Romeo a Giulietta al Piccolo: un’occasione sprecata?
Due enormi rami di albero intrecciati invadono il grande palcoscenico. Ricchi di foglie e di gemme, bitorzoluti, rugosi, contorti, come vecchi giganti giurassicipenetrano in tutto l’enorme spazio scenico del teatro Strehler. Sotto di essi un paesaggio desolato come dopo un’esplosione atomica, in un day after: una macchina semi seppellita nella sabbia, resti di qualche impianto in legno, pali, pneumatici, qualche bidone vuoto di mefitici oli carburanti. Questa di Margherita Palli è la scenografia del Romeo e Giulietta di Shakespeare, portato in scena da Mario Martone al Piccolo Teatro di Milano. Si è scritto molto di questa produzione del regista napoletano per l’illustre istituzione teatrale meneghina: il primo Shakespeare di Martone, il primo Romeo e Giulietta del Piccolo. Martone, reduce dallo struggente melanconico entusiasmante film dedicato a Massimo Troisi, Laggiù qualcuno mi ama, presentato a Berlino, torna alla prosa, meno frequentata negli ultimi anni rispetto al cinema e alla lirica, puntando tutto il testo scritto da Shakespeare tra 1597 e 1598 sullo scontro violento tra famiglie contrapposte, tra gruppi di giovani, di bande rivali. Il contorno parla di violenza contemporanea, spesso non motivata daragioni esplicite, se non da una rabbia sorda che porta dall’offesa verbale sempre più devastante allo scontro fisico, alla rissa, all’omicidio. In questo scenario, al quale è sottratta perfino la presenza impotente ma alla fine mediatrice e riordinatrice del Principe, germoglia come una di quelle gemme dell’albero l’amore tra i due ragazzi, affidati all’interpretazione di una coppia adolescente, la Giulietta di Anita Serafini, appena quindicenne, e il Romeo ventenne di Francesco Gheghi. Essi sono circondati da vari giovani attori della scuola del Piccolo Teatro oltreché da interpreti di maggiore esperienza provenienti spesso, come Licia Lanera, Michele Di Mauro e Gabriele Benedetti, da percorsi in parte extraistituzionali.
Martone affida le parole dei due innamorati e del plumbeo mondo di contorno a una nuova traduzione di Chiara Lagani, drammaturga, regista, attrice militante nella ricerca teatrale (Fanny & Alexander), cimentatasi di recente con la bella versione di Sylvie e Bruno di Lewis Carroll (Einaudi). Lagani dà toni prosaici alla lingua degli adulti, violenza d’oggi a quella delle gang giovanili, riservando i ghirigori di concettismi barocchi a un Mercuzio corrusco, privo delle sottili ironie e dei voli metafisici e magici di quello shakespeariano, affidato ad Alessandro Bay Rossi, recente vincitore di un premio Ubu come miglior attore under 35, qui monocorde e al di sotto delle possibilità mostrate in altre occasioni. Ma il vero colpo di genio sta nel conservare al dialogare segreto e notturno dei due innamorati l’andamento letterario sognante iperbolico barocco dell’originale, creando un linguaggio particolare, personale, un intimo idioletto dell’amore sfidante, al chiar di luna, le regole del mondo corrente, una “bolla” (scrive Martone), sanzionata con una battuta infelicemente didascalica affidata a frate Lorenzo: “ma voi così parlate?”.
Tutto è molto spettacolare: gli inseguimenti sui rami dell’albero, la festa a casa Capuleti tra le fronde decorate con lucine di fiera, come le scene d’amore lungo i tronchi, il finale con la morte dei due giovani amanti sotto una pioggia battente che sembra di fango, senza nessun intervento, al contrario che nell’originale, di un’autorità che restauri un senso alla follia di un mondo irrimediabilmente fuori sesto, con il Destino shakespeariano sostituito dal caos contemporaneo, da una meccanica di odio senza ragioni che si nutre di sé stesso. Tutto è di facile suggestione: il pubblico della recita alla quale ho assistito, formato di persone di mezza età e di molti giovani, sembrava conquistato dagli effetti, dalla imponenza invadente della scenografia, dalle corse, dalla violenza degli scontri in scena e, naturalmente, dalla nota storia d’amore e morte. In realtà sembrava di assistere a un’opera lirica dove un’idea concettuale viene sovrapposta in modo forzato, in questo caso forzatissimo, a un testo antico. L’albero diventa un contenitore ambiguo: luogo sia dell’amore dei giovani che degli odi e delle celebrazioni delle due famiglie rivali. A guardarlo, con quella parte inferiore desolata della scena, sembrerebbe piuttosto una rivincita della natura su quel paesaggio di day after, qualcosa di simile a quello che racconta Stefano Mancuso essere avvenuto nella centrale di Chernobyl anni dopo l’esplosione del reattore nucleare, quando piante e alberi hanno ripreso il dominio sul cemento e sulla distruzione. E sempre tra quei rami sembra di vedere spuntare da un momento all’altro un qualche Cosimo Piovasco di Rondò, un Barone rampante che si stacchi, con i suoi sogni e i suoi amori, dal mondo. Peccato che tra quei tronchi si sviluppi anche molto della prosaica vita delle famiglie rivali, perfino con il padre Capuleti che dopo la festa invita a farsi “un aglio olio e peperoncino”.
Tutto questo rinforza i contrasti ma lo fa in modo troppo semplice, con salti continuitra Shakespeare e il mondo come lo conosciamo, banalizzato, dai media. Troppo facile è pure l’idea, ampiamente pubblicizzata, di affidare a due giovanissimi protagonisti i personaggi di Romeo e Giulietta, specie quando non si è in grado di renderla differente da una recitazione media da attori di scuola di teatro. Non sono nelle intenzioni i due di Zeffirelli, ma sembrano due giovani allievi che provano a fare i due innamorati di Zeffirelli. Così come gli altri ragazzi, in scontro di gang rivali, assomigliano troppo ai giovani in stile Gomorra del Sindaco del rione Sanità dello stesso Martone.
Lo spettacolo vive di troppi stridori irrisolti, che non giovano a un’efficace unità, non aggiungendo molto, alla fine, a quello che tutti sappiamo di Romeo e Giulietta. È gustosa l’idea di frate Lorenzo come una specie di svagato fricchettone esperto di erbe, come quella della balia trasformata in zia di Giulietta, tra bollori della carne e ansie materne per la nipote. E così pure il personaggio di messer Capuleti, cinico e spietato, riserva qualche momento interessante, dovuto soprattutto al carisma dell’attore Michele Di Mauro, perdendosi pure in battute e momenti più prevedibili. Questo avviene per tutti e tre questi personaggi affidati a bravi interpreti come Gabriele Benedetti, Licia Lanera e appunto Michele di Mauro: capaci di caratterizzazioni divertenti ma un po’ facili, che non aggiungono nulla alle loro storie di attori sensibili.
Lo spettacolo allude anche, allo stesso modo un po’ superficiale, a un contagio, svelando nei programmi di sala il riferimento alla pandemia che abbiamo attraversato. Ma sinceramente le mascherine chirurgiche in scena in qualche momento e il riferimento appunto al contagio che impedisce a Romeo di avere la notizia che la morte di Giulietta è simulata sono espedienti totalmente esteriori. Il difetto principale sembra quello: Martone non riesce a fare sintesi, a entrare a fondo nella storia e neppure, vincolato agli obblighi di grande spettacolo, a darne una lettura più sintetica e efficace. I motivi si giustappongono uno all’altro senza arricchirsi dei contrasti, sovrapponendosi in modo esteriore al testo, troppo noto per non risultare alla lunga noioso in una tale semplice illustrazione. La contemporaneità diventa una trappola priva di approfondimento, appoggiantesi su elementi troppo noti per risultare rivelatori di qualcosa di profondamente vero, stringente, che ci riguarda.
A proposito dell’uso dei giovani attori, un’amica mi ricordava come sembrino totalmente ignorate in questo allestimento le conquiste del lavoro con l’adolescenza del Teatro delle Albe, quell’amore per i rischi, le paure abissali, gli entusiasmi trascinanti, gli amori assoluti, perfino i conformismi rassicuranti di quell’età. Qui sembra in fondo persa proprio la verità dei giovanissimi, non riducibile a tecnica teatrale, un gioco serio che al teatro strappa la gioia e la vertigine, nutrita degli sperdimenti di un’età che difficilmente si può circoscrivere in regole, sia pure quelle di un grande classico eterno.
L’allestimento, imponente e costoso (676.000 euro, nelle previsioni di bilancio 2023: leggi qui), diventa, al contrario degli ultimi intimi ed efficaci film di Martone, dallo storico, ribelle Capri-Revolution al magnifico Qui rido io, allo struggente Laggiù qualcuno mi ama, una concessione allo spettacolo. Il testo, non messo in questione, è ridotto a quella “inefficacia dei classici” di cui parlava Brecht riferendosi a un loro uso “gastronomico”, pacificato, puramente di intrattenimento. E neppure sono messe in discussione e in crisi le aspettative e i modi di visione degli spettatori, inquinati, dappertutto, dall’attesa della distrazione spettacolare. Di questo abbiamo bisogno? O di nuovi francescani affondi, austeri, liberi, imprevedibili, pieni di forza distruttrice e ricreatrice?
Romeo e Giulietta di William Shakespeare, regia di Mario Martone, in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano fino al 6 aprile: leggi locandina completa e materiali qui.
Le fotografie sono di Masiar Pasquali.