Ortiche

26 Novembre 2023

Dà il nome al quartiere di Milano della scombinata banda cantata da Jannacci, e pure a una vezzosa farfalla, l’Aglais urticae (anche detta Vanessa dell’ortica), cui fa da nursery. 

Ma l’ortica – nella specie perenne (Urtica dioica) o annuale (Urtica urens) – è pianta per lo più bistrattata nei proverbi e nei modi di dire popolari: gettiamo alle ortiche una buona occasione o quel che non ci serve più, i frati e i preti la tonaca o il saio, è come l’ortica chi è noto per le sue malefatte e, per indicare luoghi inospitali si è soliti usare l’espressione “ci crescono le ortiche”. Il che è pur vero: l’ortica vegeta nelle aree depresse e incolte, ai margini dei boschi e lungo i viottoli di campagna, nei prati ricchi di azoto o ai bordi di muri e marciapiedi. 

Alla prepotenza dei rizomi stoloniferi che strisciano e s’insinuano ovunque, s’aggiunge la trappola villosa di fusti e foglie in cui tutti almeno una volta siamo caduti: i peli al minimo tocco si spezzano liberando un liquido, l’acido formico, urticante per l’appunto, che a contatto della pelle provoca forte prurito e inestetiche vescicole. Si direbbe, nulla di attraente, anzi. Eppure, fin dall’antichità l’ortica s’è conquistata fama di pianta afrodisiaca. Castore Durante (1529-1590), medico e botanico umbro noto in tutta Europa e autore di un importante Herbario novo illustrato (1585), scrive: «le frondi delle ortiche, cotte in vino e bevute provocano l’orina, purgano i lombi e eccitano Venere».

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Guido Gozzano, poeta entomologo che la farfalla – l’«animato fiore senza stelo» – elogia in versi, ben sapeva dell’unione di Vanesse e ortiche dagli irritanti e al contempo stuzzicanti effetti. In avvio della sua Storia di cinquecento Vanesse (prima parte delle Farfalle. Epistole entomologiche) racconta di una passeggiata al fianco di un’inquieta signora poco propensa a corrispondere alle lusinghe del poeta:

Queste, che dico, dissi a voi parole
or già è molto, camminando a paro
per una landa sconsolata e voi,
mal soffrendo il velen dell’argomento,
con la mano inguantata il ciuffo a sommo
coglieste d’un’ortica e mi premeste
sulla gota la fronda folgorante,
tortuosamente. Non mi punse quella
che più forte s’accosta e men ci punge;
e nel gesto passare vidi un cumulo
minuscolo di germi di Vanesse
sulla villosa nervatura e forse
dal vostro gesto, ancor agropungente,
nato è il poema, poi che sul mistero
del piccolo tesoro accumulato,
già in quell’istante, con parole sciolte
taluna esposi delle meraviglie
che più tardi nel mio silenzio attento
passo passo tentai chiudere in versi.

Redimita di fronde agropungenti –
ahi! non d’alloro – la mia Musa canta.
alle mie carte un cerchio folgorante,
mensa ed albergo ai numerosi alunni.

Gesto provocatorio o, per meglio dire, pruriginoso quello della signora che, nel gioco allusivo di questi versi, infiamma oltre alla gota e alla vena poetica di Gozzano, altro ancora. Già Plinio alla fine del lungo elenco delle portentose virtù medicinali dell’«odiosa» erba consigliava, nel caso di un quadrupede che non voglia accoppiarsi, di «sfregargli i genitali con l’ortica» (Storia naturale, XII, 36). Un bipede è invece il Cristoforo di Luigi Meneghello – lo s’incontra nel capolavoro d’esordio Libera nos a malo (1963) –, travolto da un eros istintivo, primordiale, corroborato dalle ustioni delle «piante sfuggite al guinzaglio», come sono definite le ortiche in quell’altro capolavoro del 1964, Pomo pero.

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«Il suo sogno di Cristoforo è sempre stato quello di prendere forse una dozzina di donne, spogliarle e mollarle nude nel recinto del Montécio, coi capelli sciolti sulle spalle; e poi andare a caccia di queste donne, nudo anche lui in mezzo ai pini.
Se lo schema di una vita equilibrata è di realizzare nella maturità i propositi della gioventù, Cristoforo ha sovvertito questo equilibrio: i propositi della gioventù ha cercato secondo le sue forze di realizzarli durante la gioventù. Adulto appena, aitante e gigantesco, si scagliava nudo per i broli e ortiche verso l’odore, verso l’idea della Clelia alcune case più in là. Scavalcava reti e steccati, abbatteva i piselli, devastava gli ortaggi; arrivava graffiato, orticato, vescicato. È un torrione d’uomo, il suo sesso ciclopico è come un grande idolo, e correndo pare che se lo trasporti in grembo. Il carattere è riservato, senza ombra di vanità, ma c’erano questi scoppi di nuda follia.
Nudo in un orto spiando la Clelia, acquattato tra i gambi alti delle foglie di zucca, con le zucche del sesso appoggiate per terra tra le altre; squarciando la salvia fragrante e il rosmarino».

Ben prima di Meneghello, un altro scrittore ha legato il pizzicore dell’ortica alla sfera dell’eros. Nella finale della Nausea (1938) di Jean Paul Sartre, il protagonista Antoine Roquentin incontra l’ex amante Anny, e tra i molti ricordi riemerge quello del loro primo bacio:

«– [...] Tu non ti ricordi, naturalmente, la prima volta che t’ho baciato? – Sì, benissimo, – dico trionfalmente. – Fu nel giardino di Kew, in riva al Tamigi.
– Ma quello che non hai mai saputo è che m’ero seduta sulle ortiche, la veste mi si era alzata e avevo le cosce coperte di punture, e al minimo movimento erano altre punture. Ebbene, lì lo stoicismo non sarebbe bastato. Tu non mi turbavi affatto, non avevo una voglia particolare delle tue labbra, quel bacio che stavo per darti aveva un’importanza ben più grande, era un impegno, un patto. E allora, tu lo capisci, non mi era permesso pensare alle mie cosce in un momento come quello. Non bastava non notare la mia sofferenza: bisognava non soffrire.
Mi guarda fieramente, ancora piena di sorpresa per quello che ha fatto:– Per più di venti minuti, per tutto il tempo in cui tu insistevi per averlo, quel bacio che ero ben decisa di darti, per tutto il tempo in cui mi facevo pregare, poiché bisognava dartelo secondo le forme, arrivai ad anestetizzarmi completamente, e Dio lo sa se ho la pelle sensibile; non sentii niente, fino a quando non ci rialzammo.» 

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Vi chiederete perché sfruculiarvi – verbo per altro quanto mai appropriato – con sollecitazioni di tal genere a novembre. Ma questo mese con temperature così anomale può ancora essere complice di amplessi campestri e l’ortica comune ha un ciclo vitale pressoché continuo. In questi giorni ne ho viste a distese nei prati, giovani e rigogliose, grasse come in primavera. Belle e pungenti, nel verde smeraldino delle foglie opposte e lanceolate dal netto profilo dentato. Le adulte, alte sui fusti dritti, bruni o giallastri, portano ancora alle ascelle fogliari i racemi florali verticillati. Buone, dunque, per una raccolta autunnale, da usare fresche in minestre, frittate e risotti, o essiccate per tisane e decotti.

In ogni caso, come suggerisce Gozzano, l’ortica va presa per il verso giusto, lo ribadisce anche Anna Maria Spaziani che alla pianta pungente ha intitolato un’intera silloge poetica: I fasti dell’ortica (Mondadori 1966), dov’è figura di vita energica, combattiva: «l’onda tua alta annienta ogni nemica / se l’afferri con forza non ti punge». 

Non ci rimane che ricordare le molte benefiche proprietà di quest’erba screanzata in superficie, affidandoci a un passo dei Miserabili di Victor Hugo (1862, parte I, libro V), quando Jean Valjean, sotto le mentite spoglie di Monsieur Madeleine, di fronte a un mucchio di ortiche estirpate dai contadini, dice:

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«È morta: eppure, sarebbe una buona cosa che si sapesse servirsene. Quando l'ortica è giovane, la foglia è un ortaggio eccellente; quando invecchia, ha fili e fibre come la canapa e il lino, e la tela d'ortica vale quella di canapa. Tritata, l'ortica è buona per le galline e, triturata, per il bestiame; il grano dell'ortica, misto al foraggio, dà lucentezza al pelo degli animali, mentre la radice mescolata col sale, dà un bel colore giallo. Del resto, è un fieno eccellente, che può essere falciato due volte. E che cosa occorre all'ortica? Poca terra, nessuna cura e nessuna coltivazione; solo, il grano cade a mano a mano ch'essa matura ed è difficile da raccogliere. Ecco quanto, con lieve briga, l'ortica sarebbe utile, mentre, se la si trascura, diventa nociva, ed allora la si uccide. Quanti uomini somigliano all'ortica!» E soggiunse, dopo una pausa: «Tenete presente, amici miei, che non vi sono né cattive erbe né cattivi uomini: vi sono soltanto cattivi coltivatori».

Nient’altro si può aggiungere a tale veridica sentenza.

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