Garage

3 Novembre 2014

Nel suo recente viaggio in California Matteo Renzi non è andato in pellegrinaggio al 2066 Crist Drive di Palo Alto per scattarsi un selfie davanti all’ingresso del bianco garage della famiglia Jobs. Lì, in questo luogo molto americano, West Coast, è sorta la leggenda di Apple, una delle marche più famose del mondo, il brand più prestigioso dell’età del personal computer. La mancata visita non ha nessuna importanza, perché nel brand-Renzi la parola garage probabilmente c’era già: rimanda all’idea di due ragazzi californiani, Steve Jobs e Steve Wozniak, che hanno cambiato il mondo nella autorimessa dei genitori, progettando e assemblando i primi cinquanta esemplari dell’Apple I, usando come progettisti, operai e promoter, se stessi, la sorellina di Jobs, Patti, e i figli dei vicini. Una sorta di bricolage casalingo che è diventata una delle icone del XXI secolo, con i suoi annessi e connessi di leggende metropolitane.

 

Trasformando la Leopolda.05 in un garage, Renzi prosegue la sua politica di marketing, dove il messaggio vale più di ogni altra cosa, quasi avesse mandato a memoria le pagine di Marshall McLuhan o quelle di Roland Barthes sui miti d’oggi. Ma come ha spiegato benissimo un altro profeta del nuovo millennio, Italo Calvino, non serve leggere i classici della letteratura o del pensiero per conoscerli: si sanno già, perché sono diffusi nel dire comune, nell’eco che la società mediatica ci rimanda ogni giorno, da Facebook a Twitter. Lì il medium è il messaggio. Del resto, facendo della stazione fiorentina il nuovo garage dell’Italia futura, dove assemblare con idee, parole e invenzioni prodotte da altri, il nuovo “personal politico”, Renzi non fa che rendere esplicita l’etimologia della parola “garage”, che viene dal germanico “garer”, dove significa “mettere al riparo”, e insieme dal francese “gare”, “stazione”, ma anche “magazzino di deposito”, termine solo in seguito andato a indicare “autorimessa”.

 

Ecco, quello che Renzi utilizza è esattamente questo: un magazzino d’idee e parole già disponibili, esistenti, da lui riusate secondo i precisi canoni postmoderni del rifacimento. Il marketing è infatti l’arte di ben disporre e presentare sul mercato idee date come nuove, nuovissime, di far vedere qualcosa che c’è già, ma in forma inedita. Non è solo vendere, bensì riciclare, riutilizzare. Non si può certo criticare il Presidente del Consiglio, “Matteo Brand”, perché questo è quello che fanno anche i grandi marchi commerciali, dalla Coca Cola a Prada o a Moleskine. La nostra società contemporanea è fortemente mediatizzata; i grandi sistemi di riproduzione, archiviazione, scaturiti dal progresso tecnologico hanno reso il passato altamente riutilizzabile, a disposizione.

 

Come spiega la semiologa Daniela Panosetti in un suo studio, la natura mediata della nostra società ha reso il passato, o meglio “le sue rappresentazioni più o meno emblematiche”, qualcosa di continuamente riattualizzabile e riutilizzabile, e soprattutto qualcosa di esperibile. Renzi alla Leopolda.05 non solo cita, ma agisce il mito del garage, lo rende sperimentabile, perché realizza una performance. La performatività della politica del segretario del Pd è esattamente questo: “dire è fare”. La parola produce realtà. Non ha scoperto nulla di nuovo. Renzi non è un guru, ma un uomo pratico, un politico pragmatico di nuovo tipo, che si muove all’interno della società pervasa da media performativi. Al centro del suo marketing c’è una realtà mediatica: il vintage. Nell’arco di questi ultimi trent’anni, come racconta riguardo alla musica, uno dei campi più trend, Simon Reynolds, in Retromania (Isbn), dalle pratiche di riuso e riutilizzazione di oggetti da parte di nicchie amatoriali, il vintage è diventato una tendenza mainstream.

 

Renzi alla Leopolda.04 aveva portato la Vespa di Corradino Ascanio e la bicicletta di Gino Bartali, parlava dal microfono anni cinquanta di De Gasperi. Oggi invece trasforma la stazione in un garage, che è quello del profeta della Apple, dell’iPhone e dell’iPad, ma anche quello in cui lavora il padre del narratore nelle Correzioni di Jonathan Franzen, luogo dove gli adulti americani esercitano il bricolage. Ma l’immagine richiama anche quella della generazione postbellica, dove nel garage erano custoditi cacciavite, trapani, brugole, chiavi inglesi, tutto il necessario per riparare le cose di casa, compito a cui ogni maschio adulto dell’epoca era votato. Il vintage è l’ideologia non ideologica di Renzi. Ma cosa indica questo termine? Viene dal francese; è la vendemmia, meglio: il vino di pregio di qualche anno, poi la qualità o il valore di un oggetto prodotto almeno vent’anni prima.

 

Nella moda, vintage indica vestiti fascinosi del passato, e più in generale oggetti di culto. Il vintage si distingue dalla nostalgia perché, a differenza di questa, non è un vero rimpianto del passato, ma solo una passione per il passato. Non assorbe in modo totalizzante, scrive Panosetti in Passione vintage (Carocci); “passione debole”, non impedisce a chi la coltiva di combinarsi con altri aspetti della contemporaneità. Il vintage non ha un vero contenuto; è estensivo, malleabile, trasversale, contagioso, rivalorizza cose tra loro contrastanti. Che connessione c’è tra la Vespa di D’Ascanio, emblema del dopoguerra italiano, del boom, e il garage Jobs di Crist Drive? Nulla. Non c’è una sfera di valore cui il vintage sottostia.

 

Funziona nell’istantaneità, sotto la spinta di un impulso. Volatile, presuppone un soggetto distratto. La sua grande capacità è di essere transmediale: s’adatta alla televisione come a una convention elettorale, ai 140 caratteri di Twitter o un videoclip. Le narrazioni seriali sono il terreno migliore dove si sviluppa il vintage. Il brand-Renzi è esattamente questo: non ha un contenuto preciso, cangiante, si modifica come un proteo e pratica lo storytelling, per ora fondato sulla velocità, la giovinezza, l’innovazione. È Smart, e ogni mito d’oggi gli viene bene quando gli viene bene. La tautologia al potere. Dire è fare.

 

Questo pezzo è già apparso su La Stampa

 

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