Cose, merci, forse esseri umani / Oggetto

15 Maggio 2018

Lo scrittore Georges Perec ha documentato negli anni Sessanta, nel celebre romanzo Le cose, quel potente choc psicologico e culturale che è stato causato dalla crescita abnorme degli oggetti determinata nelle abitazioni private dalla produzione industriale di massa. All’epoca appariva evidente infatti che con la nuova società dei consumi le merci crescevano costantemente in quantità e in dimensioni e tendevano sempre più ad occupare anche lo spazio quotidiano di vita delle persone.

Da allora però gli oggetti hanno notevolmente accresciuto sia il loro numero, che la loro capacità di comunicare. Oggi veicolano pertanto numerosi significati, che provengono dal marketing e dalla cultura del consumo, ma anche dalla cultura sociale. Con il risultato di rendere difficoltoso per le persone orientarsi rispetto ad essi. Di rendere difficoltoso cioè gestire il flusso vischioso dei significati che riguarda gli oggetti. Vivere nell’ipermodernità vuole dire infatti, tra le altre cose, dover imparare a vivere immersi all’interno della cultura degli oggetti. 

 

 

Il concetto di funzione utile della merce tende pertanto a diventare sempre più obsoleto, messo in crisi dall’avanzata di oggetti di vario tipo: polifunzionali (che svolgono simultaneamente due funzioni prefissate), multifunzionali, extrafunzionali (che sono utilizzati in maniera impropria), funzionoidi (senza funzioni prestabilite, ma ricevute da precise istruzioni contenute nel software), ecc. Non è però soltanto in atto la nascita di nuove famiglie di oggetti “mutanti”, bensì un’innovazione più radicale che coinvolge tutta la nostra concezione del rapporto con gli oggetti che ci circondano. Quello che appare sempre più evidente infatti è che le merci si “smaterializzano” progressivamente nel software e nelle diverse sceneggiature di comportamento che contengono. Libere dalla schiavitù dell’utilità e della forma, tendono a ridursi a pura forma di comunicazione.

 

Poiché però gli esseri umani hanno sempre sviluppato la loro identità mettendosi in relazione con gli oggetti che li circondavano, quanto più le merci diventano immateriali e invisibili, tanto meno siamo in grado di definire il nostro ruolo sociale. Gli oggetti cosiddetti “intelligenti”, che si mostrano solamente per le diverse prestazioni che sono di volta in volta in grado di offrire, sono anche scarsamente riconoscibili e rendono pertanto difficoltoso lo sviluppo di una relazione da parte degli esseri umani. È anche per questo, probabilmente, che molte delle esperienze maggiormente avanzate del design contemporaneo hanno proposto negli ultimi decenni la decorazione, l’ornamento, il gadget superfluo o l’invenzione che produce una sorpresa come degli strumenti adatti per alleviare quel senso di vuoto che si è creato nel rapporto esistente tra gli esseri umani e gli oggetti.

 

Ed è sempre per lo stesso motivo che le imprese si vanno sempre più orientando verso un insieme di strategie che cercano di far sperimentare al consumatore delle sensazioni fisiche ed emotive durante l’esperienza effettuata con i prodotti. Sensazioni che vengono stimolate da tutte le forme di comunicazione emesse e dal design del prodotto, ma sono però principalmente generate dall’aspetto dei nuovi spazi di vendita, che sono oggi i primari strumenti in grado di consentire alle aziende di stabilire una vera relazione con i consumatori. E che si producono principalmente nel consumatore. Dunque è soprattutto il “lavoro emozionale” di quest’ultimo che consente il funzionamento del “sistema degli oggetti” contemporaneo.

 

Per l’individuo perciò appare sempre più significativa l’esperienza fatta, la capacità di una merce di renderlo diverso e di dare vita a qualcosa che si presenta a un tempo come spettacolare e gratificante. Qualcosa, soprattutto, dopo di che egli non è più lo stesso. Pertanto, come ha scritto l’antropologo Marc Augé nel saggio Finzioni di fine secolo, «Il mondo è sempre più messo in scena o in spettacolo, come avevano già visto i situazionisti. Ma questo spettacolo, che possiamo andare a vedere a Disneyland, nei Center Parcs, nei grandi luoghi turistici, nelle catene alberghiere, al cinema o alla televisione, è già nelle nostre teste, sui nostri corpi e nelle nostre case» (p. 104).

Non è un caso perciò che il filosofo Remo Bodei abbia suggerito nel saggio La vita delle cose come il nostro rapporto con gli oggetti sia fortemente somigliante a quello di tipo amoroso che le persone sono in grado di stabilire tra di loro. Infatti, il consumatore sembra oggi aver spesso a che fare con degli oggetti che sono simili a quelli di cui ha parlato lo scrittore Etgar Keret nei racconti racchiusi all’interno del volume Abram Kadabram. Si tratta infatti di oggetti che hanno paura, che implorano e che fanno i dispetti. Oggetti insomma che si comportano come gli esseri umani. E che dunque forse non è più possibile definire oggetti. 

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