Ogni fiaba è nera
Ogni fiaba è una caduta nella terra dei morti. Ogni fiaba, per questo, è nera. La terra dei morti non ha geografia, si sottrae a ogni tentativo di mappa. È priva di scrittura, di segni. Il primo sintomo che la annuncia è la perdita. Una perdita che appare minuscola, di solito. Comincia così, con uno spiraglio istantaneo su un luogo di spavento. La perdita di sé, dell’orientarsi, del riconoscere. La fiaba è una caduta nel buio, fuori dall’alfabeto. Ci si trova precipitati nell’altrove, in una lingua nuova che costringe ad ascoltare il suono di una voce estranea. Le fiabe sono piene di voci, lontane, vicine, silenziose, furiose, assordanti. A parlare sono pietre, alberi, animali, pezzi di corpo, acque, tombe. Sono i morti a parlare, con suoni che cantano nelle gole altrui. Parlano per ricordare ai vivi di nascere e rinascere.
La terra dei morti è anonima, può capitare appena fuori dalla soglia di casa o in un teatro, in una foresta o in un campo, in un parcheggio, ovunque. Appare e scompare all’improvviso dove qualcuno la chiama a sé, senza volerlo. Si materializza senza avvisare, e si riconosce per smarrimento, caos. E muta, muta selvaggiamente, imprevedibilmente. Dove prima c’era una montagna ecco un lago, dove un lago, ecco una foresta, dove una foresta a perdita d’occhio un mare di ghiaccio, dove un mare di ghiaccio una città di torri celesti. La vita vi cresce in modo abnorme, divoratrice, così come la sua assenza: è una vita spaventosa dal rigoglio inesprimibile. O è vita al contrario, trasformata in fastosi teatri minerali, lunari, dove la tavola degli elementi apparecchia scenari algidi, paesaggi turbinosi, congelati in un tempo immobile. In queste foreste assassine o viscere di metalli rari chi più spesso si avventura sono i bambini. Bambini che brillano di solitudine, messi al mondo dalla ferocia della vita.
I bambini vengono dalla terra dei morti. Dalla sua assenza di segni e di mappe. Sono esseri senza tempo, antichissimi, generati nel corso di millenni dalla materia che da inorganica si fa organica. È il miracolo del carbonio. Sono attesi da genitori che abitano su altri pianeti e, da lì, dal mondo quotidiano, li chiamano, pregando che il proprio desiderio li metta al mondo. Il loro mondo. Invece i bambini abitano nell’altrove e devono consumare sette paia di scarpe e sette camicie per farsi visibili. Attraversare tutti gli stati dell’essere e del non essere, mutare in forme nuove. Il loro corpo è segnato dalla trasformazione: sono minuscoli, enormi, inermi, hanno code, pinne, squame, corna, pellicce, zanne, piume, creste. Hanno la pelle nuova, rabdomantica, che registra il mistero della superficie, l’esplosione di stupore per ciò che dorme appena sotto, nell’abisso dell’evoluzione.
I bambini antichissimi esplorano il regno dei morti con il passaporto invisibile degli orfani: spesso percorrono città scavate, vertiginose, minerarie, metropolitane, o crateri, faglie. Da lì vegliano chi li aspetta sulla terra, i padri e le madri non ancora nati. Attraverso macchine occhiute, attentissime, i genitori indagano la loro natura in cerca di promesse: vogliono sapere il sesso, leggere il maschio e la femmina, individuare le mani, gli occhi, la testa. Dalla terra dei morti le navicelle inviano parametri. Attraverso ultrasuoni captano il movimento di un battito cardiaco. È quello di una stella lontanissima, una pulsar. Viene da un organo stregato che abita al centro del corpo e della fiaba: il cuore. Vive da solo, in una stanza buia ora troppo grande ora troppo piccola, e da cui costantemente sogna di evadere. È la materia più temuta e invidiata della vita e della trama. Ogni cosa cerca di imitarne la forma visibile e invisibile.
La terra dei morti è terra del camminare. Costringe al passo, alla percorrenza. Chi in essa non si muove ha forma morta di statua, dormendo il sonno incantato di chi è vittima di sortilegi. Sono statue coloro che nulla sanno dell’altrove e nel mondo di ogni giorno continuano la loro vita simile a un lungo sonno. Mentre si cammina, nella fiaba il tempo passa disuguale. Possono trascorrere millenni o solo pochi secondi. Per fare un metro ci possono volere cento anni o, in un battere di ciglia, ci si può trovare all’altro capo del mondo. Tutto intorno il paesaggio è un animale vivo: si srotola inquieto in forma di racconto, mutando dimensioni, scenari, prospettive. Dalla terra dei morti si torna antichissimi e appena nati, sputati alla luce dalla bocca del tempo, apertasi improvvisamente nell’eternità. Il Caso camuffa ogni venuta al mondo con dati anagrafici verosimili che dissimulano gli abissi di spazio e di tempo attraversati.
Intorno alla culla, le vecchie attendono ai destini, aspettando i bambini al varco. I bambini nascondono dentro di sé milioni di voci, a ogni gesto accendono migliaia di racconti, i morti si accalcano dietro ai loro occhi, alla loro bocca, impazienti di vedere, di contare, di dire. Le vecchie, abbagliate da tanta vita, si arrabbiano, giocherellano con i fusi, maledicono le madri e i padri, si spazientiscono. Da ogni angolo spuntano nuove specie animali e vegetali. I bambini parlano con tutte. Di una vorrebbero le ali e le branchie, le spine e la corteccia, dell’altra i rami e le radici, gli zoccoli e le criniere. Le specie, innamorate, cedono i loro tesori in cambio della parola. Nella terra dei morti tutto parla, tutto canta, è il luogo meno silenzioso che si possa immaginare. Le vecchie non vedono l’ora di rimettere tutto in ordine, di pulire ogni angolo della cucina prima di spegnere la luce. La casa deve ammutolire, immacolata. Nella stanza dei bambini non deve volare una mosca. È così anche nelle case degli orchi. Cene terribili si preparano in silenzi tombali.
Nelle fiabe si perde tutto: casa, strada, ragione, famiglia, sonno, terra, fede, allegria, fiducia, udito, lacrime. Si smarriscono bambini, regni, ricchezze, parole, identità, scarpe, vesti, corone, sogni, illusioni, certezze, padri, corpi, anni, madri, anelli, fratelli, nomi, sorelle. Nell’altrove si arriva nudi o non si arriva. In cambio, nel deserto della perdita, ecco comparire mense apparecchiate con pietanze regali: pavoni, liquori di fuoco, acque di cristallo, erbe magiche, pesci d’argento, pani d’oro che si moltiplicano a uno schiocco di dita. Sono segni pronti a scomparire come miraggi a ogni moto di stizza. Sono i doni del cuore, se li si possiede. Non pestare formiche e steli. Saper parlare con draghi e pietre, essere gentili con i vulcani e il letame, limpidi con la melma, fermi contro il Male. E allegri, allegri senza ragione.
Sono prove per il cuore. Se nella bufera, questo aiutante magico rimane; se quando tutto è perso, rincuora la solitudine, restituisce a uno a uno i ricordi, pronuncia i nomi di chi è scomparso; se nella cagnara infernale del nulla tace, compostamente; se indica la strada, se aspetta, paziente con incomprensibile fiducia; se dà da mangiare al passero e al leone, allora ecco spalancarsi i suoi reami.
Il cuore ama giocare, assumere travestimenti, prendere sembianze, ed è sportivo. Gli è congeniale ogni ginnastica, sa disporsi a ogni forma di libertà e di disciplina. È un maratoneta e un tuffatore provetto. Uno spericolato saltatore, un acrobata sopraffino, conosce tutti i gesti della danza e della lotta. Batte con passo d’animale, ogni volta diverso: tigre, airone, segugio, martin pescatore, agnello, lupo, lepre, grillo... Conosce i guizzi del pesce, il suo apparire a pelo d’acqua, brillante di ciottoli e di alghe, il suo scomparire nel pozzo d’ombra del profondo. Nelle fiabe tutti gli anelli smarriti per distrazione finiscono nel ventre di pesci d’oro, sono minuscole casseforti che presidiano fedeltà insidiate e mettono gli amanti alla prova.
Le fiabe trasmutano in oro tutto ciò su cui la magia segna il suo passaggio: oche, capelli, figli, uccelli, montagne, chiavi, corna, re, pesci, piume, mele, arance, riccioli, galli, rose, palazzi, abiti, statue... È attraverso la bocca dell’oro che la fiaba annuncia l’intoccabile potere dell’invisibile e, attraverso la seduzione, stana gli ingenui, gli avidi, i maligni, gli sciocchi.
Alla grande opera di trasmutazione della fiaba presiedono i narratori, coloro che nei secoli hanno fatto e fanno sì che, attraverso le parole, ma anche la danza, il teatro, lo schermo, la musica, il gioco, la pittura, l’illustrazione, vengano traghettate le trame, a ogni esecuzione mutandone gli stati e le forme. La loro devozione fa sì che ogni volta si rinnovi il patto con il passato, un vincolo di sangue che la fiaba stringe, indissolubilmente con il presente, a beneficio soprattutto dell’infanzia, età antichissima che si nutre di preistorie. Le loro voci travalicano confini e tempi e fanno sì che nel futuro quella cosa straordinaria che la fiaba è - letteratura vivente, come la definisce Marina Warner in C’era una volta. Piccola storia della fiaba – prenda corpo. Per la nostra salute, per la nostra salvezza.
Spiega Dieter Richter in Il bambino estraneo, che «la letteratura “colta” europea del Medioevo (il ciclo di Artù, l'epica eroica) era fiabesca come gli scritti religiosi (le vite dei santi), la storiografia (le cronache), i trattati di scienze naturali (i Bestiari e gli Erbari) oppure i racconti di viaggi. La fiaba non esisteva come genere a se stante, piuttosto l'elemento fiabesco era parte costitutiva di quasi tutti i generi letterari». Se oggi si potesse inoculare un liquido di contrasto in un testo, qualsiasi sia il suo medium, per individuare dove la fiaba affiori, il suo oro liquido brillerebbe dove meno ce lo si aspetta: in videogiochi, serie televisive, cronache nere o mondane, lettere al direttore, riflessioni di biologi e genetisti, necrologi, cataloghi florovivaistici, racconti di viaggio, biografie di sportivi, musicisti e guru, monologhi teatrali, ricettari e persino bollettini metereologici. La fiaba è dappertutto. Non ce ne libereremo mai.
Questo scritto è uscito nell’aprile 2022 sul libretto di sala pubblicato dal Piccolo Teatro Studio di Milano in occasione dello spettacolo “Carne blu”, scritto e diretto da Federica Rosellini in collaborazione con Fiona Sansone. Il testo dello spettacolo è stato pubblicato nel 2021 da Giulio Perrone Editore, con prefazione di Nadia Terranova e Claudio Longhi e postfazione di Fiona Sansone.