Roma / Paesi e città

1 Aprile 2011

Abitavo in via Jenner già da due anni ma non l’avevo mai analizzata nelle sue specificità. Una casa è soltanto una casa: sarà la quarantesima, questa? La sessantesima? Non lo so, non le ho mai contate. Per caso, a un certo punto, ho trovato il grande appartamento che mi serviva. Per fortuna un’anziana passeggera dell’unico autobus che ci passa (quando gli aggrada) mi ha spiegato tutto parlando con una sua coetanea: “via Jenner è il paradiso dei vecchi!” Perché? Ma perché c’è tutto! Laboratori di analisi, negozi, marciapiedi discretamente livellati e quasi privi di buche. Dunque abito in una strada di vecchi, direi anche privilegiati rispetto a quelli che abitano dall’altra parte della Gianicolense, nelle strade piene di buche che scendono verso il vespaio di Donna Olimpia, luogo pasoliniano per eccellenza. In via Jenner puoi trovare di tutto: vestiti, letti ortopedici e poltrone elettriche per anziani, due o tre ottici (ma il migliore è senz’altro quello di fronte a casa mia), decine di ambulatori medici e di analisi, parrucchieri per varie tasche e ottimi barbieri. È una via talmente importante nella zona che dispone anche di suonatori zigani e finte statuine di stoffa metallizzata che fanno l’inchino quando passi. I pochi giovani che ci passano e ci abitano sembrano un po’ stupidini. Certe notti d’estate ascolto la conversazione di una quindicina di giovani sul terrazzo di fronte al mio. Sono di destra, credo, ma moderati. Ormai i popoli di (centro)destra e di (centro)sinistra non si distinguono più, sono sostanzialmente identici. Ho avuto modo di guardare l’ultima manifestazione dell’opposizione a piazza del Popolo: gli stessi cantanti, gli stessi presentatori di una qualunque serata televisiva… I ragazzi di via Jenner parlano soltanto di calcio e di ragazze. Ricordo esattamente un frammento della loro ultima conversazione. “Ma tu arriveresti fino alla Prenestina per una che manco sei sicuro che te la dà?” E l’altro: “Ma sì che me la dà cazzo! M’ha telefonato alle quattro de matina…” “Ahò! Ma sarà trenta chilometri!” “E sì, centicinquanta…” “Ah! Ah! Ah!”. Lo stesso tipo di conversazione della piccola colonia USA che abita in zona, anche loro studenti sui vent’anni. Parlano solo di cantanti, attori e parrucchieri, e la sera tornano ubriachi e vomitano sul tram. Sono convinti che nessuno li capisca ma non dicono davvero niente di interessante, mai. Forse noi mandiamo in America i nostri ragazzi più intelligenti e loro in cambio ci mandano i più scadenti. Tra le figure più interessanti della via anche un paio di matti, due o tre disturbatori di ragazze e almeno dodici vetrine dedicate alla biancheria intima, ormai il settore merceologico più rappresentativo d’Italia, identiche da Bari a Venezia. I bar sono numerosi, e, come spesso succede, quello che appena arrivato consideravo il peggiore si è rivelato di gran lunga il migliore. Tutto è indistinguibile, tutto è ugualmente immerso nel cemento e nel traffico.
Il mio sguardo buca il cemento grazie a un balcone, che offre spettacolari tramonti su migliaia di case e di antenne marce, a volte brulicanti di storni. Abito all’ultimo piano, per fortuna ma non per caso. E il balcone a ponente è il luogo della casa che preferisco. Mi piace guardare verso nord, da dove arriva di solito il maltempo. Di notte cerco la stella polare. Mi piacerebbe andare verso nord, vorrei tornarci, ma non nelle stesse città in cui ho vissuto. In altre. Tra le ultime desiderate Modena e Reggio Emilia. Vorrei abitare nuovamente lungo la via Emilia.
Ormai è quasi un gioco con me stesso. Dico che voglio andarmene ogni volta che apro l’ultimo scatolone. Perché c’è sempre qualcosa che non va e l’unica consolazione è il pensiero dolce della fuga. Se non sono dei vicini odiosi a rendermi insopportabili le giornate è la casa stessa a ribellarsi. Ogni casa ha un suo ciclo vitale. Ormai ne ho conosciute tante. Hanno delle crisi periodiche. Tubi, infissi e fili elettrici durano tra i venti e i quarant’anni. Spesso entrano in crisi tutti insieme. E sembrano dirti: vattene, non capisci che è l’ora di andarsene? Soltanto il moderno può farti sentire l’impermanenza di tutte le cose. Il moderno è ciò che diventa vecchio velocemente. Ci pensavo tempo fa guardando dei quadri del futurismo italiano, peraltro piuttosto belli. Le vernici erano crepate, opache, e sembravano di gran lunga più vecchi dei quadri cinquecenteschi che avevo visto poco prima. Non c’è niente di più vecchio delle avanguardie. Quelli della mia età sono cresciuti all’ombra dei “Novissimi” e se ne intendono di novità.“Nuovo” è un aggettivo debole, quasi neutro. In sé non promette niente di buono o di bello. Si può essere nuovi ma scadenti, nuovi e brutti, nuovi e inutili, nuovi e nocivi (il “nuovo” virus suino, per esempio). L’iPhone non ancora uscito rende vecchissimo quello che hai appena comprato. L’azienda stessa se ne vergogna e agli ultimi acquirenti sfortunati offre un bonus di consolazione: purtroppo hai comprato un cadavere. (Scriveva Pasolini: è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita…).
Per questo la casa che vorrei dovrebbe risalire almeno al 1920. Dovrebbero averla costruita delle persone morte da molto tempo, quando sapevano ancora costruire delle abitazioni. Spesso rimpiango una mia casa bolognese. Una casetta di ferrovieri in mattoni rossi, risalente al primo decennio del secolo corso. Poteva vantare un piccolo giardino sul retro e una corrente fresca molto apprezzata nelle notti d’estate. Che trasloco doloroso, che separazione straziante. Avevo posseduto la mia vera casa, per qualche anno. Ricordo che fui poco gentile con la padrona di casa nel momento in cui le restituii le chiavi. Era mia, quella casa, voleva essere solo mia. Non sembrava affatto vecchia, era soltanto bella e confortevole.
Vecchio, e decisamente, è invece questo mio quartiere anche se si fregia dell’aggettivo “nuovo” addirittura nel nome: Monteverde Nuovo. I nomi sono spesso più il ricordo che la descrizione di qualcosa. Questo quartiere, come tanti altri nati nel dopoguerra, è il trionfo della più rozza urbanizzazione che si potesse concepire, ed è molto più cadente e vecchio di Monteverde Vecchio. Case costruite nei primi anni del novecento sono ancora bellissime, case di quarant’anni fa, costruite in pieno boom automobilistico senza garage e con strade strettissime, sono ormai da buttare, anche se gli appartamenti vengono ancora venduti a un milione di euro. Prezzi da papponi, per intenderci, papponi privati e papponi di Stato. Se si vuole un’immagine realistica e spero parziale dell’Italia si potrebbe prendere questa per buona: è carissima ma non vale niente.
Per non parlare della sua enorme fragilità, colposa e dolosa.
Siamo un popolo completamente affidato alla Fortuna, per questo siamo così superstiziosi. Il nostro orizzonte è quello di “una campata”, e in fondo, al di là delle mandolinate e “mammà!” e festival di san Remo ce ne freghiamo anche dei nostri figli e di tutti. Come vecchio nichilista dovrei dirmi soddisfatto. Del resto anche se fa freddo il cielo è azzurro e il sole brilla, e i fiori in terrazza si stanno svegliando. Il mio enorme rosmarino è già azzurro di fiori da settimane. Mi piacerebbe comprargli un vaso più grande per le sue radici profonde, ma ho deciso che lo porterò via con me al prossimo trasloco e deve essere sempre pronto a partire.

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