Querce, ognuna un mondo
Metus reverentialis. Non altro mi ha trattenuto fin ora dal prendere in considerazione l’albero di quercia per questa rubrica nata ormai dodici anni fa. Oltre a un vago senso di impotenza: come riuscire, se non a dominare, almeno ad affrontare o contenere il vasto campo dei significati che questa pianta ha assunto nella nostra storia culturale? A poco varrebbe elencare i molteplici miti e leggende che la vedono protagonista. E tra i tributi che poeti e scrittori nei millenni le hanno conferito, quale scegliere?
E poi, quale quercia? Al leccio (Quercus ilex), se non altro, ho già dato. Ma vi sono molte altre specie, e ancor più ibridi naturali, importanti per il nostro patrimonio arboreo. Quando si pensa alla quercia vien spontaneo pensare alla farnia (Quercus robur), che tra le querce in Europa ha l’areale più vasto, o al rovere (Quercus petraea, basionimo Quercus robur petraea). Eppure, come tralasciare la più meridionale roverella (Quercus pubescens) o la sughera (Quercus suber), il manto verde della Sardegna, e il cerro (Quercus cerris) diffuso nelle regioni della dorsale appenninica, o la rara vallonea (Quercus ithaburensis) dalle ghiande scapigliate, che da noi si può ammirare solo in Puglia: magnifica quella monumentale di Tricase. Limitiamoci alle due che nella loro catalogazione botanica mantengono il prisco nome latino, usato in senso figurato come sinonimo di forza, robustezza, vigore.
Entrambe decidue, di grandi dimensioni – possono superare i quaranta metri – e longeve, hanno però esigenze diverse. La farnia predilige terreni profondi e umidi, è essenza rustica, tipica delle pianure alluvionali, benché i boschi planiziali siano stati soppiantati dalle colture agricole e sia più frequente incontrare esemplari isolati o associati a carpini e altre fagacee. Il rovere sopporta meno gli inverni rigidi ma tollera terreni acidi e più aridi, spingendosi ad altezze maggiori (1200-1300 m.). Rari i rovereti puri, più usuale la presenza del rovere in boschi misti di latifoglie.
Questi i tratti principali per distinguerle: la farnia porta foglie auricolate (due piccole, asimmetriche orecchiette alla base della lamina) e frutti peduncolati con scaglie triangolari più grandi sulla sommità del cappuccio; al contrario, nel rovere sono picciolate le foglie dal margine basale che si restringe a spiovente verso l’innesto, mentre le ghiande sono sessili (senza picciolo) con cupola dalle squame omogenee.
Difficile in primavera far caso ai fiori: i maschili pendono in radi amenti giallastri, i femminili ancor meno evidenti sono raccolti in brevi spighe ascellari all’apice dei rami. Il che consente a Bashō di scrivere quest’haiku: «Col suo contegno / proclama la quercia: /non m’importa dei fiori».
Alberi generosi, le querce forniscono legni pregiati e alimentano micorrize simbiotiche per funghi e tartufi, con la loro chioma espansa regalano sollievo ombroso a uomini e animali. Esiste però anche una varietà fastigiata (Quercus robur var. fastigiata), che si ramifica stretta fin dalla base con portamento piramidale, più idonea per le alberature del verde urbano. Ma sono le ghiande ad aver avuto rilevanza nei secoli. Tra i primi alimenti umani al pari di castagne e altri frutti selvatici, a lungo la farina di ghiande eduli è entrata nelle miscele per la panificazione, per poi scadere a solo nutrimento animale. E pensare che si ritenevano afrodisiache, fecondatrici, giusto per l’etimo in comune con il glande maschile.
In letteratura, questo passaggio è documentato nel Cunto de li cunti di Giambattista Basile. Nella novella della quarta giornata Li sette palommielle la bella Cianna deve rimediare a una sua imperizia e liberare i fratelli dal maleficio di un orco che li ha trasformati in colombi. Per farsi indicare la strada e raggiungere la casa della mamma del Tempo e ridare ai fratelli forma umana, ricorre ad alcuni aiutanti: una balena, un topo, una formica e, da ultimo, una quercia. Quest’ultima le si rivolge con parole che, con un poco di impegno, non hanno bisogno di traduzione:
«passato chelle montagne se vedde a ’no bello chiano pe lo quale camminato ’no piezzo trovaie ’no arvolo de cierca, testimonio de l’antichetà, confiette de chella zita ch’era contenta, e boccune che dace lo tiempo a ’sto siecolo, ammaro de le dolcezze perdute; lo quale formanno lavra de le scorze e lengua de lo medullo decette a Cinna: “Dove, dove cossì affannata, figliola mia? Viene sotto a l’ombre meie, e reposate!”. Ed essa decennole a gran merzè se scusaie ca ieva de pressa a trovare la mamma de lo Tiempo; la quale cosa sentuto la cerqua le disse: “Tu ne si’ poco lontano, ca non camminarraie ’n’autra iornato che vedarraie sopra ’na montagna ’na casa, dove trovarrai chelle che cirche; ma s’hai tu tanta cortesia quanto hai bellezza, procura sapere che porria fare per recuperare lo ’nore perduto: pocca da pasto d’uommene granne so fatta civo de puorce”.
Almeno un accenno al mito è necessario. La quercia era l’albero sacro a Zeus, il più antico oracolo greco, la quercia di Dodona, si trovava nell’Epiro. Volle andarci anche Ulisse «a sentire / il consiglio di Zeus, dalla quercia alta chioma del dio» per sapere come fare ritorno alla terra dei padri, «se apertamente o in segreto» (Odissea, XIX, 295-296).
E a proposito di Grecia e delle sue divinità, se devo capare una poesia dal bigoncio letterario, non ho dubbi. I versi più memorabili sono di Friedrich Hölderlin; stanno in questo componimento tratto dal Quaderno in quarto di Homburg e intitolato Gli alberi di quercia; fu spedito a Schiller che lo pubblicò in rivista nel 1789. Qui è nella versione di Luigi Reitani:
Dai giardini a voi vengo, figli del monte!
Dai giardini, la natura là vive, familiare e paziente,
Premurosa e tra le premure, insieme agli uomini alacri.
Ma voi, maestosi! Come un popolo di Titani sorgete
Nel mondo più docile e solo a voi appartenete e al cielo
Che vi ha nutrito e allevato, e alla terra da cui siete nati.
Nessuno di voi è mai andato alla scuola degli uomini,
E liberi e lieti vi spingete dalle robuste radici
Nell’alto, e come l’aquila ghermisce la preda,
Con il braccio possente afferrate lo spazio, e alle nuvole
Ampia e lucente si leva la vostra corona piena di sole.
Un mondo è ognuno di voi e come le stelle del cielo
Vivete, ognuno un Dio, insieme in libero vincolo.
Potessi solo tollerare la sudditanza, mai invidierei
Questo bosco e mi unirei alla vita degli altri.
Se alla vita degli altri non mi legasse il cuore,
Che non smette di amare, tra voi abiterei!
Nella contrapposizione tra i giardini e le querce, libere nella natura libera, Hölderlin ci suggerisce che vivere tra gli uomini è come vivere in un giardino in cui la natura è addomesticata, benché vi possa regnare l’amore. L’associazione tra la quercia e il dio della folgore (ah, quanto Hölderlin!), adorato sotto vari nomi da molti popoli indoeuropei, ha fatto di quest’albero l’analogo del frassino Yggdrasill dell’Edda norrena: l’asse del mondo, il sostegno della volta celeste.
Ora mi sovviene che nella mia renitenza a scrivere di querce deve aver agito anche il lutto non ancora del tutto elaborato per le due querce americane (Quercus rubra) sradicate qualche anno fa dalla bufera. Lo spazio costretto del giardino non le ha aiutate a resistere.
Hölderlin chiama Zanzotto, e questa poesia dalle sue Ecloghe che riprende l’immagine simbolica della quercia-padre, e che un po’ mi consola.
La quercia sradicata dal vento
nella notte del 15 ottobre MCMLVIII
Nel campo d’una non placabile
idea,
d’una sera che il vento era tutto,
sì, tutto, e mi premeva
col suo gelo verso il più profondo
di quell’idea, di quel sogno,
tricosa Gordio
da atterrire il filo della spada.
Nel seno d’energia
di quella inibizione nera
che faceva le cose sempre più
sempre più terra nella terra.
Vedi: troppo vicine le mie stanze
sono a te, quercia: resisti
ora, sull’orlo, sta
anche per tutto il mio
mancare.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ti rinvenimmo
attraverso la squallida bocca del giorno,
rovesciata. Nel basso,
empito umbrifero, plurimo,
di calme e aromi che ti spiegavi fin là,
sino alla fonte mai vista del fiume
sino all’infanzia fantastica balbettante degli avi.
Ai nostri abietti piedi
tu ch’eri la vetta cui corre
l’occhio e il tempo al riposo.
E ora il sole allarga aride ali
sul paese svuotato di te.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quercia, come la messe
d’embrici e vetri, la dispersione
per selciati ed asfalti
– nostre irrite grida, irriti aneliti –,
quercia umiliata ai piedi
miei, di me inginocchiato
invano ad alzarti come si alza il padre
colpito, invano
prostrato ad ascoltare
in te nostri in te antichissimi
irriti aneliti, irriti gridi.