Paolo Diacono a Benevento
Non poteva esimersi dal concedersi ogni giorno il piacere di parlare in greco. Paolo Diacono, al secolo Paolo di Warnefrit, era infatti convinto, senza sapersene spiegare il motivo, che, prima o poi, la dimestichezza con quella lingua gli sarebbe tornata utile. Al termine delle sue consuete orazioni mattutine si tratteneva, perciò, a conversare un poco con Dmitri, uno degli artisti siriaci impegnati ad affrescare la chiesa di santa Sofia.
Viveva a Benevento ormai da più di un lustro, da quando vi era giunto per scortarvi la giovane Adelperga, figlia di Desiderio, re dei Longobardi e sua diletta allieva, andata in sposa al duca Arechi II che governava su quella città e su tutto il territorio del Sannio.
Le sue giornate trascorrevano frenetiche, scandite dai numerosi impegni di cancelleria che la sua qualifica di stolesaiz, di capo dei dignitari di corte, gli imponeva, sommati ai suoi soliti, di lettura, di studio, di scrittura e d’insegnamento, pertanto quel preludio mattutino costituiva per lui l’irrinunciabile pausa di decantazione prima d’immergersi nel duro lavoro.
Adelperga si sfilò il soggolo, il velo e la gorgiera e li depose con cura sul letto, accanto alla veste da camera che si era appena tolta e indossò una gamurra di broccato ceruleo dai bordi ricamati a motivi floreali in pervinca, celeste e oro. Subito quella sinfonia di azzurri fece risaltare le sfumature dei suoi capelli, di un biondo intenso, schiarito da riflessi dorati, che le scendevano in onde sinuose fino a raggiungerle i fianchi. Avvicinatasi allo specchio, sorrise alla propria immagine riflessa, quindi si lisciò la gonna e uscì dalla stanza incamminandosi verso il cenobio di santa Sofia.
Poiché era in lieve ritardo sull’orario d’inizio della sua lezione quotidiana, accelerò il passo. Non voleva fare attendere il suo precettore, divenuto ora suo maestro di ars poetica. Da qualche tempo, infatti, la duchessa di Benevento componeva versi, che riscuotevano un certo successo a corte, e senza quegli insegnamenti non vi sarebbe mai riuscita.
Accucciato sul pianale di un trabattello incuneato nell’abside sinistro della chiesa, Dmitri stava lavorando ad un’altezza di più di tre metri dal suolo. Quando vide il monaco avvicinarsi, gli fece cenno di raggiungerlo, indicandogli una scala a pioli, dall’aspetto precario, che penzolava dall’impalcatura, fino a sfiorare il suolo. Seppure esitante, Paolo la inforcò e la salì trattenendo il fiato. Non appena ebbe raggiunto il tavolaccio che fungeva da piano di calpestio, agguantò un pilastro e vi si sorresse traendo un sospiro di sollievo, quindi si rialzò i lembi della tonaca e avanzò, guardingo, stando bene attento a dove posava i piedi, per non urtare i barattoli dei colori disseminati alla rinfusa un po’ dovunque.
Giunto a un passo dall’affresco, quasi trasecolò per la meraviglia. Infatti, sebbene fosse stato proprio lui a suggerire al pittore di riprodurvi l’episodio del Silenzio di Zaccaria, tratto da Vangelo di Luca, mai si sarebbe aspettato un simile realismo. Lo sguardo del cohen pareva vivo e la sua espressione era intensa. Aveva l’aspetto di un vegliardo canuto, colto nell’atto di benedire con la mano destra una piccola folla di fedeli stupefatti, mentre con l’altra si additava le labbra chiuse, per comunicar loro il proprio recente mutismo, causatogli della sua incredulità nei confronti dell’Annuncio del Signore.
Benevento, chiesa di Santa Sofia, lacerto d’affresco dell’abside sinistro, il Silenzio di Zaccaria
L’attenzione di Paolo fu poi attratta dal lato destro dell’affresco, dove, dietro un’elegante colonnina tortile, erano assiepati i devoti. Ed anche in questo caso dovette convenire che Dmitri era stato davvero abile nell’attribuire espressività ai loro volti, vivezza ai loro sguardi e pathos all’insieme.
Era così emotivamente coinvolto che, mentre fissava, estasiato, il dipinto, per un attimo gli parve di udire dei mormorii di stupore uscire dalle labbra dei fedeli e risuonare quasi rumorosi in raffronto al silenzio che sembrava invece dominare sulla parte sinistra, dove campeggiava l’imponente figura di Zaccaria. Con quell’immaginario brusio negli orecchi, tornò a guardare l’anziano sacerdote e si concentrò a contemplare i dettagli della sontuosa veste con cui Dmitri ne aveva drappeggiato il corpo e subito gli sovvenne di essere stato lui stesso a indicargli di trarre ispirazione per essa dal Libro dell’Esodo, in cui sono descritti gli abiti sacerdotali di Aronne. Il registro cromatico della veste dipinta rispondeva alla perfezione alle indicazioni bibliche, vi dominavano infatti il porpora, il violetto, lo scarlatto e il color dell’oro. Queste tonalità accese, unitamente alle gemme di cui erano adorni i bordi dell’abito, conferivano al lato sinistro della scena una nota sontuosa ed aulica, in evidente contrappunto con la monocromia della parte destra, dove, in luogo del colore, l’artista aveva privilegiato il segno, un segno scarno, asciutto, essenziale, quasi scultoreo.
Volle chiedergli conto di quell’inconsueto contrasto e si addentrò con lui in un appassionato dialogo sulle potenzialità del linguaggio dell’arte che finì per fargli smarrire la nozione del tempo.
Non avendo incontrato il suo maestro nello scriptorium, dopo un’attesa ragionevolmente lunga, la duchessa di Benevento si risolse a dirigersi in chiesa, certa che lo avrebbe trovato lì.
Ogni volta che metteva piede in santa Sofia, Adelperga provava una sorta di vertigine. Era come se il suo cuore facesse un tuffo a ritroso nel tempo, riportandola all’epoca spensierata della sua infanzia, che aveva trascorso a Pavia, quale figlia felice di re. Non sapeva spiegarsene il motivo, forse era l’atmosfera che vi aleggiava a rammentarle quella della chiesa di Santa Maria alle Pertiche, che, fanciulla, aveva tanto amato. Oppure era la similitudine tra le forme delle due chiese ad evocarla, circolare la pavese, a metà tra la stellare e la rotonda questa beneventana, ma ambedue a pianta centrale.
“Come i mausolei romani disseminati lungo la Via Appia”, si disse e subito la colse la mestizia. Era stata nella città eterna una volta soltanto e piuttosto di recente, quando in compagnia del suo sposo vi si era dovuta recare, per tributare atto di vassallaggio al pontefice, autoincoronarsi re dei Longobardi all’ombra della spada di Carlo.
Ricordando l’umiliazione di quel giorno, Adelperga ebbe un moto di stizza, e subito un dolore lancinante le trafisse il petto. Il suo pensiero era corso alla sorte toccata prima a sua sorella -“Lenta le palme e rorida / di morte il bianco aspetto” - e poi a suo padre, esule in terra straniera, privato degli affetti, del titolo e persino della dignità. Ma subito si ricompose e, tratto un profondo respiro, fece girare attorno lo sguardo. Era proprio nel luogo adatto per augurarsi un futuro migliore. Arechi, infatti, aveva saputo rispondere al tentativo di damnatio memoriae del suo popolo, caldeggiata dal papa e perpetrata da Carlo Magno, con l’intelligenza che lo connotava. Impossibilitato a controbattere alla violenza franca, aveva fatto ricorso alla potenza evocativa del simbolo. Era, infatti, per orgoglio etnico che aveva voluto edificare questa chiesa, affinché diventasse il punto di riferimento dei Longobadi sopravvissuti all’annientamento del loro regno. Ed era per questo che, emula dell’Hagìa Sofìa giustinianea di Costantinopoli, l’aveva dedicata alla santa Sapienza, affinché la sostanza etica che le aveva attribuito si reificasse appieno.
Senza che se ne fosse resa conto, lacrime di commozione le scorrevano lungo le gote. Se le asciugò con un rapido tocco del dorso della mano e tornò a guardarsi attorno. Subito lo spazio interno della chiesa la catturò con la sua malia, scandito com’era da due file di colonne disposte in circolo, a generare due ambulacri, anch’essi circolari, concentrici al perimetro esterno. Si domandò se fossero gli eleganti capitelli corinzi delle antiche colonne romane a produrre l’incanto o se fosse piuttosto merito delle singolari coperture, costituite da una sequenza di voltini a vela dalle forme geometriche più diverse, quadrate, trapezoidali, triangolari, romboidali, che, ancora una volta, le rammentavano quelle della chiesa pavese della sua fanciullezza.
Voltini a vela
Nel frattempo, aveva raggiunto il luogo dove sarebbe sorto l’altare. Si guardò attorno alla ricerca del suo precettore, del quale udiva distintamente la voce senza riuscire a vederlo e, d’un tratto, lo scorse: Paolo se ne stava comodamente seduto su uno degli alti ponteggi, le gambe penzoloni nel vuoto, assorto in un’animata conversazione con uno dei pittori impegnati ad affrescare le pareti della chiesa. Almeno a giudicare dalla sua aria serena, appariva inconsapevole dell’ora tarda che si era fatta. Decisa a lasciarlo tranquillo, così come le sembrava, Adelperga ritornò sui propri passi rinunciando per quel giorno alla sua lezione di poesia.
Scorci dell’interno di santa Sofia.
La duchessa di Benevento aveva appena lasciato la chiesa, quando vi fece il proprio ingresso un monaco trafelato che reggeva in una mano, o meglio impugnava, un rotolo di pergamena, segno che doveva essere uno degli amanuensi dello scriptorium, sottoposti all’autorità di Paolo, venuto o mandato in cerca del suo superiore. Guidato dal suono della sua voce, questi raggiunse l’abside sinistro della chiesa e lo chiamò.
Quando Paolo udì il proprio nome, fermò a metà una frase e a mezz’aria l’eloquente gesto che l’accompagnava: d’un tratto aveva presa coscienza del tempo trascorso. Si sentì in colpa. Sapeva di aver trascurato i suoi impegni. Mancavano solo poche settimane all’incoronazione (NdA: Arechi si fece incoronare Princeps Langobardorum et Dux Samnitum dai vescovi della diocesi riuniti in concistoro nella chiesa Santa Sofia, nell’anno 775, lo stesso in cui è ambientato il racconto) e molti degli oneri organizzativi, soprattutto epistolari, competevano a lui. Con un’agilità che ignorava di possedere si calò lungo la scala a pioli e, presa dalle mani del monaco la pergamena che questi gli porgeva, iniziò a srotolarla con garbo. “Sei tu l’autore del fregio?” gli domandò dopo aver scorso rapidamente lo scritto. Per tutta risposta, il monaco, che era giovane e timido, arrossì, chinò la testa in segno d’assenso ed anche d’umiltà e restò immobile, il mento poggiato sul petto e le braccia pendule lungo i fianchi. “Questo tuo disegno è splendido” dichiarò Paolo, tornato a concentrarsi sulla miniatura.
Frontespizio del Chronicon Sanctae Sophiae, (Cod. Vat. Lat. N. 4339, c.281), Roma, Biblioteca Vaticana.
Vi era riprodotto Arechi con indosso una tunica di broccato purpureo damascata in oro, corredata di babbucce, esse pure scarlatte, e di un manto blu cobalto intessuto di fili dorati. Sul capo sfoggiava la corona tempestata di gemme che si era appena fatto realizzare a Costantinopoli quale emblema della carica principesca che si apprestava ad assumere (e che la miniatura già gli conferiva). Era raffigurato nell’atto di impartire indicazioni ad un mastro costruttore che, girato ad osservare il suo principe, era pronto ad apportare modifiche ad un modellino in miniatura della chiesa di santa Sofia, del tutto identico all’originale. Anche il volto del duca-principe somigliava molto a quello vero, tanto che Paolo ne rimase impressionato.
“Maestro” mormorò d’un tratto l’amanuense che, preso coraggio, aveva risollevato la testa, “siete atteso allo scriptorium. Sua grazia il duca sollecita l’invio delle lettere d’invito ai rispettivi destinatari; teme che, altrimenti, la sua incoronazione possa andare deserta.”
Dmitri intanto, conclusa la scena di Zaccaria, aveva spostato il ponteggio sul lato sinistro dell’abside e si apprestava a dipingere la figura dell’arcangelo Gabriele che gli recava l’annuncio. Spiatone d’un colpo d’occhio il cartone preparatorio, a Paolo dispiacque allontanarsi dal cantiere.