Panchine
Sto seduto su una panchina in Parco Sempione, a Milano, e leggo una recensione del recente libro di Michael Jakob sulla panchina... Mi viene voglia di scattare una fotografia alla panchina vuota che ho di fronte, o magari a quelle altre più lontane, ma la riproduzione del bellissimo Nella serra sul giornale mi inibisce. Mi guardo intorno, cerco in testa un’idea, rileggo la recensione e a questo punto mi chiedo: nel libro di Jakob sarà dedicato spazio anche alla fotografia? Dalla recensione parrebbe di no. Peccato.
Édouard Manet, Nella serra, 1879
Mi viene allora in mente il bellissimo pezzo di Geoff Dyer sulle panchine in L’infinito istante, un libro prezioso. Vi ricordate? “Sebbene possa essere usata come tale, una panchina non è un letto. E non è nemmeno una sedia. Le sedie si spostano, si radunano in modi diversi, si riconfigurano secondo le esigenze [...] La panchina siede all’esterno aspettando [...] Una sedia si può adattare all’ambiente in cui è inserita; una panchina resiste alla bufera, prende qualsiasi cosa la vita le abbia destinato. [...] Si ha spesso la sensazione che le panchine stesse siano spettatori che osservano scorrere il traffico umano”.
La fotografia non raffigura solo ciò che cattura, ma fa diventare l’oggetto (la situazione, il gesto, la scena) soggetto: la panchina osserva.
ph. Elio Grazioli
Oppure coglie la “panchinità”, dice Dyer, non tanto l’essenza, sarebbe troppo – o troppo poco? –, quanto, di nuovo, un altro aspetto della sua soggettività, quello che determina i caratteri di chi vi si siede, di farlo diventare a sua volta panchina: “Sedersi sulle panchine significa arrendersi, accettare la realtà della situazione, soccombere, nei fatti, all’intollerabile panchinità della situazione”.
Poi scatta l’identificazione, o la traslazione o la metarappresentazione: la panchina è come una macchina fotografica, è come la fotografia, è come il fotografo, e viceversa: il fotografo, la fotografia, la macchina fotografica sono come la panchina, e i loro caratteri passano o si confrontano con i suoi.
Qui, come sempre dove c’è identificazione – ci si scusi la notazione anche psicologica – occorre fare attenzione perché si rischia la propria identificazione, cioè la proiezione delle proprie preoccupazioni su ciò che si sta analizzando. Così Dyer, a noi pare, commenta la foto della panchina rotta di André Kertész riconducendola all’identificazione con il senso di frustrazione e di morte del fotografo e non sa risolvere la ragione della presenza dell’uomo di fronte ad essa, che la osserva curioso, se non identificando Kertész anche nell’uomo: “Kertész voleva che la panchina rotta riflettesse la rovina dell’osservatore, egli vede anche – e vede se stesso in quel modo – qualcuno che sta a guardare, curioso, comprensivo ma distaccato. È questa ambiguità ripetuta e condensata che riesce a salvare l’immagine dal sentimentalismo che la minaccia”.
André Kertész, Panchina rotta, New York, 20 settembre, 1962.
Dyer non coglie in questo modo che solo con la presenza dell’uomo si rende ben visibile che non solo l’uomo guarda la panchina, ma ne è come a sua volta guardato e questo è reso tanto più intenso dal fatto che la panchina è rotta, pare un occhio, pare viva (non morta!).
Formidabile diventa ancor più quello che poi Dyer ci racconta, e cioè che in realtà l’uomo che sta guardando nella fotografia era cieco!
Cento pagine più avanti, nel libro di Dyer, troviamo un’altra panchina rotta fotografata da Edward Weston, l’“eroe della visione” come si ricorderà. È una delle sue ultime foto, anche questa interpretata da Dyer come un’identificazione con il fotografo, giunto alla fine della sua carriera.
Edward Weston, Panchina, Elliot Point, 1944.
Sarebbe lungo e forse capzioso paragonare le due foto di Kertész e di Weston, notare che qui è la parte bassa ad essere rotta e che c’è un giornale sulla seduta. Vogliamo solo dire che qui c’è dunque un altro sguardo, e finire con un accostamento che suona come una battuta, ma non ce la vogliamo far sfuggire. Si tratta del “ritratto” che Francis Picabia fece del grande Alfred Stieglitz nel suo periodo “meccanomorfo”. Picabia sostituì il volto del fotografo con il suo strumento d’elezione, una macchina fotografica, in base all’assunto : “L’uomo ha fatto la macchina a sua immagine”. Quanto a noi, potremmo dunque chiedere: e la panchina?