Rushdie: il romanzo senza morale

31 Marzo 2023

Salman Rusdhie, nel corso di tutta la sua vita, è sempre stato un romanziere esule, espatriato, un émigré dalle labili frontiere. Per tutta la sua vita ha fatto parte di una minoranza. Nato a Bombay da una famiglia musulmana di lingua urdu nell’anno della dichiarazione di indipendenza dell’India dall’impero britannico (1947), si è trasferito poi, dopo la guerra tra India e Pakistan, a Karachi e nel 1961 in Inghilterra. Qui, come inglese di origini asiatiche, ha vissuto a Londra fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, per poi, a dieci anni dalla fatwa proclamata dal regime iraniano nel 1988 all’uscita del suo romanzo I versi satanici, trasferirsi a New York (fatwa che si credeva finita, ma che, rinnovata dagli ayatollah iraniani nel 2019, ha prodotto il grave ferimento di Rushdie il 12 agosto del 2022 da parte di un giovane sciita del New Jersey).

L’autore ha spesso ricordato – e realisticamente immaginato in I figli della mezzanotte (1981) – come la Bombay della sua infanzia e adolescenza, “una città costruita da stranieri su terra bonificata”, a differenza della Mumbai dei giorni nostri, preda come gran parte dell’India del soverchiante nazionalismo indù, era una metropoli in cui vivevano mescolate molte religioni e culture: cristiana, parsi, buddista, musulmana, sikh. Una metropoli dove l’ideale laico fondato su una concezione relativistica della cultura indiana e del suo variegato ventaglio di tradizioni, soprattutto per coloro che come Rushdie vivevano in ambienti religiosi non particolarmente rigidi, non era visto come un tabù, ma anzi come qualcosa a portata di mano. Anche se non lo era davvero.

Tuttavia, il fatto che sin da ragazzo il suo punto di vista non sia stato quello della prospettiva assoluta di una fede lo ha, una volta sbarcato in Occidente, reso più permeabile all’arte del romanzo. Fede e romanzo non possono andare d’accordo. Tutte le religioni sono premoderne, mentre il romanzo è moderno. Tutte le religioni possiedono una morale, mentre il romanzo non ne possiede nessuna. Anzi, come ha detto una volta uno scrittore molto amato e spesso citato da Rushdie (tanto che a uno dei suoi due figli ha dato lo stesso nome), Milan Kundera, il romanzo è “il territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale”. Questa è la sua unica morale! La religione ammette raramente il riso, avvertendolo come una profanazione, mentre il romanzo, dove l’umorismo – creazione moderna – aleggia continuamente, si rivela una costante profanazione, una costante desacralizzazione, un costante spostamento della frontiera del sacro. In questo senso nessuna teocrazia, come nessun regime autocratico o dittatoriale, potrà mai accettare la “verità romanzesca”, perché nel romanzo la verità unica è bandita, non ha potere, e tutte le verità vengono dissolte nell’acido dell’ambiguità che trasforma ogni molecola di certezza in un universo di incertezza.

Prima di condannare a morte l’autore dei Versi satanici, il regime di Khomeini, nato apertamente con il proposito di combattere i Tempi Moderni, ha condannato a morte il romanzo, una delle sue più grandi creazioni. Perciò, allora come oggi, non si tratta di ergersi a paladini dei grandi principi: la libertà di pensiero, la difesa dei diritti umani… Sì, certo, chi mai oserebbe metterli in discussione? Chi mai lo farebbe nelle nostre società cosiddette avanzate in cui si confonde libertà con liberazione e in cui l’esistenza umana, di emancipazione in emancipazione, non è più in grado di arretrare davanti a nessun tabù, a nessun ordine sociale, a nessun limite morale o estetico stabilito al di fuori di essa? Tuttavia bisogna ricordarsi che la condanna di Rushdie non è stata proclamata perché Rushdie ha attaccato l’Islam, perché ha oltraggiato un popolo di fedeli, perché ha bestemmiato, perché ha offeso una religione e il suo profeta, ma perché ha scritto un romanzo in cui, a ben vedere, la modernità dell’Occidente non è mai descritta come superiore rispetto alle società musulmane, dove anzi sia l’una che le altre vengono osservate attraverso lo stesso scetticismo e la stessa irriverenza critica, attraverso quello stesso sguardo al vetriolo, proprio del romanzo, che corrode ogni principio e ogni verità.

Ridicoli e patetici, infatti, sono nel romanzo di Rushdie sia i barbuti religiosi che vanno in TV a divulgare i testi sacri, sia i benpensanti della sinistra occidentale, infaticabili promotori dell’industria del divertimento, che si lanciano in campagne millenaristiche in difesa della sacra libertà di espressione. Il problema è che, allora come oggi, né i religiosi di ogni fede – musulmani, cristiani, indù –, né coloro che si ritengono i depositari di ogni volontà emancipatrice dell’Occidente sono in grado di tollerare e tanto meno di comprendere la libertà del romanzo. Se per i primi è una bestemmia, per i secondi è amorale. È così dai tempi di Rabelais e Cervantes.     

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Nell’Occidente secolarizzato si può giocare con la fede. Sì, ma solo dai tempi di Rabelais e Cervantes. In Oriente no. O non del tutto. In Oriente non c’è stato nessun Rabelais e nessun Cervantes. Ma in Oriente si può giocare con la fede se la tradizione mitologica, religiosa, epica e lirica di quei paesi entra in contatto con la prosa del romanzo occidentale. E ciò vale per l’Africa e, in una certa misura, per l’America Latina. Il romanzo è stata l’arte che grazie al suo humour, alla sua ironia, alla sua capacità di non innalzare barriere morali sui personaggi ha contribuito a rendere il romanzo un luogo ludico, un luogo di immaginazione, di critica e di libertà. Per questa ragione storica tutti i romanzieri sono costretti a fare i conti con l’arte del romanzo moderno occidentale. Ed è quello che ha fatto Rushdie sin dal suo primo romanzo, I figli della mezzanotte, dove l’autore, da tempo lontano dalla sua patria, ha cercato di ricostruirla. Ma attraverso quali mezzi? Tutti quelli che aveva a disposizione, e cioè sia prendendo a piene mani dalla sua memoria personale, naturalmente, ma anche dalla religione, dalla cultura, dalla storia, dalle tradizioni religiose della sua India natale, sia attraverso tutti gli artifici che la storia del romanzo occidentale gli metteva sul piatto.

Del resto, gli scrittori e i romanzieri occidentali si sono sempre sentiti liberi di scegliere temi, ambientazioni e forme che provenivano da altre civiltà, anche molto lontane. E che dire dei pittori e dei compositori? Quanti “orientalismi” si contano in Europa solo negli ultimi due secoli? Da un po’ di tempo dobbiamo fare i conti con il fenomeno inverso e domandarci: quanti “occidentalismi” abbiamo vissuto negli ultimi sessant’anni? Tuttavia, il romanziere non occidentale che desidera far parte della storia del romanzo sa che il piatto è succulento e che se vuole sedersi a banchettare dovrà far accomodare al suo tavolo molti commensali che non appartengono alla sua civiltà. Nel caso di Rushdie, senz’altro Rabelais, Cervantes, Sterne, Dickens, Machado de Assis, Kafka, Grass, García Márquez, Kundera… La scelta, per metà conscia e per metà inconscia, determinerà il suo albero genealogico e permetterà a noi lettori di individuare il ramo del grande albero del romanzo in cui le sue opere, come tanti frutti, matureranno. 

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Una volta Rushdie ha scritto che Dickens gli è sempre sembrato uno scrittore indiano, tanto che tra la Londra del XIX secolo descritta dal romanziere inglese e le grandi metropoli sovraffollate, sudice e caotiche dell’India della sua adolescenza non vi trovava alcuna differenza. Ma c’è un’altra porta attraverso cui il genio di Dickens è entrato nell’opera di Rushdie, soprattutto nei suoi primi cinque romanzi, da I figli della mezzanotte a La terra sotto i suoi piedi (1999), attraverso La vergogna (1983), I versi satanici (1988) e L’ultimo sospiro del Moro (1995). La vera novità di Dickens, secondo Rushdie, è la sua “originale combinazione di sfondi realistici e di primi piani surreali”. Dickens, in altre parole, se da una parte è in grado di cogliere i dettagli dei luoghi e dei costumi sociali attraverso una lente realistica tanto clinica quanto spietata, dall’altra crea personaggi assolutamente “sproporzionati”, irreali, inverosimili rispetto allo sfondo in cui sono collocati.

Questa combinazione dickensiana composta di attendibilità storica dei luoghi e dei costumi e di sproporzione fantastica dei personaggi è quasi sempre presente nell’opera di Rushdie: si pensi appunto al primo romanzo, dove sullo sfondo di un’India realistica prende forma la storia irrealistica dei bambini nati la mezzanotte della proclamazione dell’indipendenza indiana e dotati, grazie a questa coincidenza, di poteri magici. O al secondo, La vergogna, in cui il protagonista, Omar, è apparentemente figlio di tre madri e di nessun padre, dal momento che tre sorelle, fecondate durante la stessa festa non si sa bene se da tre uomini o da uno solo, hanno partorito nello stesso momento. Solo che Rushdie non è Dickens. La sua immaginazione proviene da tutt’altre latitudini. Proprio così: l’immaginazione ha una geografia che la storia del romanzo non può ignorare. Così nei suoi romanzi, a poco a poco, lo sfondo realistico comincia a stratificarsi, a far coesistere tempi storici diversi (come in I versi satanici), a diramarsi in molti luoghi del pianeta (come in L’ultimo sospiro del Moro), tanto da essere fagocitato dall’irrealtà delle situazioni, oltre che dalla folla sorprendente, burlesca, addirittura metamorfica dei suoi personaggi.

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Ci si trova immersi in una variante di quel che Alejo Carpentier, il fondatore del romanzo latinoamericano moderno, ha chiamato a suo tempo (1948) il “real maravilloso”: una sorta di dimensione epica e iperbolica dove l’insolito e lo straordinario sono all’ordine del giorno, molto lontana non solo da ogni realismo europeo, ma anche dal surrealismo, dove il meraviglioso era sempre premeditato, costruito ad hoc per produrre una sensazione singolare. Ma non è tutto. Penso a Saleem Sinai, il protagonista di I figli della mezzanotte, parente stretto di molti altri narratori dei libri di Rushdie. Si tratta di un narratore inattendibile e il romanzo, per quanto le vicende storiche vi siano descritte con dickensiana precisione, non si può certo prendere come uno studio sull’India dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Non tutto ciò che Saleem ricorda è storicamente verificabile (anche se molto lo è), ma non per questo è meno “vero”. I suoi ricordi sono spesso incompleti, falsi, condizionati dal suo stato psicologico spesso alterato.

Quando si dice che la memoria gioca brutti scherzi, senza saperlo andiamo al cuore della lezione che Rushdie ha appreso una volta per tutte all’inizio della sua carriera letteraria. Nabokov, in fondo riecheggiando a suo modo il precetto antico per cui Mnemosyne è la madre di tutte le arti, si domandava: “che cos’è la memoria se non una forma dell’immaginazione?”. Ogni evento ricordato, ricostruito dal ricordo, si trasforma in un evento immaginato. La memoria ci gioca brutti scherzi nella misura in cui essa è inestricabilmente legata al gioco dell’immaginazione. Ed è proprio grazie agli scherzi che l’immaginazione gioca alla memoria che ogni ricordo o evento vissuto può essere narrato. Di più. L’immaginazione serve ad arricchire ciò che abbiamo vissuto, non a eluderlo o a evaderne. Ciò che si è soliti chiamare meraviglioso è qualcosa di profondamente incastonato nella realtà, tanto che spesso solo attraverso una metafora si riesce con un colpo di piccone ben assestato sulla dura roccia delle abitudini linguistiche a cogliere immagini più reali della realtà, più vere della verità.

Perciò nessun realismo, nessun naturalismo, nessuno strabuzzamento degli occhi sul mondo delle apparenze può fare a meno dell’immaginazione, dell’invenzione, del gioco. E questo sin dai tempi di Rabelais e Cervantes nelle cui opere verosimile e inverosimile si incontrano e si lasciano come due innamorati inquieti e gioiosi. E ciò con buona pace di tutti coloro che hanno speso e spendono il loro tempo – e oggi in epoca di autofiction e doc-fiction ancor più di ieri – nel cercare una frontiera tra realtà e immaginazione. Nessuna frontiera, o meglio solo frontiere erranti, misteriose, invisibili. Solo in un’epoca così priva di immaginazione come la nostra, l’immaginazione si è ridotta ad essere una sorta di abito di scena indossato dai fatti e i fatti riportati immediatamente alla biografia dell’autore. Se scrivi che a qualcuno in sogno è apparso Maometto e poi da questo sogno si trae un film di bassa lega dove questo qualcuno interpreta il ruolo dell’Arcangelo Gabriele, ti accuseranno di oltraggiare l’Islam.

Se scrivi di un adolescente che si spreme il “pisello nella tazza del gabinetto o nei panni sporchi del portabiancheria” ogni giorno per un numero imprecisato di volte ed è figlio di una coppia di ebrei che gli confezionano ogni giorno sensi di colpa per un numero imprecisato di volte e non capisce perché lo fanno tanto da chiedersi se tra il suo pene e la loro pena non ci sia di mezzo la vergogna, lo scherno e gli insulti che i suoi consanguinei da più di “duemila piacevoli anni” subiscono in ogni parte del mondo, sarai tacciato di odiare la tua razza e ti tratteranno come un traditore. Se poi scrivi di un nano di nome Oskar rinchiuso in un manicomio e con la mania di rullare tutto il giorno su un tamburo, è chiaro che hai un complesso di inferiorità e che il tuo tam-tam ossessivo non farà che rovinare la tua vita e quella degli altri. Di recente Rushdie – parlando della letteratura, e in particolare del romanzo, come luogo privilegiato in cui trova posto ogni contraddizione, in cui la complessità della natura umana può simultaneamente dire sì e no – ha ricordato che l’equivalente arabo della formula “c’era una volta” è “ken ya ma kan”, cioè “era così e non era così”. Capite? Questo paradosso si trova al centro di ogni romanzo, di ogni finzione, dove le cose possono essere in un modo e in un altro e dove esistono parole che raccontano fatti in cui si può credere profondamente, sapendo allo stesso tempo che non esistono, che non sono mai esistiti e che non esisteranno mai. 

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Non è un caso allora se le ultime frasi (in realtà alcuni versi) pronunciate da Pampa Kampana, la protagonista dell’ultimo romanzo di Rushdie, La città della vittoria (2023), sono: “Quello che loro hanno fatto, o pensato, o provato, non esiste più/Restano solo queste parole che descrivono quelle cose/Verranno ricordati nel modo in cui io ho scelto di ricordarli/Le loro gesta saranno conosciute solo nel modo in cui sono state raccontate […] Le parole sono le uniche vincitrici”. Ma non è neppure un caso l’incipit del romanzo: “L’ultimo giorno della sua vita, all’età di duecentoquarantasette anni, la poetessa cieca, artefice di miracoli e profetessa Pampa Kampana ultimò il suo immenso poema narrativo su Bisnaga”. Vi ricordate come nasce Gargantua? Rabelais lo fa entrare nel mondo dall’orecchio di sua madre. Vi ricordate come Gregor Samsa un mattino si ritrovi nei panni di un insetto? Vi ricordate come Gingio, il protagonista di Ferdydurke di Gombrowicz, abbia anche lui un risveglio assai singolare? La sera prima aveva trent’anni e il giorno dopo, sedicenne, è trascinato in una classe di liceali. Vi ricordate quanti anni ha Ursula, la matriarca di Macondo alla fine di Cent’anni di solitudine? Centoventidue. Rushdie non è da meno dei suoi predecessori e stabilisce con i suoi lettori fin dall’inizio un patto: tutto ciò che leggerete in questo romanzo non è serio. Si tratta di un’invenzione ludica, di un grande gioco dove sono io, il romanziere, a dettare le regole del gioco.

Quello che leggerete non è realistico, o almeno non rientra nei canoni della verosimiglianza. Tuttavia, tutto qui è realisticamente immaginato: l’India del XIV secolo con le sue divinità e i suoi scritti sacri; Pampa Kampana che dopo la morte della madre, a nove anni, “riceve la benedizione celeste che avrebbe cambiato tutto”, tanto che dalla sua bocca esce la voce della dea Pampa che le conferisce enormi poteri e le rivela che grazie a lei nascerà una grande città, Bisnaga, “la città della vittoria”; Bisnaga la cui popolazione prende vita attraverso ciò che Pampa Kampana sussurra ad ogni suo abitante: “questo era il paradosso delle storie sussurrate: non erano altro che finzioni, ma creavano la verità”; l’alternarsi dei governanti, delle battaglie vinte e perse; il succedersi degli amanti stranieri di Pampa, dei suoi matrimoni e della sua discendenza; le sue lotte contro i fanatici del Tempio per imporre un governo libero dove un giorno “una donna potesse essere Re”; l’esilio in una foresta piena di meraviglie dove Pampa, destinata a vivere quasi in eterno e dall’aspetto sempre giovane, vede le sue figlie invecchiare e morire; il suo ritorno a Bisnaga sotto le mentite spoglie di un nibbio (in questo romanzo ogni metamorfosi è possibile); la gloria e il riconoscimento, dopo aver vissuto da rivoluzionaria per anni in clandestinità nascosta in un buco dietro una credenza, del suo status di “madre della città”; e infine, resa cieca da chi proprio lei aveva posto al governo della città, il suo ritiro in solitudine nel corso del quale scriverà, prima di morire, “il capolavoro immortale chiamato Jayaparajaya” costituto di ventiquattromila versi la cui traduzione in prosa ad opera di un narratore anonimo, che di tanto in tanto fa capolino nel libro, è il romanzo che abbiamo appena finito di leggere. Che cosa dire ancora?

Che il romanzo è un inno alla donna, alla sua capacità di amare, di creare, di non rimanere impigliata nel tempo degli orologi né a una nozione di realtà fin troppo convenzionale, alla sua capacità di generare e di autorigenerarsi, di trasformarsi, foss’anche in un nibbio, al fine di ottenere un regno dove tutti, uomini e donne, siano uguali, non importa quali dei adorino o a quali caste appartengono? O si tratta di una lunga preghiera laica scritta dalle profondità del tempo – un tempo che può essere compresso, allungato, piegato da un sussurro della protagonista – perché giunga alle orecchie di tutti i regnanti di Occidente e di Oriente? C’è chi, visti i tempi, dirà che si tratta di un romanzo femminista. E, tutto sommato, penso che a Rushdie non dispiacerà. Quanto a me, leggendo e rileggendo La città della vittoria, credo di aver fatto una scoperta che potrebbe incrinare tutto quello che ho cercato di dire fino ad ora. Vi ricordate quando parlavo di fede e romanzo che non possono andare d’accordo?

Ora, pensate a uno scrittore indiano di nome Salman Rushdie (ma lo stesso si potrebbe dire per uno scrittore africano come Achebe, per García Márquez o Carlos Fuentes, per uno scrittore cinese come Acheng, o giapponese come Oe Kenzaburo) che deve fare i conti con una nazione dalla cultura plurimillenaria, abitata da più di un miliardo di persone che parlano più di dodici lingue e che adorano più di trecento milioni di divinità. Formatosi in un mondo dove, per la forza stessa dei numeri, il quotidiano e il soprannaturale si incrociano continuamente ad ogni angolo di strada, questo scrittore non solo non potrà mai concepire la realtà come uno scrittore europeo, ma ogni realismo gli sembrerà assai inadeguato per esplorare il mondo. Si sentirà obbligato perciò, allo scopo di essere credibile agli occhi di quel miliardo e passa di individui che abitano il suo paese e che, fra l’altro, non possiedono in nessuna delle dodici lingue ufficiali neppure un vocabolo per esprimere la nozione di “laicismo”, a creare una forma romanzesca in cui, passato e presente, miracoloso e quotidiano coesistano senza soluzione di continuità, in cui personaggi high tech e dalla cultura superbamente cool  coesistano con personaggi che da duemila anni adorano e portano in processione la Gau Mata, la Vacca sacra, dea della fertilità e simbolo della generosità della Terra.

E tutto ciò sebbene lo scrittore in questione, che ha smesso a quattordici anni di credere in Dio, Satana e Allah, ogni volta che da New York torna alla sua Bombay (ora Mumbai) non smetta di imprecare lungo il tragitto che dall’aeroporto lo conduce all’hotel quando il taxista è costretto, nel mezzo del soffocante traffico cittadino, a fermarsi ogni chilometro per lasciar passare l’indolente sacro bovino. Con tutto ciò voglio dire che per questo scrittore indiano la fede non è solo un problema religioso, ma è soprattutto un problema formale. Pampa Kampana vive duecentoquarantasette anni perché crede che la dea Pampa sia entrata dentro di lei. Per lei la dea Pampa non è un simbolo, ma un evento ordinario, quotidiano. E tutto il nostro razionalismo occidentale, padre di tutti i nostri realismi, deve mettersi l’anima in pace!          

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