presenza estranea, misteriosa e inquietante, che viola il contesto antico e fa il deserto intorno. Più che una foto che riproduce un aspetto della città è (…) un’allegoria”. Si tratta di un bellissimo scatto, sorprendente proprio perché l’automobile, che si intuisce per esclusione, è “avvolta nel lenzuolo”. L’espressione evoca il corpo di Cristo nel sepolcro deposto dalle pie donne, come lo racconta Marco nel suo Vangelo. Qualcosa di blasfemo evocare il corpo di Cristo per questa immagine? Non credo. Le immagini del Cristo morto appartengono alla religiosità napoletana, anche quelle degli altarini di quartiere. Nella fotografia di Mimmo Jodice, poi, c’è qualcosa di sacro, non di religioso, ma proprio di sacro. Il latino sacer indica ciò che è “separato” in opposizione a profanus: pro-fanus, “ciò che sta davanti al tempio”. L’atteggiamento che si coglie nei suoi scatti, sin dal suo esordio negli anni Sessanta, è quello di una radicale ricerca di qualcosa di “separato”. La dimensione del sacro non coincide con il religioso, che è invece legato a un culto, a una comunità, a una casta religiosa. Jodice possiede una tensione verso l’assoluto che negli anni Settanta ha preso la forma della politica, dell’impegno sociale, del bisogno di agire nella realtà per trasformare il mondo, per un riscatto. Poi questo assoluto ha imboccato una diversa direzione di ricerca, come si coglie nei famosi scatti di statue del 1986, a Ercolano, e ancora a Petra nel 1993. Anche le fotografie di luoghi degli anni Novanta, che raffigurino Marghera piuttosto che Stromboli, che ritraggano Parigi o di nuovo Napoli, contengono questa tensione. Il fotografo parla di allegoria: dal greco altro parlare. Davanti a molte delle sue fotografie, compresa questa dell’automobile, oggi esposta nella mostra di Mimmo Jodice a Gallerie d’Italia a Torino, Senza tempo (catalogo a cura di Roberto Koch, edito da Gallerie d'Italia - Skira), si sente che il fotografo vuole parlare d’altro rispetto a ciò che si vede; ci chiede, infatti, di interpretarla diversamente dal suo significato apparente. L’istanza del sacro nasce con questo scatto dell’automobile sotto il lenzuolo? Difficile dirlo, certo che questo “fantasma” onora qui il suo significato etimologico: “mostrare”, “apparire”. L’automobile è un fantasma, e un fantasma è anche la fotografia. I fantasmi appaiono di notte; per questo sono bianchi per apparire nel buio, mentre gli spettri, che abitano il giorno, il mezzodì, sono neri nella luce abbagliante del giorno. Sono i cosiddetti “demoni meridiani”, quelli che tentano il monaco mentre prega nella sua cella: piega il capo, pone il libro delle preghiere sotto il capo, e s’addormenta. È la figura della malinconia, persino dell’accidia. Nel documentario proiettato in mostra, curato da Mario Martone, e dedicato a Jodice, il fotografo esordisce così: “Tutto quello che succede in fotografia succede sempre prima in visione”. Il sacro di Mimmo Jodice è esattamente questo: visione.
Mimmo Jodice, Vedute di Napoli, Opera 29, 1980. © Mimmo Jodice
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