Sociopatici senza affetto
Fare people-watching è bellissimo, mi piace guardare la gente, sono uno di quelli che quando annunciano che il treno o l’aereo è in ritardo ha come un (ragionevole) moto di gioia che supera il disappunto, perché quel ritardo mi regala ancora un po’ di tempo per stare a osservare il prossimo, a guardare come i miei simili stanno al mondo indaffarati dietro ai loro sentimenti, affanni, paure, desideri, così in disordine, nel caso della vita. È un esercizio per me confortante, mi dà l’idea di fare parte di quel flusso globale in cui ciascuno di noi porta un suo contributo specifico. E ognuno contiene i suoi giochi, le sue battaglie interiori che lo portano lì, insieme a me, insieme a noi tutti. E l’immaginario si attiva, si allena, e guardando gli altri succede che ti porti a casa dei suggerimenti, delle buone idee, per continuare. Acconciature e abbigliamenti, naturalmente, ma anche espressioni motorie, sguardi, reazioni minime davanti alle reazioni minime altrui, toni della voce. È come stare davanti a diverse ipotesi di essere che gli altri sono rispetto alla tua, ipotesi sulle quali proietti liberamente il tuo Io possibile. Inutile aggiungere che la contestualizzazione porta ulteriore ricchezza all’esperienza: il people-watching a Lagos è altro rispetto a quello che si fa a Washington o a Trapani. D’altro canto sono cose che si studiano, le neuroscienze se ne occupano già da un po’ (vedi qui una bibliografia minima).
Con questo atteggiamento, da osservatore generico del prossimo, ho letto il libro di Michele Mellara, Sociopatici in cerca d’affetto (Bollati Boringhieri, 2023, pp.185), che è uno splendido esempio di come si possa analizzare socialmente la nostra epoca con la lente di ingrandimento di una precisa e tipica dimensione contemporanea, quella della sociopatia. Insomma un people-watching mirato, alla ricerca di capire chi sono e cosa vogliono quelli che “non sopportano la gente”. Ci voleva una buona idea, in qualche modo ossessiva, di mettersi a guardare gli altri per individuarne i tratti distintivi. La serialità ha permesso all’autore di “svolgere il tema”. Un po’ come per gli Esercizi di stile di Queneau, ma al contrario: lì la stessa scena è scritta in 99 stili linguistici diversi, qui i 52 racconti di Mellara parlano delle vite di altrettanti personaggi, ma per andare alla ricerca di una stessa “patologia”. È una associazione, niente più, ma indicativa di una modalità ossessiva, appunto, di parlare del mondo che talvolta gli autori usano. Quando succede le loro opere diventano dei campionari umani straordinari, a cominciare dall’umanità dantesca inventariata peccato dopo peccato, fino alla classificazione degli abitanti del palazzo parigino di La vita, istruzioni per l'uso di Georges Perec.
È certamente essenziale, ritengo, il fatto che Mellara sia un regista, documentarista e sceneggiatore (ricordiamo tra altri Fortezza Bastiani del 2002 e Vivere, che rischio del 2019, firmati con Alessandro Rossi), uno che di mestiere “costruisce lo sguardo” sul mondo. La sensibilità è quella: la materia è nervosa, isterica, nevrotica; la narrazione insegue, corre dietro ai casi, ai pazzi furiosi della porta accanto. Ci sono quattro sezioni in cui i sociopatici vengono “smistati”: Coloro che amano, i persi dietro a un sentimento contorto ed esclusivo; Ritratti in bilico, uomini insoliti nelle loro vite intricate e/o insopportabili; Tra le orecchie, tra i pensieri dell’Io che interagisce con sé stesso, al di qua del super-Io; Paesaggi sghembi, in cui la realtà non è ciò che pare. Spesso i racconti si intersecano, qualche personaggio transita in quello successivo creando un gustoso gioco prospettico e una generale concitazione che a momenti diventa quasi una perversa allegria.
Mellara mette il dito su una grande piaga del nostro tempo: la sofferenza che proviene dal rapporto con gli altri. In un paradossale squilibrio tra il sostanziale benessere materiale e un insopportabile disagio profondo in cui le persone, molte persone, conducono le loro vite.
Così comincia C’è nessuno?, il primo racconto del libro, della sezione Tra le orecchie:
Chi è che bussa adesso?
Che due scatole! Mai che si possa stare in pace un momento.
Chi è?
Chi è, scusi?
Come dice?
È un sociopatico in cerca d’affetto e, visto che sa che in questa testa vive un altro sociopatico che ha i suoi medesimi problemi, si chiedeva se potesse entrare anche solo per una manciata di minuti per bere un tè freddo insieme; con questo caldo, dice, ci starebbe a pennello? (p.15).
Il dubbio se concedere a sé stessi un tè freddo in una giornata calda, il disagio di doversi stare a sentire per un momento. Ecco, l’ossessività che torna, come tara umana. “Ma scusi, noi che grado di parentela abbiamo?” (p.133), dice a sé stesso il Sociopatico in cerca d’affetto, che diffida di sé fino all’estremo. (Mi era scappato un gustoso errore di battitura: Sociopatico in cerca d’affitto… l’Io che si propone in affitto a un altro, un’ulteriore possibile chiave di lettura?).
Il libro è un susseguirsi di paure, rifiuti, abbandoni, delusioni, disillusioni, tutto assolutamente plausibile nella cornice della sociopatia dilagante. Come non pensare al disincanto del fobantropo, ex-candidato suicida, della Dissipatio H.G. di Guido Morselli, e al suo incontro con “l’ex-paranoico” Mylius che gli dice: “Occorre partire dalla premessa realistica di ciò che significa per noi ‘essere morti’. Impartecipazione al mondo esterno, insensibilità, indifferenza. […] ognuno di noi non è molto diverso da un morto. Il connotato del morto è l’impassibilità: ora l’ignoranza e (aggiunga) la dimenticanza o facilità a dimenticare, riducono noi vivi, per la quasi totalità delle esperienze (o relazioni) possibili, a una impassibilità analoga. Siamo morti a tutto ciò che non ci tocca o non c’interessa. Non dico a ciò che succede sulla Luna, ma a ciò che succede a coloro che stanno di casa dirimpetto a noi. […] Morire biologicamente, è il perfezionarsi di uno stato in cui ci troviamo già ora” (Adelphi, 1977, p.74).
E che dire delle sociopatie mascherate in cui il gruppo fa da schermo? Partecipo, mi do da fare per la “causa suprema” (sport, militanza politica, iniziative umanitarie, religione…), a costo di entrare in conflitto con tutti gli altri che non appartengono al mio gruppo. Nell’incertezza della propria identità ci si rifugia per proteggersi in una comunità di condivisione, nella quale ciò che conta è l’appartenere in sé, militare. Il giudizio sui valori del gruppo viene dopo, cosa sarà mai questo spirito critico?
La complessità del tema è evidente, a cominciare dalla sua intrinseca implicazione con la sfera psichica. Per questo la ricognizione letteraria ha un senso particolarmente profondo: la complessità del reale osservato produce un certo immaginario che produce una riflessione sulla carestia di affetto, che è il cuore del libro di Mellara, un cuore che comunque pulsa in ogni situazione stramba e imprevedibile. C’è il politico che odia la campagna elettorale e le sue ipocrisie. Quello che ama nascondersi, da tutti, a prescindere. Un uomo che si innamora di tutte le donne. Stranezze: chi vuole decidere in anticipo che cosa scrivere sulla propria lapide. Chi sta bene solo al cimitero, perché lì trova la garanzia della solitudine. Uno è “morto” e pensa: “Ehi, mi sentite? C’è nessuno, porca paletta?”. Lo scrittore incapace e l’editore incapace tenuti insieme da una donna, moglie (per l’uno) e sorella (per l’altro), in un disastro professional-famigliare. Non poteva mancare il lettore, che nella vita non vuole altro che leggere, continuamente. E tutto si svolge in Paesaggi sghembi in cui pure le piante, gli animali, le scale e i lampioni ci guardano, e fanno people-watching.
Chiunque ci passi accanto può contenere la sociopatia e il relativo bisogno d’affetto. È toccante La nonna alcolista, seduta sulla sua panchina con la sua bottiglietta di finta acqua minerale (perché dentro c’è la grappa): “Passa parecchia gente davanti a lei, e su tanta si può commentare e far girare la giostra dei pensieri in un caleidoscopio di supposizioni, congetture, ipotesi. La gente non mostra che un lato di sé. La nonna ne svela sempre i più torbidi: veri o presunti, chi può dirlo? […] Ogni pensiero è cadenzato da una sorsata.” Poi, un po’ barcollando si alza e si avvia verso casa: “Tiene lo sguardo a terra, ma non può cancellare il pensiero dei nipoti e della figlia, e del grande schianto della macchina, schianto nullo in confronto a quello che deflagrò nella sua testa quando le venne data la notizia della loro morte.
E giù un altro sorso.
Come se bastasse” (pp.171-173).
Sembra proprio che gli uomini, come pensa Anita – protagonista di L’archivista nei Ritratti in bilico –, non siano che “atomi nel preciso istante dell’esplosione del Big Bang: sparati nello spazio profondo da una forza centrifuga irrefrenabile, ognuno per sé, distanti per effetto di calcoli fisico-matematici e non per filosofia”.
Ma è a noi lettori che spetta metterci la filosofia.