Per fare un buon caffé
Qual è il caffè perfetto? Domanda ontologica a cui tutti rispondiamo regolarmente, nei comportamenti e nei discorsi della vita quotidiana, con una sicumera tanto granitica quanto insipiente circa i presupposti – culturali, estetici, economici, fors’anche politici – di queste stesse risposte. Perfezione, per esempio, è idea forgiata a partire da un modello ideale che implica, da un lato, una normalità, un’abitudine, un’uniformità stabilizzata nel tempo e, dall’altro, una serie di eccezioni possibili, di idiosincrasie, di linee di fuga rispetto a quel modello – che, perciò, mostra tutta la sua costitutiva fragilità. Normale è normativo, ricordiamolo, di modo che ogni perfezione contiene tutta una forza, se non una violenza, necessaria a produrla. Salvo poi dimenticarsene, e bearsi dell’ideale conquistato, del godimento in sé e per sé.
Testare tutto ciò a partire da una banale tazza di caffè, si dirà, è abbassare la gloriosa metafisica alla vita di tutti i giorni, tradendone profondità e rigore, astrazione necessaria, aerea concettualizzazione. Forse. Resta il fatto che il caffè, droga preferita dell’umanità, è la materia di scambio più diffusa al mondo dopo il petrolio, coinvolgendo più di 125 milioni di persone nella sua produzione, trasformazione e commercializzazione. Cosa che non solo rende ancora una volta problematica la scolastica distinzione fra bisogni e desideri, ma ripropone con altri mezzi l’interrogazione evergreen circa i nessi fra soggettività e oggettività del gusto, fra le cose che piacciono a me e le proprietà fisiche, biologiche, organolettiche delle sostanze che quel piacere mi trasmettono.
In Etiopia, dove crescono spontaneamente più di trentamila varietà di caffè, a lungo esso non è stato un infuso ma un alimento, mangiato dunque più che bevuto. Veniva servito sotto forma di polpettina, con farina e grasso animale. I Sufi, da quelle parti, ne ingerivano a volontà per affrontare le loro lunghe danze. Il tutto in ambiente domestico dove si tostava giorno per giorno il caffè, rituale quasi sacro che non ha mai cessato di esistere. La torrefazione, da quelle parti, è casalinga, anche adesso che il caffè è divenuto bevanda tipica locale da sorbire con zafferano, cardamomo e cannella. In Turchia, si sa, le cose sono ben diverse: il macinato di caffè viene bollito a lungo in acqua, e la prelibatezza sta nel trattenerne a lungo i granelli fra i denti per sprigionarne tutti gli aromi. L’enorme diffusione storica dell‘impero ottomano ha fatto sì che mezzo mondo preparasse il caffè in tal modo, conservandone più che altro il sapore amaro. In Italia, invece, dove il caffè è arrivato fra 500 e 600, si usa prepararlo con la celebre caffettiera napoletana, parzialmente soppiantata dalla moka e, contemporaneamente, nelle macchine da bar per servire l’espresso. Un tale avanzamento tecnologico ha fatto sì che ancor oggi noi italiani siamo convinti che il nostro sia il caffè migliore del mondo, ristretto in una tazzina da bere in via Toledo santiando santiando; là dove gli americani si sbellicano dalle risa, preferendo loro, da tempo, il caffè per noi lunghissimo da sorbire in mugs roventi consumate molto lentamente. Se per noi, insomma, il caffè è quasi una crema senza sfumature interne, caffè e basta, altrove la questione dei suoi differenti aromi è centrale: in Olanda, in Brasile, in India, in Vietnam, se pure con accentuazioni differenti, non esiste il caffè ma i caffè.
Cosa che, manco a dirlo, ha ben capito il marketing globale, che ha iniziato as usual a mondializzare differenziando, giustapponendo un marchio unico ora per i caffè, intesi come luoghi dove consumare la bevanda omonima, ora per le cialde da macchinette automatiche. I nomi che non facciamo sono evidenti. È così che l’interrogativo circa la perfezione del caffè viene sussunto dal mercato, il quale deve saper gestire con danaroso interesse la dialettica fra biodiversità di partenza e uniformità d’arrivo o, se si vuole, fra le differenti colture e culture del caffè, da una parte, e le solite aspettative al supermercato, dall’altra. La domanda circa la perfezione trasloca così dal dominio filosofico a quello economico, non senza una capriola tecnico-pratica che alla questione socratica dell’essenza non può non ritornare.
Comincia proprio da qui l’originale riflessione condotta dal sociologo americano Kenneth Liberman, fenomenologo di formazione (Husserl, Schultz) ed etnometodologo di professione (Granfinkel, ma a monte anche Simmel), in un grosso libro adesso parzialmente tradotto in italiano da Maddalena Borsato col titolo Il gusto del caffè. Indagine sull’oggettività nella collana Sapio diretta per ETS da Nicola Perullo (pp. 326, €28) che ne ha anche steso l’introduzione. Cosa c’entra un sociologo con l’eterna questione del gusto di natura tipicamente estetico-filosofica? Potremmo dire, semplificando, che ciò che per i filosofi è il punto di arrivo (la dialettica fra soggettivismo e oggettività dei sapori) per Liberman è un punto di partenza. Laddove per i primi quella tensione si risolve in termini teorici (l’oggettività è fondata in termini intersoggettivi, cioè di condivisione delle idiosincrasie), per quest’ultimo l’intersoggettività non è mai la società nel suo insieme (ammesso che esista) ma la sua articolazione interna, il gioco complesso e complessivo fra i gruppi più o meno ampi che la compongono, le dinamiche che la fondano e incessantemente la trasformano. E a dimostrarlo, per nulla paradossalmente, è proprio la questione del gusto del caffè e la presunta oggettività dei mille e mille aromi che lo contraddistinguono nel mondo.
Liberman ci ha messo una decina d’anni per scrivere questo libro che Perullo definisce di sociologia della percezione ecologica, e cioè di un gusto sempre e necessariamente situato in uno spazio e in un tempo, in un insieme di valori, in una qualche cultura. Ha viaggiato in lungo e in largo per i vari paesi produttori di caffè analizzando l’intera filiera che dal singolo produttore sui campi porta al consumatore finale. Ha visitato aziende agricole, ha ispezionato industrie di torrefazione e di inscatolamento, ha assistito a riunioni fra uomini di marketing e esperti di comunicazione. Ma soprattutto ha condotto un attento esame etnografico di quel che accade nelle sedute della cosiddetta analisi sensoriale, là dove gruppi diversificati di assaggiatori professionisti devono certificare – cioè oggettivare – il gusto di una determinata varietà di questa bevanda. Se il consumatore, dopo aver a lungo passeggiato col suo bravo carrello tra i banchi del supermarket, una volta tornato a casa tiene a ritrovare nelle confezioni di caffè che ha acquistato il gusto che più gli piace, ossia i medesimi sapore e aroma delle confezioni precedenti, scopo dell’assaggiatore è quello di comporre questa uniformità, di dribblare tra le centinaia di varietà che si trova a testare al fine di ricostruire quel sapore unico e solo che bisogna pur vendere.
Il gusto, diceva uno come Kant, si pretende riconoscibile, uniforme, soggettivo eppure condiviso. E le aziende di caffè sparse per il mondo non possono che assecondare queste pretese, facendo tutto il possibile affinché la bevanda etiope sia distinguibile da quella brasiliana, oppure indiana, arabica, colombiana e così via. La teoria di capsule colorate, coi loro bravi nomi esotizzanti, che fanno orgogliosa mostra di sé nei lussuosi negozi del centro è l’esito di questo lavoro certosino condotto a monte da centinaia di assaggiatori anonimi, la cui professione è quella di accontentarci, rendendo oggettivo ciò che non lo è, costruendo l’uniformità di sapori e odori, in modo da mantenere le promesse gastronomiche che ogni brava marca produttrice fa ai suoi clienti. Ne deriva, tornando alla filosofia, che non esiste un’essenza del caffè naturalmente fondata ma una sua ricomposizione artificiosa nel lungo percorso che dalla raccolta delle bacche porta alla tazzina (o al mug) del bar.
Lavoro non facile, perennemente sotto pressione, quello dell’assaggiatore. Immaginiamo la situazione: c’è un tizio che, nell’ambiente sterile, spesso tinteggiato di bianco, di un laboratorio scientifico si ritrova in silenzio e in perfetta solitudine (o comunque in un contesto per nulla di socialità), chiuso fra le pareti insonorizzate di una cabina, con il display di un computer di fronte dove c’è una scheda da compilare, piena di sì e di no, di risposte multiple ma predefinite che esigono da lui convinzione e chiarezza, determinazione e fiducia in se stessi. Questo tizio degusta decine di differenti varietà di caffè e, nel giro di attimi, deve darne un parere, un giudizio che, alla fine, si risolve nella compilazione della scheda, da chiudere e inviare il più rapidamente possibile al committente. Il quale, ovviamente, non ammette deroghe, perplessità, dubbi. Problema: ma chi beve il caffè in questo modo, solo, teso, incasinato, prezzolato un tanto a scheda? Ovviamente nessuno tranne l’assaggiatore, poraccio, che deve far finta di essere, tipico paradosso dell’attore, colui che costitutivamente non è: cioè il consumatore finale che, insegna Kant, paga e pretende, ma al bar oppure nel tinello di casa, non certamente in quell’algido laboratorio.
Quel che Liberman prende in considerazione, analizzandolo nel dettaglio (anche grazie a una serie di interviste in situ), è tutto ciò che accade fra la pretesa a monte dell’azienda, la quale commissiona questo tipo di analisi sensoriali che si immaginano oggettive, e quel che l’assaggiatore effettivamente fa, non per attestare l’uniformità del gusto ma per costruirla, magari barando, invertendo un paio di risposte, saltando alcune tazzine, rispondendo, confuso, a domande di cui forse non conosce la vera risposta. Ma non perché incapace o maldestro, meno che mai perché mascalzone, ma per gestire alla meno peggio lo scarto fra l’idea e la sua realizzazione, la pretesa d’oggettività e il suo fantasma, come dire il mare che c’è di mezzo fra il dire e il fare. Così, per esempio, dinnanzi all’astrusa tavola dei descrittori che nel loro insieme dovrebbero rendere conto di un sapore o di un aroma, accade che l’assaggiatore si sporga verso il vicino della cabina accanto chiedendo consigli, patteggiando risposte comuni, costruendo strategie analoghe per compiacere il committente. Le variabili che determinano il gusto del caffè sono tante (genetica, terreno, clima, raccolta, lavorazione, fermentazione, selezione, stoccaggio, miscelazione, tostatura, confezionamento, preparazione…), ma l’assaggiatore ha l’ingrato compito di eluderle, di far come se non esistessero. Il libro ricostruisce passo passo questa serie di compromessi che, alla fine, colpiscono nel segno: il gusto è unico, l’obiettività è garantita.
La morale di tutto ciò è abbastanza chiara. Quel che vale per il caffè, vale per ogni altra forma di assaggio e di analisi sensoriale, dai vini all’olio, dai formaggi al pane e così via. Ma quel che colpisce maggiormente è che non si additi mai abbastanza l’inghippo che sta alla base di tutto questo. Dinnanzi al re nudo, tutti tacciono e fanno finta di non vedere. Da un lato, il senso comune continua a pensare la scienza come dispensatrice di verità obiettive, senza interrogarsi sulle sue prassi concrete, legittimamente fondate su controversie, conflitti, compromessi, errori. Dall’altro le aziende, alla disperata ricerca di consulenze equanimi per le loro strategie di marketing, continuano a sovvenzionare pratiche di ricerca a dir poco discutibili che l’obiettività, piuttosto che predicarla, costruiscono ad hoc. Una specie di gioco delle parti dove a vincere è la solita retorica dei numeri e delle tecnologie a supporto, dove tutti gli altri – produttori, assaggiatori, comunicatori e consumatori – sono destinati a soccombere.
Un buon caffè aiuterà forse a digerire i disturbi connessi. Ma sarà perfetto?
Leggi anche
Angela Borghesi, Il caffè di buon anno
Marco Belpoliti, La scoperta del caffè
Antonino Alfò, Il caffè degli eroi
Maurizio Sentieri, Il tempo breve