Lo strano caso del cane nel forno a microonde
Sul tram a Milano. Una signora seduta proprio davanti a me sta parlando con un conoscente in piedi. Gli racconta del furto compiuto in casa sua. Si sono arrampicati sul terrazzino; forzata la finestra sono entrati. Hanno rubato poco o nulla. Non aveva preziosi o denaro, ma le hanno devastato la casa. Commenta: «Nulla rispetto a quanto è accaduto a una mia conoscente. Pensa, sono penetrati nell’appartamento durante una sua breve assenza e, dopo aver rubato quello che potevano, prima di andarsene hanno infilato il suo piccolo cane nel forno a microonde e l’hanno cotto». Il signore in piedi ha un moto di sconcerto. «Non è possibile!», esclama. Al che la signora conferma: «È proprio così».
Sceso dal tram vado a un incontro con alcuni pubblicitari, studiosi di marketing e semiotici. Racconto loro la storia del cane nel microonde. Uno degli astanti consulta subito il suo smartphone. Trova che qualcosa del genere è accaduto; non a Milano, bensì a Chivasso. A fine dicembre c’è la notizia di una pensionata che vive sola in un condominio del quartiere “La Quiete” (così nel sito). Domenica va a messa e in sua assenza la casa è visitata dai ladri. Trovano un centinaio di euro e qualche gioiello. Insoddisfatti per il magro bottino prendono il cane di piccola taglia della pensionata, un meticcio, e lo infilano nel forno a microonde, l’accendono e se ne vanno. Al ritorno la donna sente l’odore di bruciato, entra in cucina e vede la terribile scena. Del gesto inumano, che nell’articolo è legato a un ragionamento sulla legge per maltrattamento degli animali, se ne parla molto nel circondario.
Un altro dei presenti, dopo aver armeggiato con il suo tablet, smentisce la notizia. È una bufala, censita nel sito www.bufale.net; la medesima cosa è stata segnalata nel 2013 a Reggio Emilia e l’oggetto del terribile atto sarebbe stato un chihuahua, ma anche dalle parti di Bergamo circola una simile storia riguardo l’atrocità compiuta nei confronti di un cane di piccola taglia. Si tratta probabilmente di una leggenda metropolitana, simile a quella che è apparsa a inizio anno nel cuneense sull’avvelenamento dei cani e veicolata su Facebook, di cui ha parlato su queste pagine in gennaio Michele Brambilla. La notizia si è rivelata falsa, grazie al lavoro di un collaboratore de “La Stampa”, Francesco Doglio, che è andato a verificare di persona. Sono tutte leggende metropolitane come le ha chiamate negli anni ottanta uno studioso americano di folclore, Jan Harold Brunvand. Storie che si diffondono di bocca in bocca, almeno fino a prima dell’arrivo di internet e dei social network, su cui Brunvard ha scritto diversi libri, alcuni dei quali tradotti in italiano (Leggende metropolitane, Costa&Nolan 1988). Sono casi celebri, come quello del piccolo cane, un chihuahua, per restare in argomento, che in realtà è un topo di grandi dimensioni creduto un cane d’accompagnamento da una signora messicana, e smascherato come tale alla frontiera tra Messico e Stati Uniti.
Si tratta di storie che hanno avuto una circolazione anche prima dell’età moderna, nel Medioevo, di cui si sono interessati il folcloristi europei, e di cui restano tracce nelle raccolte di novelle, e persino nel Decameron. Brunvand ha studiato il modo in cui si diffondono queste leggende, quali gruppi coinvolgono nel loro passaggio, e anche come si trasformano ibridandosi con dettagli, a seconda dei contesti sociali e dei sottogruppi umani che attraversano. Prima della apparizione dello studio di Brunvand in italiano, Italo Calvino ha raccontato su “La Repubblica” nell’agosto del 1980 un’analoga storia: La mano che ti segue. Tornando a casa una notte lungo i boulevards parigini, dalle parti della Bastiglia, una giovane ragazza in automobile viene affiancata da due motociclisti in tuta di cuoio. Hanno pesanti catene di ferro e iniziano a colpire la fiancata della macchina. Il racconto prosegue con il tentativo della ragazza, che è sola sulla strada: non ci sono passanti o autoveicoli in giro, di sottrarsi all’assalto dei motociclisti. Calvino racconta benissimo l’angoscia della ragazza. In un ultimo scatto a un semaforo, lei percepisce di aver colpito qualcosa, sente qualcosa di strano nel veicolo. Semina gli inseguitori e arriva nel garage sotterraneo. Scende e si accorge che una delle catene dei motociclisti è rimasta impigliata nella ruota. Al termine c’è qualcosa. Si china e vede l’oggetto: una mano. Un polso troncato stretto al braccialetto d’acciaio cui è legata la catena. Chiama la polizia. Cercano negli ospedali l’uomo, ma nessuno è stato ricoverato per la mutilazione dell’arto superiore.
La storia è stata raccontata allo scrittore da un suo conoscente. Calvino dice di aver fatto delle indagini e presume che sia vera, ma la sente raccontare anche da altri e in altri quartieri di Parigi. Una leggenda metropolitana?, si chiede. La sua opinione è che sia una storia che si ripete nella realtà, tale e quale in diverse città, una storia «dove tutti gli elementi in questione sono presenti e basta poco perché si combinino in questa sequenza, come una composizione chimica in una provetta, così come si ripetono intorno a noi tante storie più raccapriccianti e insensate di questa». In realtà questa storia della mano ha anche un’origine colta: si trova in una novella di Gérard de Nerval, La mano incantata del 1832 e anche in un racconto di Guy de Maupassant, La mano, successivo di cinquant'anni (1883), incluso da Calvino in un libro da lui curato, Racconti fantastici dell’Ottocento (Mondadori 1983). La letteratura si è ampliamente alimentata di queste leggende nel corso dei secoli.
Dopo che ho raccontato la storia del cane e del microonde, un giovane studioso ha detto di aver visto in un film la medesima scena. Non si ricordava in quale pellicola, ma era chiaro che qualcuno lo aveva fatto dopo aver visto il film, o invece il film lo metteva in scena dopo che qualcuno l’aveva fatto e poi raccontato in giro. Tutto il nostro immaginario ora viene da lì; le leggende metropolitane si alimentano delle immagini che vediamo al cinema o in televisione, anche se le storie poi corrono di bocca in bocca come mille anni fa. In fondo, social network o no, anche in questo non siamo molto cambiati.
Questo articolo è apparso su La Stampa.