Speciale

Il virus tocca anche la stanza d’analisi / Rallentare stanca

18 Marzo 2020

Ma che giorno è oggi?, mi chiedo svegliandomi per l’ennesima mattina in un silenzio surreale. Strade e piazze, come nei quadri di de Chirico, contenitori melanconici attraversati da bizzarri viventi, a volte con cani, sempre più spesso con mascherina. Annunciano un tempo né feriale né festivo, che non ha ancora un calendario. Quello di prima è stato cancellato, le sue pagine si sono volatilizzate, la quotidianità fitta di impegni e scadenze rinviata a un futuro che non si può sapere quando inizierà. Il tempo è entrato in un’altra dimensione, disorienta il vissuto storico al quale siamo abituati. 

Rallentare stanca. Immobilizzare organismi abituati a muoversi a velocità supersoniche abbatte e tramortisce, costringe ognuno a inventare un altro ritmo. Intanto il rovesciamento della Weltanschauung è epocale. Ci viene chiesto di vivere… al contrario. Il diktat del rimanere chiusi a casa propria, comprare quanto è essenziale, non frequentare nessuno e lavorare il meno possibile destabilizza chi è cresciuto con l’imperativo categorico di dover socializzare/produrre/consumare. Un mondo che pulsava da estroverso si ritrova in pochi giorni a dover celebrare le virtù dell’introverso. E la patologia del ritiro, il fenomeno Hikikomori, di ragazzi chiusi in casa collegati con l’esterno solo in modo virtuale, diventa ora la richiesta normalità. 

 

L’emergenza sanitaria rimescola i rapporti tra le generazioni. I figli si preoccupano, come se si fossero improvvisamente accorti che i vecchi non sono perenni, i bambini non si staccano più dai genitori, i giovani adulti sono ritornati nella loro cameretta da adolescenti. Le coppie scoppiano o finalmente si accoppiano, nessuno è abituato a stare insieme notte e giorno. E nella solitudine del single, che esplode in attacchi di panico, si riflette l’angoscia collettiva. 

Contagio è una parola chiave nella storia della medicina e della psicoanalisi. Sappiamo che è stato un giovane medico ungherese che lavorava a Vienna, Ignazio Filippo Semmelweis, a scoprire, nel 1847, che un atto banale come quello di lavarsi le mani, ai tempi con una soluzione di cloruro di calce, poteva evitare al medico, che passava da un reparto all’altro dopo aver avuto contatti con le donne partorienti, di diffondere la febbre puerperale (Marco Belpoliti, Il paziente zero: la Cina e la “spagnola in doppiozero del 24 febbraio 2020). E sappiamo che Freud, per parlare della sua scoperta della talking cure, ha scelto proprio un termine di origine medica riferito al contagio, Übertragung, per descrivere la trasmissione psichica di ricordi, sogni, emozioni da un essere umano all’altro. Per mettere insieme contagio, amore e cura. 

 

L’emergenza attuale è sanitaria, la giusta distanza ci protegge dal propagarsi virale, ma l’isolamento sociale fa sentire un po’ tutti immunodepressi. Perché sono proprio la stretta di mano e l’abbraccio, come dice poeticamente David Grossman in un suo racconto, quello che permette di sopravvivere alla consapevolezza della nostra mortalità.

Il virus tocca anche la stanza d’analisi. Dà consistenza corporea al terapeuta, perché lui stesso si può ammalare – e infatti ora è il compagno d’analisi a chiedere in continuazione “lei come sta?”. Anche il suo studio non riesce a mantenere uno statuto “neutrale”. Forse, la fatica più grande, per le due persone che fino all’altro ieri si parlavano vis-à-vis, è proprio la rinuncia all’idea di un temenos, di uno spazio libero e protetto, con qualche sfumatura di sacralità. Perché ora, non solo i decreti e le ordinanze, ma anche il buon senso consigliano sedute telefoniche o via skype.

 

Opera di Giorgio De Chirico.


E nelle conversazioni particolari dove il tono di voce, un gesto e uno sguardo sono gli strumenti del mestiere, il passaggio drastico al virtuale produce dibattiti serrati tra i colleghi, ma introduce questioni delicate per la soggettività dei singoli. Perché chi skype lo usa sempre non ne vuole sapere per uno scambio intimo, chi non l’ha mai usato è entusiasta della scoperta del mezzo, chi è abituato a chattare si sente in imbarazzo a farlo con il suo terapeuta. Chi ha una malattia cronica insiste nel voler venire, abituato a convivere con il pericolo si sente un po’ onnipotente, mentre l’allarme dà ragione all’ipocondriaco, la sua perenne preoccupazione ora una motivazione ce l’ha.  

 

In questi giorni tutti ci ripetiamo che la paura è un’emozione filogeneticamente condizionata, un’emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo. Per un aspetto è paura (Furcht) di un oggetto determinato, per un altro invece è angoscia (Angst) di un oggetto imprevedibile. Freud distingue tra la paura che “richiede un oggetto di cui si ha timore” e l’angoscia, che “indica una certa situazione che può essere definita in attesa del pericolo e di preparazione allo stesso, che può anche essere sconosciuto” – quel babau del bambino davanti all’ignoto. Lo spavento “designa invece lo stato di chi si trova di fronte a un pericolo senza esservi preparato” ed è colto di sorpresa. “Qual è il nucleo, il significato della situazione di pericolo? Chiaramente la valutazione delle nostre forze rapportate all'entità del pericolo, l'ammissione della nostra impotenza di fronte ad esso: impotenza materiale quando si tratta di un pericolo reale, impotenza psichica quando si tratta di un pericolo pulsionale” scrive in Inibizione, sintomo e angoscia (1925), Opere, vol. X, p. 311.

 

In un’epoca che rappresenta la paura come un fenomeno altro da sé, al punto che la paura diventa l’Altro, il virus toglie ogni illusione. Non ha frontiere, e la ricerca del capro espiatorio – cinese?, tedesco? – si sgretola. E l’italiano brava gente si scopre untore. L’infetto, che muore solo, come è capitato anche a Michel Foucault ai primi tempi dell’Aids, che non ha diritto al funerale, potremmo essere noi. E tutti abbiamo paura di poter finire nella zona proibita, l’ospedale, che da possibile luogo di salvezza è diventato un confuso miscuglio di emergenze imprevedibili. 

La relazione che cura ondeggia, cerca la modulazione adatta alla bisogna, le parole capaci di trasformare in modo creativo una situazione eccezionale. Anche per il terapeuta. A cui può capitare di dover sostenere medici stremati che sognano un’umanità tutta intubata, malati in quarantena che nessuno può visitare, genitori con figli disabili che non possono uscire, genitori con figli in casa che temono di impazzire. Ma la relazione di cura si espande, il senso di vuoto spinge un’infinità di persone a inventare gesti di vicinanza simbolica. Lo stato di allarme cambia la gerarchia, cambia la comunicazione, i telefoni squillano, parenti e amici chiamano e si rassicurano, la libertà è di nuovo partecipazione.

 

Il coronavirus non è una guerra, ma con le “nuove guerre”, così sono stati definiti i conflitti dopo la caduta del muro dell’89, e soprattutto con la campagna contro il terrorismo, ha qualcosa in comune. L’individualizzazione del bersaglio, l’invisibilità del nemico e il fatto che colpisce la popolazione civile. Dopo l’11 settembre 2001 il sociologo Ulrich Beck pronosticava che in futuro toccherà al singolo cittadino dimostrare di non essere socialmente pericoloso in uno spazio giuridico comune e universale, accettato da tutti gli stati: l’autocertificazione evoca il lasciapassare. 

Per dare un senso, alla ricerca di un significato purchessia si discute e ci si accalora tra apocalittici convinti che si tratti di una punizione per quello che facciamo alla terra, catastrofisti e moralisti, tra chi razionalizza e chi minimizza: comune è il presentimento di fare la fine di Icaro. 

 

Intanto il dentro casa ha sussunto il fuori casa, l’interno familiare stranisce. Un anno dopo la fine della Grande Guerra, nel 1919, Freud pubblica un saggio che porta un titolo, come lui stesso dice, difficile da rendere perfettamente in altre lingue. Per l’aggettivo unheimlich (Heim è la casa) dell’originale si potrebbero usare volta a volta espressioni diverse, come inquietante, pauroso, sinistro, lugubre, sospetto. In italiano, anche se il dibattito fra i traduttori è ancora in corso, il titolo è Il perturbante. Nella sua riflessione Freud parte dal testo, del 1906, dello psichiatra Ernst Jentsch, Sulla psicologia del perturbante, secondo il quale per gli esseri umani il perturbante nasce soprattutto da stimoli indecifrabili, che si ripetono a lungo. L’incertezza sulla loro natura può degenerare in terrore, perché la mente cerca di individuare negli elementi circostanti eventuali minacce.

 

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