Quel gran bugiardo di Cavazzoni
Cosa rivela un attore quando si sfila la maschera, quella di cuoio o quella impalpabile del personaggio? Di solito fa apparire un essere umano normale, un po’ banale, che rinuncia alla molteplicità che la protesi teatrale consente, alla proiezione in vari altrove che propizia quell’altra facies insieme immobile e pronta a frangersi in molti personaggi o in varie infinite sfumature di una stessa figura. La copertina dell’ultimo romanzo di Ermanno Cavazzoni Il gran bugiardo (La nave di Teseo, pag.208, euro 19) riporta una bellissima immagine, tratta dalla Pulcinellapoedia Seraphiniana di Luigi Serafini (1984), con un Pulcinella inchinato in avanti. Si toglie la sua maschera, comica, grottesca e abbastanza diabolica, con quel naso bitorzoluto, nera com’è, rivelando che sotto di essa c’è il vuoto, non un volto, non carne, ossa, vene, cartilagini, organi. Quel volto consistente tutto nella maschera esibita nella sua ghignante finzione ben rappresenta il contenuto del libro.
È un romanzo insieme realistico e fantastico questo, come sempre quelli dello scrittore reggiano. Ci troviamo di fronte a una vita quotidiana simile a quella di molti di noi, fatta di aspirazioni, sogni, innamoramenti, incontri che mutano il corso delle cose, impacci da volgere a proprio vantaggio e soprattutto di tutte quelle piccole bugie che raccontiamo per varcare il mare tempestoso che scorre tra il desiderio e la sua realizzazione. È fantastico perché Cavazzoni, innamorato da sempre dei personaggi estremi, marginali, fuori proporzione, capaci di illuminare quanto sproporzionato sia il nostro essere e relazionarci, spinge il pedale delle situazioni oltre ogni prudente confine, facendo sì che il suo bugiardo si impantani sempre di più in modo iperbolico nelle bugie. Di bugia in bugia si trascina in vicoli ciechi dai quali è divertente vedere come con mosse del cavallo riesca a liberarsi, aumentando peraltro l’ingarbugliamento dei fili, fino a un ironico, imprevedibile lieto finale.
Tutto inizia in modo molto semplice: giovane studente di provincia svogliato, arrivato in città all’università accompagnato da grandi aspettative dei parenti, inizia a mentire ai genitori sugli esami sostenuti. E qui si ha il primo effetto a palla di neve, avrebbe detto Bergson, avvicinando una tipologia del comico alla figura della valanga che più cade più si accresce, diventando devastante. Di esame in esame non sostenuto ma dato per superato ai genitori arriva al momento della laurea. I parenti naturalmente vogliono essere presenti al solenne traguardo e vani saranno i tentativi del protagonista per depistarli. Dovrà allora mettere a frutto tutte le proprie risorse di improvvisatore nella sessione di laurea, con effetti sempre più comici, per far credere di aver ottenuto il prestigioso diploma che lo abilita alla professione medica.
Ma questo è solo una delle tracce del romanzo, che si dipana in parallelo con molti altre, come in una abile tessitura di fili di colori differenti. Tutto inizia con un’altra finzione: per risparmiare il giovane si presenta varie volte a una mensa dei poveri travestito da barbone con una barba finta. Tornando a casa in autobus incontra Mirta, una ragazza che lo affascina, perduta con gli occhi in un romanzo rosa di un autore che si chiama Luc Barbaresco. Lui, prontamente, per agganciare la ragazza non solo si spaccia per lo scrittore ma per rivederla le promette di farle leggere in anteprima il suo nuovo romanzo in bozza. Dove trovare ora un romanzo, già bell’e scritto e stampato? Intanto nella casa in cui sta a pensione la padrona gli chiede consigli medici (avendo saputo della laurea) e lui inizia a spacciare rimedi che lo rendono noto in tutto il vicinato. La proprietaria lo considera un eminente scienziato e l’anziana cameriera pensa che possieda doti miracolose, che sia una specie di santone o un vero e proprio santo. L’appartamento si trasforma in un ospedale di anziani e di reietti che grazie ai suoi placebo credono di alleviare i loro quotidiani malori.
Le bugie diventano una girandola di inganni, nella quale il nostro si invischia sempre di più: attratto da un’altra ragazza, Ester, si spaccia per direttore d’orchestra, la invita a un suo concerto e naturalmente non sa nulla di musica. Davanti al teatro della città, messo alle strette dell’arrivo di lei, deve fingersi il famoso maestro e così penetra tra corridoi e camerini fino a finire sul palco e poi a fuggire in un retropalco e a ritrovarsi in frac, facendo credere di essere un raffinato musicista, slanciandosi in corse dai ritmi slapstick che richiamano qualche diavolo della sarabanda sovietica del Maestro e Margherita. Il gioco di scambi di personalità con il direttore continua, davanti all’orchestra, con la ragazza, con il direttore artistico dottor Colluso, facendo credere che il vero musicista sia un pazzo che vuole assumere la sua personalità.
Che nome ha quello che finora ho chiamato “il protagonista” o “il nostro”? Ne ha perlomeno cinque diversi, questo Zelig, questo Sonocometumivuoi, uno per ognuna delle situazioni in cui si caccia: Nick, Nicola XY, Luc Barbaresco, Olindo Olgiati Parenti (il direttore d’orchestra), Oscar il medico di via Gianni Schicchi. Il nome della strada dove ha preso dimora in pensione apre un nuovo filone di sospetto. Gianni Schicchi era il furbo simulatore fiorentino collocato da Dante nell’Inferno tra i fraudolenti, quello che prese il posto di Buoso Donati per non permettere che la sua eredità finisse a un convento, protagonista anche dell’omonima opera di Puccini. Ma anche gli altri riferimenti toponomastici ci portano nel mondo della truffa, dell’imbroglio: abbiamo vie intitolate a Nicola Bombacci, socialista poi comunista poi fascista insomma un voltagabbana, a Mastro Adamo, altro personaggio dell’Inferno dantesco, falsario di fiorini, a Luigi Parmeggiani, anarchico e falsario; troviamo un giardinetto intitolato a Cervo Bianco, millantatore che si spacciò per capo indiano, una piazza dedicata a Capocchio, alchimista ed eretico, e così via. Tutta questa città senza nome, simile a molte delle nostre, disegna una cartina dell’imbroglio organizzato. E il primo, più grande mentitore, il più grande personaggio teatrale, pronto ad assumere ogni sembianza, il diavolo, più volte fa capolino, nelle prove dell’orchestra che sta preparando arie dal Mefistofele di Arrigo Boito e nella casa del direttore d’orchestra, pratico di spiritismo, che crede il nostro un diavolo di secondario livello venuto per metterlo a cimento (e proporgli il patto).
Il diavolo mi sembra una bella chiave per leggere questo trascinante romanzo. Le sue tentazioni non funzionerebbero se non fossero capaci di aprire varchi che conducono ai desideri più intimi dei tentati. Il falsario non avrebbe successo se non incontrasse interlocutori disposti a farsi sedurre e a farsi trasportare sulle ali del desiderio per fuggire le loro comuni quotidiane banali esistenze. Le donne e gli anziani della pensione credono nei poteri salvifici di quel medico straordinario e su quella credenza basano il loro sentirsi meglio. Le due ragazze Mirta ed Ester si lasciano conquistare da una personalità che appare fuori dalla loro routine piccolo borghese e per questo iniziano a mentire anche ai loro fidanzati. I musicisti, in rotta col direttore d’orchestra, non aspettano altro che un provvidenziale inviato non si sa da dove, un sostituto che possa far espellere il tiranno.
Ha spiegato Cavazzoni in un’intervista: “Tutti i personaggi sono più o meno bugiardi, in forme più o meno intenzionali. Il protagonista non è un calcolatore, un truffatore: scivola nella bugia a poco a poco, per compiacere gli altri, e la menzogna diventa sempre più gigantesca. La falsità per lui è come un baratro minaccioso che lo attira”.
Sul baratro, che spalanca l’antro dell’inferno e di quella sua controfigura, secondo i predicatori barocchi, che è il teatro, si ride molto, sempre di più a mano a mano che i fili si ingarbugliano, “per la forza costrittiva dell’impostura”, che genera conseguenze sempre meno dominabili. Situazioni vicine alla realtà vengono trascinate in un meccanismo stritolante, che enfatizza le possibilità narrative della finzione assoluta. In questo racconto (e in genere nell’opera d’arte, sembra affermare con forza Cavazzoni) la menzogna è la vera realtà: non solo quella accesa dal protagonista, che potrebbe esserne stritolato e riesce (quasi) sempre a svicolare, ma anche quella costituita dalle attese, dalle illusioni, dalle false coscienze, dalle passioni di coloro che incontra. Pure di fronte a quello che dovrebbe essere il momento di verità, la seduta con uno psichiatra per provare a curare la sua follia, fa credere di essere una specie di re Mida, millantando di trasformare le cose in oro con il suo tocco.
Quando ormai i nodi stanno venendo al pettine e gli imbrogli stanno per essere scoperti Cavazzoni ci regala un’ultima formidabile iperbole comica con lo psichiatra che va a casa di quello che, in ossequio alla privacy, ha rubricato come Nicola XY:
essendo oltremodo interessato al suo caso, e non escludendo una effettiva, sconosciuta capacità di metallizzare gli oggetti (era stato il sogno anche dell’alchimia), era venuto lui stesso a cercarlo, accompagnato dall’infermiera, e aveva portato del piombo, un lingotto da cinque chili, per fare una prova di trasmutazione, con interesse psichiatrico, ma anche in parte speculativo, se per caso quella capacità fosse stata effettiva. Sapeva che il piombo bombardato con neutroni può perdere tre protoni e tramutarsi in oro, l’aveva letto sull’enciclopedia dopo la visita e ne era rimasto fulminato. Non era escluso che quel Nicola XY avessero energia per bombardare; cioè dalle mani emettesse neutroni accelerati. La sua teoria era che un malato psichiatrico è malato perché contiene scorie radioattive, lo constatava su se stesso di essere disseminato di scorie anzi sentiva di essere prossimo, se non analogo, a un reattore nucleare, per il nervosismo che lo pervadeva e che generava un campo di instabilità, però non sufficiente ad accendere una lampadina.
Gli slittamenti tra follia, creduloneria, avidità, desiderio diventano vertiginosi, mettendo in dubbio, in questo passaggio e in tutto il libro, il mondo intero che circonda il protagonista. Cavazzoni come sempre si fa maestro di continue smarginature dal quotidiano al mostruoso, dall’incredibile al probabilmente normale, affermando per forza di narrazione, mi sembra, che la letteratura deve trasfigurare, forzare, rivelare la realtà, e non rifletterla.
A proposito della comicità, ha detto: “Io non amo il motto di spirito, la barzelletta che si esaurisce nella battuta. Amo il comico spalmato in tutto un romanzo”. Il comico come lievito del romanzesco, aggiungerei. E circa le menzogne del protagonista ha notato, ancora: “Abbiamo visto tante persone che sul fatto di essere stati partigiani per un giorno hanno basato lunghe carriere politiche. Il mio bugiardo non è uno che vuol vendere la Tour Eiffel; è uno che partendo da piccole cose le ingigantisce. E chi di noi non ha ‘migliorato’ un curriculum, o lo ha adeguato alle attese di coloro ai quali lo indirizzava?”.