Santarcangelo dei Teatri infrasottile

29 Luglio 2014

Sono stato invitato al Festival di Santarcangelo dal collettivo Tipografia Testamento all’interno di un suo progetto che si articolava in dieci interventi di altrettanti invitati sparsi in giorni diversi del Festival sul tema dell’effimero, dell’appena visibile, della traccia minima. Hanno pensato a me a partire dalla lettura del mio libro sulla polvere in arte e io ho raccontato loro della mia ricerca attuale intorno all’idea di “infrasottile” che ne è per molti versi lo sviluppo.

 

                        Il marchio del collettivo Tipografia Testamento

                   Il marchio del collettivo Tipografia Testamento

 

L’infrasottile, vi ricordo, è un’idea di Duchamp che indica quei fenomeni, materiali, caratteri, che sono appena percepibili ai sensi, al limite delle categorie e delle distinzioni, eppure reali. Gli esempi che ne fa sono il vetro, naturalmente, la polvere appunto, il fumo, l’odore della bocca che “si sposa” con quello del tabacco nel fumo esalato, il cangiante, il marezzato, il movimento, il possibile e molti altri. Questa dimensione ultrasottile è per lui l’indizio, così come è percepibile, della continuità del reale tridimensionale in un’altra dimensione, quarta, di cui il reale sarebbe allora una sorta di proiezione come l’ombra bidimensionale lo è di un corpo tridimensionale.

 

Ho pensato allora di proporvi un percorso delle giornate passate a Santarcangelo alla luce di questo tema su cui, insomma, ero necessariamente sintonizzato.

 

Il primo spunto mi è arrivato per caso. Assistevo all’intervento dell’artista Riccardo Baruzzi che esponeva un piccolo quadro all’interno di una Fiat Uno e me ne parlava in termini di “dispositivo”, quando vedo passare due signore che, senza fermarsi, buttano un’occhiata dentro la Uno. Ho pensato: per noi è un’operazione artistica ma per loro è una strana cosa inclassificabile, di cui colgono una differenza da ciò a cui sono abituati ma senza categorizzarla: una specie di readymade al contrario.

 

L’intervento di Riccardo Baruzzi

L’intervento di Riccardo Baruzzi

 

È uno dei dilemmi del tipo di arte che interviene nel pubblico, nel relazionale, nel performativo, nel sociale, che in questa edizione del Festival è privilegiata: fino a che punto distinguersi come arte? fino a che punto da questo dipende la sua efficacia? Il suo vero argomento in fondo è proprio questo limite.

 

Poi vado a vedere Survivre, nato dalla collaborazione di due compagnie, Menoventi e Pardès Rimonin, e di nuovo mi pare che vi sia qualcosa di infrasottile. Un sapiente lavoro di regia, di ripetizione, di taglio e montaggio, trasforma un melenso film come Laguna blu, punto di partenza dello spettacolo, in un’opera metafisica in cui ci si interroga sulla vita, la morte, il comprendere, la casa e altro ancora in pochissime battute, grande semplicità di mezzi, materiali tutti preesistenti, “trovati” – quasi “found theatre”.

 

Menoventi/Pardès Rimonin, SurvivreMenoventi/Pardès Rimonin, Survivre

 

La serata avrebbe dovuto chiudersi con The Nature di Mårten Spångberg, che però era troppo lontano e io ero troppo stanco per andarci a piedi. Bastino i riferimenti nella guida a cogliere ciò che faceva al caso mio. Leggo in particolare: “La Natura è lì, che noi la guardiamo o no. [...] Così Spångberg intende la danza, come qualcosa che esiste a prescindere dalla performance. [...] Godetevi la danza senza pressione, esisterebbe comunque, a prescindere da voi”. Naturalmente questo lo si può dire solo se c’è qualcuno che lo ascolta, ma non è una contraddizione bensì un vortice: di fronte a te danzo come se tu non esistessi, così anche tu puoi fare altrettanto e questa è la danza.

 

Mårten Spångberg, The Nature. Foto Ilaria ScarpaMårten Spångberg, The Nature. Foto Ilaria Scarpa

 

È uno degli aspetti più importanti dell’infrasottile: due cose si mescolano, “si sposano” dice Duchamp, a formarne una che diventa di fatto l’unica realmente esistente.

Così leggo e mi raccontano anche dell’intervento di Italo Zuffi, che ha diffuso la registrazione sonora dell’inaugurazione di una mostra durante la sua inaugurazione, mentre lui si mescolava tra gli intervenuti chiacchierando come tutti. Per me i due sonori si sono “sposati”, così come l’artista con il pubblico.

 

Tutto immerso in pensieri del genere, il giorno dopo, prima che gli spettacoli inizino, giro un po’ per la cittadina, salgo alla rocca e ridiscendo alla Collegiata. Qui c’è un bellissimo Crocifisso di pittore riminese del Trecento e poi un Cagnacci notevole. Si tratta di un quadro commissionato dalle gilde dei falegnami e dei fabbri con i loro santi protettori, san Giuseppe e sant’Eligio, e al centro Gesù bambino. Ebbene quest’ultimo tiene in mano un martello che proietta una nettissima quanto conturbante ombra proprio al centro del suo petto. Ho trovato il dettaglio misterioso, più che un simbolo – evidentemente della croce – quasi un messaggio in codice, un’ombra duchampiana.

 

                Guido Cagnacci, Gesù bambino, san Giuseppe e sant’Eligio, 1635. (dettaglio)

Guido Cagnacci, Gesù bambino, san Giuseppe e sant’Eligio, 1635. (dettaglio)

 

Poi è stato il mio turno. Situazione molto carina, come una conversazione nella piazza di un gruppo di persone che avevano portato le loro sedie nella zona ombreggiata per ripararsi dal caldo. Ho raccontato della polvere e dell’effimero, come mi era stato chiesto, e ho portato il discorso sull’infrasottile, come desideravo. Ho concluso dicendo che io stesso in quella circostanza ero praticamente un readymade di Tipografia Testamento, come una delle dieci parti della loro opera per Santarcangelo.

 

Ho visto altri spettacoli e installazioni sparse per la cittadina, ho seguito altri incontri, ma senza più trovare spunti di infrasottile. Forse qualcosa in Bluemotion Favole al telefono, con i telefoni sistemati sul palcoscenico da cui ascoltare appunto le fiabe mentre lo spettacolo diventi tu – e il sommarsi dei rumori della composizione dei numeri telefonici e dei brusii delle voci dall’altra parte dei fili. Ho continuato invece a sentirmi un readymade per tutto il resto della serata, fino allo scoccare della mezzanotte, che mi è parsa una buona scadenza e mi sono ritirato, come si suol dire, nelle mie stanze.

 

Il giorno dopo, domenica, sono ripartito. Quasi tutta la mattina e buona parte del pomeriggio spesi tra attesa e viaggio in treno. Si sa come sono questi momenti se si è da soli, come nel mio caso: si resta sospesi nella scia di ciò che si è visto e pensato nei giorni precedenti, come se tutto quello che si ha intorno sia... non dico irreale, ma diversamente reale, come se si fosse dentro un film tridimensionale, diciamo pure dentro una pièce teatrale, in cui passi, a cui assisti dall’interno.

 

Per la verità ancora qualche accenno di infrasottile mi è sembrato di averlo colto nell’incontro con il gruppo Motus. Mi interessa parlarne perché l’infrasottile vi sarebbe messo alla prova delle grandi questioni sociali e politiche. Vi si è parlato di un rifiuto dell’“iconografia” d’effetto e della spettacolarità-spettacolarizzazione, ma al tempo stesso anche del “teatro documentario”, alla ricerca di una modo diverso di vivere e affrontare appunto le questioni e le vite altrui, che non facciamo dell’“altro” né il diverso irraggiungibile né il rimorso invece del rimosso.

 

Occorre uscire dalle opposizioni, si è detto, e recuperare un certo misto di distanza e di condivisione per reintrodurre una dimensione “poetica”. E per farlo accade che saltino le categorie, non si riconoscano più per come vi si è abituati, non si sa più distinguere tra prove, lavorazione, spettacolo finito, ruoli ecc. C’è qui qualcosa che mi sembra faccia anche al caso mio. Chiudo dunque così.

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