Patrizia Cavalli: dove arriva la poesia
Patrizia Delizia. Tutte le volte che sono andato da qualche parte con Patrizia Cavalli è sempre stato con un certo senso di eccitazione e felicità, perché Patrizia rendeva tutto meraviglioso intorno a sé. Tanti anni fa abbiamo passato insieme una vacanza estiva a Ponza. Pieni com’eravamo tutti e due di Elsa e Arturo, dell’aria fine e ricca di costellazioni che si disegnava intorno a noi grazie a uno degli incantesimi di cui Elsa Morante era capace, e che ci aveva sfiorato come una polvere magica che non ci avrebbe lasciato più. Ponza è facile, è meravigliosa di suo, e approdare con una barchetta da dei pescatori che ti cucinano qualcosa sulla spiaggia difficilmente eguagliabile nelle esperienze vissute. Ma non è di vissuto che viveva Patrizia.
Infatti, al polo opposto, metterei una notte in cui mi trascinò a Terni perché voleva giocare, e finimmo a un circolo degli alpini dove apparvero una sequela di uomini che avrebbero intimorito il Griso. Patrizia vinse e poi perse, perse tutto, per confessarmi all’alba, mentre rientravamo a Roma, che il vero giocatore è colui che perde, fin dall’inizio, ed è per questo che gioca. Come il ladro di Genet, che vive per le due dita che gli battono sulla spalla e gli dicono “sei preso, è finita”. Parto da lontano per dire che Patrizia Cavalli è morta e cercherò anche di essere meno privato e aneddotico, di dire qualcosa di meno sentito, ma se c'è una cosa che Patrizia Cavalli, Elsa Morante, Alberto Moravia o Gianni Celati avevano in comune era proprio il senso esatto di cosa succeda nello scrivere, e cioè che tra il vivere e la letteratura non c’è confine.
Non c’è neppure un territorio di mezzo. Quello che conta ed è vero, si mostra ora in un gusto per l’esistere e il parlare, ora nella disperazione di non poter più dire nulla e di perderci l’un l’altro, come succede con le morti, che è la stessa aria che si respira nella corrispondenza di Leopardi, in tutte le buone amicizie che facciamo nel corso della vita. Per Patrizia Cavalli poi questo ha un carattere ancora più netto, è la parte del violino solista che si inizia a sentire sopra gli altri archi, i fiati, i legni, le percussioni, e arriva da note altissime, come nel Benedictus di Beethoven, e ci invita a una familiarità che nella musica sono scale discendenti, nei versi di Patrizia un modo di fare ed essere subito colloquiale, amichevole, complice. Non ci sono voci come la sua nella letteratura contemporanea, lei nasce in opposizione, lucida e coerente, al tromboneggiare di tante parti diverse nei dibattiti ideologici degli anni sessanta.
La sua prima collezione si chiama Le mie poesie non cambieranno il mondo ed è quasi il suo unico contributo in qualche modo legato agli amici che frequentavano Elsa e da cui lei si stacca per un percorso particolarissimo. Tra questi amici c’erano Adriano Sofri, Giorgio Agamben, Ginevra Bompiani, Goffredo Fofi e tanti altri e non so se fosse rispondendo a qualcuno che lei pensò al titolo. Certo da allora ha avuto una cura certosina nel levigare nel proprio verso il contrario di qualunque professione di fede politica o religiosa. Certo pensava tante cose, ma la poesia era altro, nasceva in un altro luogo, andava altrove. Cito a memoria uno dei bellissimi versi dell’ultima collezione, Vita meravigliosa. Quando occupata da poveri pensieri/ il freddo, la puzza di fritto/ dov’è la mia anima?
Ecco cosa può essere e dove può arrivare la poesia. Non un manifesto estetico, non una dichiarazione di partito, non un articolo di giornale. Solo la nostra intima consapevolezza che quello stesso luogo interno in cui abbiamo sentito le cose più alte, l’amore per qualcuno, il dolore della perdita, lo spaesamento metafisico, può anche essere occupato da poveri pensieri, dal freddo e dalla puzza di fritto. E che se vogliamo parlare d’amore, di morte, di viaggi o di Dio, lo facciamo con le nostre catene, con le puzze e i timori in cui siamo immersi. E se si è Patrizia, come per incantamento, questo piano ordinario dell’esistenza si innalzerà e sarà pieno di ogni cosa.
Da questo conflitto, filato con la saggezza di una scienziata, è nata la parola della sua poesia che non è così mai stata compiacente con mode, politica, alcun consenso. Il suo verso è piuttosto stata una passeggiata tra via del Biscione e Campo dei Fiori, o poco più in là, dove tra l’odore della pizza di Piazza Farnese, dei banchetti di fiori o di verdura, c’è già tutta l’umanità, la natura, il mondo che si può volere. Proprio l’energia che ha avuto fin dall’inizio nel resistere al flusso di consensi, le nostalgie identitarie che hanno piagato la sua e le generazioni successive, come se fosse un luogo o un’idea che debba dirci chi siamo e cosa sentiamo, un luogo in cui tutti erano più o meno trascinati, l’ha resa così attenta ai dettagli. Per scrivere poesia bisogna che le cose si tocchino. L’odore del pane, un cappotto slacciato, il modo in cui un gatto si avvicina, i canarini in gabbia. Devo anche aggiungere, e a Patrizia lo dissi, che questa è così perfettamente la sua cifra che quando se n’è allontanata per un paio di escursioni, una in un poemetto e l’altra in una raccolta di prose, l’ho sentita spaesata. Certo, cose brutte non poteva scriverne, ma l’architettura perfetta, epigrammatica, delle composizioni che fanno la gran parte della sua poesia, ha dei confini precisi, e queste composizioni erano al di là.
Lì le è venuto tutto bene, facile: il cielo, Sempre aperto Teatro, pigre divinità e pigra sorte.
In queste piccole composizioni perfette il suo talento si è espresso nel modo più naturale, in un ascolto che partiva dalle cose e le accompagnava in un loro momento sorgivo. E qui c’è di più che in Sandro Penna (altro grandissimo umbro che pure di questo genere era maestro), più che in chiunque. Si mette, e ci mette nel leggerla, in una nuova attesa, guardiamo il mondo che emerge nelle allitterazioni, così delicato all’inizio e subito robusto. Patrizia che va a giocare nel circolo degli alpini. Non è fragile, non è occasionale. È lì, e ci sono io che la vedo scommettere, e perdere. O la sua chiacchierata con i pescatori di cui dicevo prima, in cui non c’è alcun voyerismo, piuttosto la fraternità di Arturo, un mettersi con l’altro e saperci stare insieme.
Da lì in poi tutto si è svolto con grande agio e sempre meglio, riuscendo a cogliere attraverso l’attenzione di cui parlavo prima, materiale ma anche certa che una scrittura così fine è come un arabesco sul vuoto, o piuttosto contro il cielo, le sue divinità, la sua indifferenza, la sua costante persecuzione esercitata con nuvoloni e mala sorte. Il grande tesoro spirituale che c’è nell’amore, nell’attesa, nell’essere presenti, a un altro o un’altra o un animale o il mondo, abito in quello sguardo. Perché adesso diventa anche la nostra passeggiata, tra via del Biscione e Campo dei Fiori, ed è lì che lei racconta che ogni mattina alle quattro viene il fornaio per il ristorante sotto casa sua, fa due fischi e chiama “Alfredo… Alfredo…”, quasi volesse far sottovoce per non svegliare il palazzo. Ma sono le quattro di mattina, Patrizia è sveglia e lo racconta con tenerezza: è assurdo non voler essere sentiti e fischiare! E coglie quel curioso ossimoro, di chi parla per non essere sentito, e tutto il mondo allinea in questo paesaggio semplice e incantevole, dove tornerò tanto nei prossimi giorni per pensarla e sentirla, come sono certo tanti altri che amano le sue poesie torneranno al mondo che lei non ha salvato, ma che c’è, e grazie a lei per tanti di noi e così tanto di più!
La foto di Patrizia Cavalli in copertina è di Dino Ignani ©