Perché l'Irlanda?

25 Novembre 2023

Dopo l’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, una delle frontiere tra UE e USA è l’Irlanda. Europa e Stati Uniti sono schierati sulle stesse posizioni in politica internazionale e dall’Ucraina al Medio Oriente costituiscono un unico territorio, economicamente e culturalmente. L’Europa nasce all’ombra del patto atlantico e con un dialogo costante con le strategie economiche del Nord America, anche se ha una grandissima importanza il manifesto di Ventotene e un’energia culturale endogena, che non solo ha guidato il consenso dei cittadini ma ha anche disegnato una filosofia politica dell’Unione che ha di fatto intrecciato progetti di orientamento sociale, come i programmi Horizon ed Erasmus e le riforme ecologiche. A grandi linee si può dire che il Nord America è capitalismo puro, gran parte dell’UE piuttosto socialdemocratica. Sono soprattutto sistema sanitario ed educativo a marcare le differenze. Entrambi con il maggiore impatto sociale che uno stato può avere sulle proprie società.  

L’Europa è anche però dove gli interessi di banche e corporazioni prevalgono sulla politica, come negli USA. Per questo la frontiera tra i due sistemi è porosa.

Il terreno dove si mostrano attriti è nel tentativo di armonizzare la politica fiscale europea e, com’è noto, il caso principale è proprio la tassazione delle grandi corporazioni americane che operano in Irlanda: Google, Apple e tante altre. La commissaria europea per la competizione, la danese Margarethe Verstagen ha tentato a più riprese di irregimentare l’Irlanda nel sistema fiscale europeo, per altro ancora piuttosto lasco, ma per il momento il governo di Dublino preferisce pagare salatissime multe per non perdere la posizione di privilegio che ha nei confronti del Nord America. Si tratta di una frontiera meno drammatica che non quella orientale, dove dal Baltico al Mar Nero la guerra ucraina ha provocato un riallineamento militare con voci di spesa e strategie di contenimento della Russia sotto gli occhi di tutti. Ma per quanto morbida è una frontiera anche questa, composta di alcune questioni che fanno parte della storia non recente e si rendono evidenti nelle dinamiche interne alla Repubblica irlandese.

Prima di tutto c’è la relazione con l’Inghilterra, anche questa legatissima all’America. Uscendo dall’UE il Regno Unito ha scommesso sulla anglosphere, e cioè sul capitalismo più puro e globale proprio contro le pratiche socialdemocratiche dell’Europa.  Di contro i Kennedy, Biden e persino Obama hanno origini irlandesi e gli USA nascono da una rivolta contro gli inglesi. The Declaration of Indipendence, uno dei tre documenti fondamentali su cui si fondano gli USA, è l’atto che pone fine alle ostilità tra la Corona inglese e gli stati confederati che fin dall’inizio stabiliscono il diritto al Pursuit of Happiness, che in questo contesto significa il diritto ad accumulare ricchezza, che è il vero cardine del diritto americano e la ragione per cui i protagonisti politici sono scelti da poteri economici.

Brexit è stata una vicenda che ha riguardato soprattutto la destra inglese, una catfight nel partito Tory, come la definì Guy Verhofstadt, il commissario addetto ai negoziati per la separazione, una lotta tra filoamericani (nessun freno al mercato) e filoeuropei (sanità, educazione ed energia sociali); la scelta è stata così poco conveniente dal punto di vista commerciale che ha inevitabilmente posto in primo piano l’aspetto ideologico culturale del referendum. La visione di Nigel Farage e Boris Johnson è in gran parte il frutto di un sistema educativo che coltiva un nazionalismo insidioso, xenofobo e reazionario, fondato, soprattutto nelle scuole private, su un’apologia dell’Impero che idealizza ancora oggi il passato coloniale. Da questa nostalgia nasce una riproposizione dell’Impero britannico e un suo ruolo negli equilibri mondiali che semplicemente non si è realizzato e non potrà realizzarsi. L’Inghilterra non ha più la potenza commerciale e militare di cento anni fa, la ricchezza di Londra si fonda in gran parte su investimenti, finanziari e immobiliari, che provengono dall’estero. Come disse l’ex governatore della Bank of England Mark Carney, la Gran Bretagna vive della cortesia degli stranieri. Tutte le polizie finanziarie del mondo sanno che il 50% del denaro criminale è investito o transita per Londra; le banche inglesi hanno una relazione fluida con i paradisi fiscali, quasi sempre protettorati britannici che fanno da scudo contro le indagini fiscali di altri paesi. Fanno poche domande, che i soldi vengano da dittatori che hanno razziato il proprio paese o da accumuli di capitali sospetti, il tramonto dell’industria manifatturiera e lo sviluppo del sistema finanziario hanno progressivamente spostato la ricchezza del paese dai prodotti materiali (agricoltura, industria ecc.) ai services, cioè banche, assicurazioni, prodotti finanziari. Se si può proporre a una fabbrica di automobili di distribuire i propri profitti a chi vi lavora, come tende a fare la Germania e i paesi scandinavi con un efficiente ruolo dei sindacati, è più difficile farlo con una banca quando i ricavi non provengono da azioni governative (i tassi di interesse, ad esempio) ma da depositi privati di soggetti meno trasparenti. Si può distinguere un conto corrente di un trafficante di droga da quello di un commerciante di tessuti che ha accumulato i propri risparmi? Così come è difficile impedire a capitali che provengono dall’Arabia Saudita o dalla Russia di acquistare proprietà immobiliari nel centro di Londra, modificando il mercato come si trattasse di una borsa. 

Il flusso del denaro trasforma profondamente le società, come racconta bene un lavoro esposto nel padiglione olandese all’ultima biennale di Venezia.

Questa ricchezza che staziona spesso nelle banche londinesi ha illuso personaggi come Johnson e Farage di poter separare il paese rinunciando al suo mercato manifatturiero principale, appunto l’Europa, a favore di un mercato di puro capitale. Il risultato è stato disastroso perché senza il prestigio per negoziare in modo significativo con gli USA o con le ex colonie, come l’India, il Canada, l’Australia o i paesi africani, l’Inghilterra si ritrova isolata. Aver perso un posto prezioso nella UE, ne ha smascherato una sostanziale povertà strategica che non ha solo costi economici (la svalutazione della sterlina e in generale il declino economico che è penosamente presente nel nord dell’isola ma persino in una città ricca come Londra, dove a fianco ai prezzi stratosferici delle case e degli affitti mancano generi alimentari nei supermercati e la contrazione economica si è mostrata negli incrementi di gente senza casa e senza cibo, cui il governo non riesce più a fornire neppure un’assistenza elementare). Ma è soprattutto nella reputazione politica, con la sequela di 6 primi ministri (in un paese che storicamente aveva governi che duravano anche più di una legislatura come la Thatcher o Blair) che non riescono a dare una guida perché il paese ha in realtà rotto il timone.

La prima conseguenza, com’è noto, è stata proprio il rapporto con l’Irlanda del nord, che ufficialmente fa parte del Regno Unito ma è in realtà rimasta senza un governo e dove alle ultime elezioni ha vinto il partito che ha come prima missione la riunificazione dell’Irlanda, Sinn Fein. Di fatto, l’esistenza stessa del Nord Irlanda è un fatto residuale di un dominio coloniale crudelissimo esercitato dagli inglesi sugli irlandesi per oltre 500 anni. Le rivolte sono state continue, ma dal 1916 ai nove rappresentanti dell’IRA che Margaret Thatcher fece morire in  un drammatico sciopero della fame nel 1981, hanno portato in prima pagina in tutto il mondo l’anacronismo della partizione dell’Irlanda. A Bobby Sands sono state dedicate strade e piazze dal Portogallo alla Francia, dalla Russia agli Stati Uniti, e la sua morte ha di fatto costretto la parte filoinglese a cedere progressivamente potere fino a dover negoziare un accordo tra cattolici e protestanti, che secondo il Good Friday Agreement (1998) dovrebbero sedere insieme al governo. 

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Waterworks of money, Carlijn Kingma.

L’accordo era stato reso possibile dall’Europa, che aveva tolto significato agli scontri nazionalisti (anche ai Baschi e al Sud Tirolo) perché di fatto il governo delle economie dei paesi europei non è più negli stati nazione. Fuori dall’Europa, l’Inghilterra ha avuto il problema di come gestire questa frontiera. Come ha detto infelicemente, quasi in un lapsus denso di razzismo, Boris Johnson, era la coda che scuoteva il cane.

Il risultato per gli irlandesi (e gli scozzesi, anche loro filoeuropei) è stato di ritrovarsi un’altra volta nella condizione di colonie. Il tentativo di legiferare di Westminster si è scontrato con autonomie consolidate e di grande successo e ha accelerato probabilmente uno sgretolamento del Regno Unito che stando ai sondaggi è oggi un orizzonte realistico per le diverse isole britanniche.

Ad avvantaggiarsi di questa crisi è stata chiaramente la repubblica irlandese che è oggi, grazie all’Europa e ai rapporti con gli USA, ricca, spesso con una legislazione sui diritti civili più evoluta dell’Ulster e spesso ago della bilancia di decisioni importanti per l’assetto commerciale dell’Europa. 

La dinamica di questa trasformazione ha molti aspetti contraddittori. La Dublino raccontata da James Joyce era una città fondamentalmente povera, con una classe media fragile e provinciale. In questo molto simile alla Trieste di Svevo e spesso le due città si mescolano nella prosa dello scrittore irlandese, che a Trieste ha passato anni decisivi dando lezioni di inglese allo scrittore triestino. La descrizione di tanti aspetti della vita corporea dei personaggi, dalla defecazione alla masturbazione e soprattutto ai magnifici monologhi finali di Molly Bloom, provocarono cent’anni fa una reazione a Ulysses nel mondo angloamericano e in quello irlandese senza precedenti (e non paragonabile neppure in seguito a nulla nella letteratura occidentale). Il libro, pubblicato a Parigi nel ’22, venne sequestrato, accusato di oscenità e di “cubismo”, che ci dà la misura di cosa fossero le avanguardie nel primo novecento. In Irlanda venne finalmente pubblicato solo nel 1966, quattro anni dopo il primo disco dei Beatles. 

Ma l’oscenità di Joyce era soprattutto l’emergere potente di una voce popolare nella lingua inglese, con altre radici (il cosiddetto Hiberno-English) che i manierismi delle classi medie e medio-alte londinesi avevano completamente represso. Sebbene Joyce non avesse alcuna ambizione politicamente rivoluzionaria e al contrario ambisse se mai a una condizione borghese, dalla breccia aperta dal suo romanzo arriverà di tutto, da Samuel Beckett e Harold Pinter fino a Gianni Celati.

Quell’Irlanda, commovente e audace e al tempo stesso modesta, quasi vergognosa della propria povertà e del corpo nudo, è in parte scomparsa: la madre di Joyce disse del romanzo del figlio che c’erano cose nel suo libro che “non meritavano di essere lette” al che James Joyce rispose che se era davvero così, “la vita non meritava di essere vissuta”. 

La scomparsa di quell’Irlanda ha ragioni diverse: fino a fine ottocento, c’è stata la deliberata campagna contro il gaelico e una politica durante gli anni della carestia che è genocidio. La popolazione, per cui il gaelico era la prima lingua (in una popolazione allora di circa sei milioni), oggi è ridotta a 80.000 parlanti (su circa 7 milioni di abitanti in tutta l’Irlanda); schiacciata in alcune penisole che si allungano sull’atlantico, come il Kerry, Galway, Donegal e Mayo. 

Il gaelico è una lingua antica, articolata, con una letteratura medievale importantissima per tutta l’Europa. San Colombano, il fondatore di Bobbio, (Colomb in gaelico significa santo), è un protagonista del medioevo e nel suo Scriptorium si trovavano oltre 700 codici, moltissimi per il settimo secolo; manoscritti di Ovidio, Tito Livio, autori fondamentali per la letteratura latina. 

La crisi del gaelico è quindi importantissima culturalmente per tutta l’Europa; per l’Irlanda di oggi, che investe molte risorse nella difesa della lingua attraverso un apposito ministero, molto complicata. Dai prigionieri dell’IRA, che usavano il gaelico per non essere compresi dalle guardie (e che fa sì che alcuni degli studiosi di oggi di gaelico abbiano fatto le ossa filologiche nelle prigioni inglesi), fino ai nomi dei partiti (Fianna Fail o Sinn Fein) e i titoli di Primo ministro, Toiseach, o Presidente della Repubblica Uachtarán e naturalmente a tutti i segnali stradali bilingui, il gaelico è molto presente.  L’Irlanda è consapevolissima che è proprio nella lingua gaelica che ci sono le radici della sua specificità, tanto che nelle scuole elitarie di Dublino c’è un ritorno di interesse per lo studio della lingua (che è comunque diffusa e obbligatoria ovunque), come segno di distinzione e quindi autoselezione di una classe dirigente.

Questo non è ovviamente il gaelico del Kerry o di Mayo, che al contrario è una lingua nativa, parlata da agricoltori, musicisti e poeti delle aree dove è ancora prevalente (le cosidette Gaeltacht).

La frontiera con gli USA però qui riappare in modo insidioso: una parte della popolazione gaelica è infatti emigrata e ritornata in Irlanda e si è portata dietro la mentalità e persino lo stile urbanistico americano. Ai villaggi fatti di case povere, raggruppate insieme (i Baile) gli emigrati che tornavano con del denaro hanno sostituito case distanti le une dalle altre e uno stile di vita e commercio simile a quello delle città americane, dove si vive in automobile. Questo ovviamente trasforma anche le comunità e pone un problema molto serio alle amministrazioni che concedono i permessi edilizi: l’ambizione sarebbe quella di difendere le zone dove si parla il gaelico, tra l’altro le più belle e spettacolari dell’Irlanda per la loro posizione geografica, tutte affacciate sull’Atlantico. Questo però rischia di mettere in crisi il mercato immobiliare e nuocere proprio quei parlanti gaelico che, emigrati da giovani e poverissimi in America, al ritorno hanno investito i propri guadagni in una casa nella zona gaelica da cui erano partiti. Queste case, ampie e moderne, sono spesso dove si sistemano i turisti per le vacanze estive. È proprio la bellezza dei luoghi e la particolarità della cultura (soprattutto la musica che in questa zona è ovunque) ad attrarre turisti da tutto il mondo ma questo, un po’ come a Venezia, snatura la vita economica delle comunità locale. Molto più facile e redditizio avere due stanze da affittare ai turisti che non avere un pascolo di mucche. 

La frontiera in altre parole è tra una specificità culturale che, nel Kerry come a Venezia, per resistere ha bisogno di mantenere vivi luoghi e abitudini di una popolazione locale che parla una lingua bella e importante ma minoritaria, e il valore commerciale che proprio gli stranieri danno alle proprietà immobiliari della zona, e quindi ai risparmi di quegli stessi abitanti che si vorrebbero difendere con interventi legislativi. In altre parole, i parlanti gaelico hanno case che valgono molto in quelle aree perché il mercato è mondiale: se si impedisse l’acquisto di case e terreni a stranieri, il prezzo delle proprietà crollerebbe: in che modo dunque intervenire? Permettere al libero mercato di fare le sue regole che però, a Venezia come nel Kerry, di fatto distrugge persino la possibilità che i giovani di quella zona riescano a trovare una camera in affitto a un prezzo coerente con l’economia locale?

Tra il capitalismo e la sua dinamica, che è ovviamente interiorizzata dagli emigranti che si sono arricchiti e sono tornati, e un’identità più profonda che viene rapidamente erosa proprio dai comprensibilissimi interessi di quegli stessi abitanti, si apre una lacerazione difficilissima da gestire. La frontiera appunto tra quella parte di loro che sente i benefici della cittadinanza europea, che li protegge sia con i sussidi dell’industria agraria che nella specificità della loro lingua, e quella parte che porta il rancore e l’estraneità dell’ex emigrato in America. Lì hanno conosciuto la durezza del lavoro (spesso come muratori) e quindi anche un certo risentimento verso il datore di lavoro, il legislatore, tutto quello che avveniva in inglese, che inoltre si riallacciava alla memoria storica del loro sterminio. Durante la terribile carestia del 1845-52 morirono un milione di persone e un altro milione emigrò, ma è tutta la storia irlandese da Enrico VIII in poi, con gli interventi inglesi per impedire il ritorno dei cattolici, che è segnata da una presenza militare inglese. Si ha a volte la sensazione di vivere in una ricca riserva compromessi economicamente con coloro che di fatto li hanno quasi sterminati. Proprio per difendere la proprietà e il suo valore commerciale sono legati all’interesse che in quelle regioni richiama turisti che parlano inglese, mentre la specificità della loro lingua e cultura, che è una delle attrattive di quell’area, si lega profondamente al turismo.  Lo stesso dilemma di Venezia. La grande differenza con Venezia è che l’Irlanda è molto più vicina all’America, nelle biografie degli ex emigrati, e quindi il confine tra capitalismo e identità locale è ancora più difficile da dirimere e da amministrare dalle autorità amministrative, che di fatto sono come a Venezia nei guai perché l’unica soluzione sarebbe un’azione politica a difesa della popolazione minacciata di estinzione, che sarebbe comunque destinata ad essere raggirata proprio da quegli stessi cittadini a cui quell’intervento si rivolge per difenderli. 

In copertina, Waterworks of money, Carlijn Kingma.

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