Taccuino estivo 1. Heidelberg
A Heidelberg, di là dal vecchio ponte sul Neckar, una funicolare porta in alto, ai piedi del grande Castello, poi prosegue più oltre, fino al Königstuhl, che è una collina fitta di conifere e querce. Dal belvedere si può osservare, a valle, il fiume che scorre tra le case della città inarcandosi lungo la pianura.
La vista dall’alto fa esperienza di una lontananza che comprende nel suo spazio torrioni e case, macchie boscose e costruzioni di epoche diverse. E allo stesso tempo la vista oscilla tra due campi di attenzione: da una parte gli accadimenti che trascorrono nel cielo – le nuvole, il trascolorare dell’ora, il volo degli uccelli, il solco di un aereo – e dall’altra il contrarsi della vita cittadina in un disegno inerte, in una cartolina che solo l’immaginazione può sottrarre alla fissità. Nel bosco si apre un sentiero-natura: agevole, ombreggiato da abeti, e abitato, qua e là, da presenze scultoree, lungo i cigli di felci e di lamponi: alcuni artisti hanno usato la materia arborea per modellare corpi di animali.
Non l’uso dell’albero per le imprese “civilizzatrici” – le selve incontaminate che già i romantici vedevano violate e piegate agli scopi dell’industria – ma il passaggio dell’albero, per mano di un artista, verso la forma, verso la gratuità e la grazia dell’arte. Ecco un ramarro disteso su un tronco, poi una marmotta che si affaccia da una roccia, un grande uccello che con l’apertura delle ali fa da schienale per una panchina disposta ad accogliere il viandante, ecco ancora un lungo tronco di albero caduto che in forma serpentina si inarca e solleva la testa sopra i cespugli, e via via molti altri animali scolpiti che accompagnano il cammino.
A un certo punto, in uno slargo, c’è un maestoso xilofono, con tutti i suoi pezzi lignei che oscillano lievi al vento, a lato un litofono dalle lastre affiancate: strumenti arborei e pietrosi che invitano il passante a improvvisare un motivo musicale, usando appositi tronchi. Piccole citazioni di una natura anch’essa “civilizzata”, ma in direzione ludica e musicale.
Il contrasto tra la collina forestale e il Castello modula una chiara opposizione: di là una natura che, pur se sottratta all’incontaminato, mostra una sua discrezione per dir così armoniosa, di qua l’architettura voluta dai potenti, i quali, succedendosi via via tra guerre, espugnazioni, assalti, hanno abbattuto e ricostruito, disfatto stili e aggiunto arcate e colonne e statue, levato contrafforti e sovrapposto bastioni. È l’inseguirsi di una sovranità che appare, a distanza, burlesca e tronfia, mentre maschera le rovine della storia con gli stemmi dei poteri.
Lungo il Neckar, di là dalle rive, si levano coste collinari di un verde fittissimo, in mezzo al quale traspaiono di tanto in tanto rossastri castellari con sottili torri. Eppure, sia che si percorrano tratti fluviali con un battello, sia che si vada in auto sulle strade di qua dagli argini, sostando in qualche piazzetta di villaggio ombreggiata da platani, solo un esercizio fantastico può figurare nella mente qualcosa che somigli vagamente a quel senso del vivente, del tutto-vivente, che dà forma e suono ai versi dedicati da Hölderlin proprio a questo fiume.
Che era il suo fiume, il fiume della nascita e dell’infanzia a Lauffen, il fiume della solitudine nella torre a Tübingen, il fiume sulle cui rive il poeta convoca la luce di un tempo altro, e perduto: una luminosa contiguità unisce per il poeta le sponde del Neckar con i templi della Ionia.
Ma il paesaggio che prende forma e presenza e suono nella poesia è altro dal paesaggio reale. La sua bellezza e integrità appartiene soltanto al paese della poesia. Di tanto in tanto qualche rispondenza sembra trascorrere tra i versi di Hölderlin e il lampeggiare delle scaglie nell’acqua: un accenno a quell’unità – del visibile con l’invisibile, dell’istante con l’oltretempo – che oggi sentiamo estranea al nostro stesso immaginare.
E tuttavia dai versi giungono parole che possono accompagnare lo sguardo sulla città – sulla Heidelberg definita dal poeta “Ländlichschönste”, campestre e bellissima insieme – o possono sovrapporre alle immagini del “gigantesco” Castello la levità dello stormire che giunge dalle foreste amiche (“freundliche Wälder / Rauschten uber die Burg herab”).
Mentre distolgo lo sguardo dal fiume, disordinatamente si affollano le immagini di molti altri miei passaggi e soggiorni in Germania: voci, profili di amici, cammini, incontri, pubbliche letture. Ma è un ricordo giovanile che, non chiamato, si impone, tra gli altri: il passaggio in autostop sul Reno per raggiungere da Freiburg un paesino del Bas-Rhin, in Alsazia, ai piedi dei Vosgi. Vi abitava una mia zia, emigrata con la famiglia dal Salento (ci rimase sette anni prima del ritorno nella sua terra).
Sono le foreste dei Vosgi che ora si sovrappongono ai boschi che salgono dalle rive del Neckar. In uno dei primi camminamenti nei Vosgi, alla svolta di un sentiero, incontrai un pomeriggio un cervo che si abbeverava in un ruscello: per qualche istante restò immobile, sollevando gli occhi verso di me, leggero, solenne, prima del balzo verso l’oscuro.
Poi torna dinanzi allo sguardo il Neckar, il fiume sacro al poeta, torna con “i dolci prati e i salici sull’acqua” che chiudono una lirica a lui dedicata.