Harold Brodkey / Primo amore e altri affanni

22 Febbraio 2022

«L’arredamento era vistoso e spaventevole era come quel momento dell’incubo in cui le cose si mettono così male che uno decide di svegliarsi».

C’è qualcosa nella scrittura di Harold Brodkey, di delicato e terrificante allo stesso tempo. Un tratto nitido, preciso, cattivo, ma anche sfumato, lieve, sentimentale. È uno dei pochi scrittori (almeno tra quelli che io ricordi) a essere moderno – con qualche tratto post-moderno – e barocco simultaneamente. Conosce la classe operaia e pure una certa borghesia. Sa raccontare le famiglie che vivono alla periferia delle città americane e quelle che stanno verso il centro, che maneggiano il denaro, che scelgono il destino degli altri, chi sposare o meno, chi rovinare o no. Sa dire di sé stesso per scavare (e mostrare) le vite degli altri. Non ha fatto altro che scrivere da quando era ragazzino fino, in pratica, al giorno della sua morte. In molti lo abbiamo scoperto alcuni anni fa quando Fandango ha pubblicato Questo buio feroce (traduzione di Delfina Vezzoli), un memoir straordinario che recava come sottotitolo all’edizione italiana Storia della mia morte e di questo si trattava. Brodkey narrava di pagina in pagina l’avvicinarsi a quel momento dopo che gli avevano diagnosticato l’Aids.

 

Annunciò la malattia in una sorta di lettera ai suoi lettori, uscita sul New Yorker (un posto che è appartenuto allo scrittore più di qualunque abitazione); fece fatica a scrivere quella volta, e non era la paura della morte (che stava e forse è rimasta in secondo piano) ma il timore del giudizio, di cosa potesse significare uscire dal silenzio, da una convenzione che voleva una porta chiusa sulla vicenda della malattia. Brodkey non era uno da silenzio, era uno che diceva le cose, di racconto in racconto, di anno in anno. Ha sempre fatto così, ha tenuto distante l’oblio, ha portato gli affetti al centro della pagina.

 

Il suo particolare talento, accompagnato da tenacia e devozione, gli ha consentito di reinventare la realtà, di renderla raccontabile fin dai primi racconti. In quella storia della sua morte rendeva tutti partecipi del modo in cui la felicità si scompone giorno dopo giorno, perché quando apprese della malattia era felice, era innamorato di Ellen, sua moglie, pienamente, serenamente e, sì, creativamente. La teneva per mano al centro di quelle memorie, delle ore che si consumavano. Era il periodo più bello della sua vita e il suo modo per allontanare la morte fu scrivere della vita piena che la stava precedendo. Quel libro è straordinario perché non è un viaggio nel dolore, nella paura, ma è un cono di luce che scende su un grande scrittore, che nelle pagine pare attraversato dalla grazia. Brodkey senza cercare chissà quale pace, scrive per sopravvivere anche dopo essersene andato. Scrive prima di morire perché è quello che sa fare.

«Esiste una particolare gradazione di mattoni rossi – un rosso cupo, quasi melodioso, profondo e venato di blu – che è la mia infanzia a St. Louis».

 

Chiunque lo abbia letto non lo ha dimenticato e ha preso a cercare tutto ciò che Brodkey avesse scritto fino a giungere al suo capolavoro: Storie in modo quasi classico (Fandango, trad. Delfina Vezzoli), racconti meravigliosi che bilanciano in maniera perfetta la vita della persona che scrive e la capacità di farne una storia. A proposito di quel libro, rispondendo a un’intervista di Delfina Vezzoli, Brodkey affermò, circa il cardine della sua scrittura: «[…]  il tentativo, che rincorro, di risalire alle radici dell’esperienza e raccontare, con un linguaggio non convenzionale, non stereotipato, in che cosa consiste un’emozione, come si presenta alla coscienza, e quali reazioni scatena».

 

 

Secondo me Brodkey ci ha sempre provato e ci è riuscito, ce lo chiarisce questa nuova pubblicazione di Fandango che riedita la sua prima raccolta di racconti: Primo amore e altri affanni (traduzione di Grazia Rattazzi Gambelli). Il libro uscì per la prima volta nel 1958, e includeva storie pubblicate dal New Yorker, l’autore non aveva ancora trent’anni, ma era già considerato la più grande promessa della narrativa americana.

 

Promessa mantenuta ma conservata con una certa perseveranza: Brodkey non è molto conosciuto (anche se dovrebbe esserlo), ma quando lo si conosce lo si piazza ai primi posti di quelle strane classifiche che noi lettori ogni tanto facciamo. Il Proust d’America ebbe a dire Harold Bloom. Aveva ragione uno dei più grandi critici letterari di tutti i tempi? Forse un po’ sì, ma il campo dei paragoni è talmente insidioso, così pieno di buche che è meglio non addentrarcisi troppo. Di certo Bloom prima di chiunque ha colto il talento di Brodkey, ha capito il suo spessore, la possibilità che le cose che scriveva (e che avrebbe scritto) sarebbero durate, avrebbero avuto un significato profondo, in tanti le avrebbero studiate, e che avrebbero prodotto quello scarto/scatto in avanti che solo la grande letteratura sa fare.

 

«Dov’era il mondo? Non lì, non vicino a me, non sotto il tavolo della sala da pranzo…».

In questi primi straordinari racconti possiamo ritrovare il talento di Brodkey agli albori e riscontrare intatte le sue ossessioni che vanno dall’esplorazione minuziosa dell’autobiografia: memoria famigliare (desolante, impietosa), la vita nel college, i primi viaggi, i sentimenti, gli amori giovanili, l’infanzia che svanisce, il dolore che passa tra le pareti delle case, gli arredi. E poi i desideri, le strane speranze, l’ambiguità sessuale, la noia, le divisioni sociali. Brodkey esplora quegli anni, la gente, le case, le donne – che disegna benissimo, cogliendone ogni sfumatura –, attraversando matrimoni stanchi, paure e l’esplosione delle pulsioni giovanili. Le nuove voglie che tolgono il respiro, che spingono gli adolescenti verso la scoperta, un’apertura verso l’altro che sgomenta, che esplode in rabbia, in tristezza, ma poi in gioia, in conoscenza. Brodkey lega questi racconti uno per uno, i protagonisti si chiamano, si inseguono di storia in storia e a volte li ritroviamo pagine più avanti con altro profilo, con lo stesso nome. Fanno gesti diversi che concludono i precedenti, che indirizzano verso una svolta, verso un altro finale.

 

«Ascoltavo Duncan e il lontano grammofono e come in un sogno lo scrosciare delle onde e sapevo che avrei superato la prova della mia giovinezza e sarei stato perdonato».

In Primo amore e altri affanni ogni dettaglio è pieno di significato, ogni incipit è un invito, ogni metafora è perfettamente riuscita. Se qualche passaggio può sembrare appena lezioso è solo perché quei ragazzi lo erano, quelle famiglie lo erano, le lettere, le telefonate, i baci, le rinunce lo erano. Se tutti ricordiamo l’amore giovane, pieno di inciampi e di imprevisti, tornarci grazie alla penna di un grande scrittore è un buon modo per fare cuore e memoria.

Brodkey è morto a New York nel 1993, a soli 63 anni, presto per la vita in generale, ma abbastanza da lasciare una serie di libri meravigliosi, storie capaci di scuotere e di far tremare almeno per un po’

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO