“She was totally America” / “Tonya”: una passione violenta

6 Aprile 2018

La prima volta che il “Triple Axel”, un triplo salto del pattinaggio, è stato eseguito in una competizione americana, risale al 1991, quando una donna di ventun anni, nata a Portland, si è esibita ai Campionati nazionali statunitensi di pattinaggio sul ghiaccio, a Minneapolis. Tonya Harding ha conquistato il podio, sorridendo in un costume verde acqua fluorescente, con applicazioni di paillettes. Nelle immagini originali dell’evento, quel body somiglia a un abito cucito in casa (secondo un sistema di esperienze per cui l’abito fatto a mano non è espressione di haute couture, ma di  povertà di mezzi); sa di sintetico: nel colore, nel tessuto, nella confezione. Eppure comunica anche, e in un certo senso commuovendoci, una tensione sforzata per un effetto massimo di apparenza telegenica. Quel costume, infatti, ci restituisce la tinta di un’epoca in cui si era ormai diffusa, arrivando dall’estetica televisiva anni Ottanta, la moda di usare la parola “look” per definire il progetto di espressione appariscente del sé legato al modo in cui si indossava, si truccava, insomma si rendeva più vistoso possibile il corpo. 

 

Tonya, in quegli scatti del suo successo, mostra un aspetto fisico che certo parla di una macchina di muscoli all’opera, ma esprime anche una cultura ingenua, vale a dire disabituata alla posa elegante come codice di distinzione tanto sociale quanto spettacolare. Dalle foto scattate nel 1991 quella ragazzona che ha appena raggiunto un record mondiale in una disciplina abituata a usare la bellezza come dispositivo di performance, saluta il pubblico come se fosse a un ballo della scuola, sotto al ciuffo di capelli laccati, l’ombretto celeste steso in maniera pesante sulle palpebre; senza avere niente di quello che convenzionalmente si intende per “grazia”. Sembra incredibile, meraviglioso, a guardarla, che quella figura così poco aerea, anzi così tenuta a terra da una vita evidentemente pesante, abbia eseguito, per la prima volta, un triplo volo.

 

 

Non è soltanto una questione di resistenza fisica. Per fare un triplo Axel bisogna essere particolarmente forti, ma soprattutto “coraggiosi”, perché l’Axel è l’unico numero che parte slanciando il corpo in avanti; per eseguirlo devi fare mezzo giro in più e hai più paura, perché vedi quello che fai. L’Axel è un salto che funziona per gradi di difficoltà progressiva: la condizione per farlo è perdere la paura di saltare.

 

Tonya (2017), del regista australiano Craig Gillespie – Il vampiro della porta accanto (2011), L’ultima tempesta (2016) – ispirato alla storia dell’omonima campionessa, interpretata da Margot Robbie, apparentemente è l’adattamento cinematografico di una biografia (un biopic); in realtà, per come è realizzato il film (scritto da Steven Rogers), gli elementi che più ci impressionano non riguardano la ricostruzione di episodi della vita di Tonya, né la violenza che esplode in un singolo ed eccezionale snodo (il ferimento di una rivale nel 1994, ad opera di un balordo assoldato dal marito). La violenza interessante è quella che abita l’intera vita della protagonista: l’elemento per lei più famigliare, letteralmente e simbolicamente. Come indica il titolo originale (I, Tonya), il film intende metterci, finalmente, davanti alla verità di Tonya. Che non è più soltanto colei che vola sotto i riflettori o che ha fatto aggredire la sua avversaria, ma è un corpo che entra in scena, quando ancora il fondo è nero, sporcando il silenzio con un colpo di tosse, per prendere evidenza dentro una comune cucina, da cui la donna, come se si trattasse di un’intervista autentica filmata nel 2014, comincia a raccontarci la propria storia.

 

 

 

Da qui comincia a svolgersi il filo che andrà avanti per tutto il film, intrecciando i due livelli della testimonianza (di Tonya, della madre, del marito e degli altri personaggi principali) intorno ai fatti  divulgati; e quello della storia fatta rivivere in presa diretta:

 

Tonya Harding, 1991. Margot Robbie in Tonya, 2017.

 

Per come è costruito (vale a dire per il modo in cui si riproducono falsi documenti storici sotto forma simulata di interviste o immagini di repertorio, secondo gli usi del mockumentary),  per i dettagli della storia su cui decide di portare lo sguardo, Tonya ci chiede di restituire profondità narrativa a un evento di cui il sapere comune aveva conservato soltanto le immagini e i passaggi più impressionanti e vistosi. Il film ci fa attraversare un episodio di cronaca nera per mostrare quanto la violenza sia stata non l’eccezione ma la norma, nell’ambiente in cui è cresciuta questa campionessa di pattinaggio così anomala, così antipatetica, eppure così in sintonia con la musica anni Ottanta (una delle cose migliori di quegli anni) che fa da colonna sonora al film.

 

Tutto, in lei, è strano, non conforme all’immagine dell’America «sana» che i selezionatori di una gara internazionale di solito vogliono dare. Non solo, dunque, il crimine di cui è stata complice, ma il modo scomposto di vestirsi, di fumare, di trattare male le persone, di protestare contro i punteggi, di far male le figure obbligatorie. Tonya è in protesta perpetua e prende le botte da tutti: non solo dalle rivali con cui, una volta smesso il pattinaggio, combatterà la boxe, ma dalla madre, dal marito, e in un certo senso pure da chi, durante le gare, non ammette di farla vincere perché non corrisponde ai canoni di “bella presenza” o non indossa un costume da cinquemila dollari. Tutto è scorretto nella sua vita, compreso il triplo Axel, un salto “fuori dalla norma” che di solito nemmeno si fa. 

 

 

Non esiste talento laddove non esista anche qualcosa o qualcuno che, fosse pure per contrasto e opposizione, non ti “incoraggi”. Ma se tutti i talenti felici si somigliano, di solito sono i talenti infelici che conoscono una fortuna narrativa, perché è allora che il talento diventa, se non c’è cura, risposta disperata e creativa all’assenza, oppure ansia da prestazione per scongiurare un abbandono, una solitudine, una fame di attenzione. Lì nasce e prospera il racconto. Quasi tutte le storie di sport che il cinema ha rappresentato mettono in scena non soltanto una biografia individuale, ma la storia potente di una relazione: con un genitore, un allenatore, un magnate ossessionato, un parente, un amico, insomma qualcuno, o qualcuna (più di tutte una madre), che ti dia, anche evocandolo in assenza, il cuore, il “coraggio”, per l’appunto, di riuscire a oltrepassare i tuoi limiti, per gridare, prima di tutto a lui, o a lei, “ce l’ho fatta!”.

 

Hilary Swank (Maggie) e Clint Eastwood (Frankie), in Million Dollar Baby (Eastwood, 2004).


In questa tensione, di solito, si gioca il nucleo forte del film: nella relazione. La maggior parte delle storie più riuscite di vicende sportive messe in scena dal cinema hanno reso memorabili grandi interpreti di questo percorso di motivazione (solo un esempio: «Adriana!» il grido emblematico e iconico di Rocky); oppure, viceversa, sono film diventati indimenticabili grazie a figure che agiscono, più che da interpreti di una storia complessiva, come grandi solisti. Come accade anche nel caso di Tonya, che in realtà è il film di due grandi numeri primi della solitudine.

 

Da una parte una madre, LaVona (una strepitosa Allison Janney, vincitrice di un meritato Oscar come attrice non protagonista), che cerca riscatto dalla miseria, lavorando disperatamente per cucire un destino di successo addosso alla propria figlia, con certe forme di dedizione assoluta che potrebbero ricordare, nelle differenze, la determinazione monomaniacale della madre di Bellissima (1951) - se non fosse che nel film di Visconti la protagonista (Anna Magnani) compie attraverso la storia una parabola tragica di riconquista del materno.

 

 

Dall’altra parte, come contraltare drammaturgico e simbolico, una figlia, addestrata fin da piccola alla rabbia per diventare una bimba prodigiosa del pattinaggio artistico: «Lei è il tuo nemico, non dovete essere amiche!», le grida davanti alle altre ragazzine.

 

Quando ho visto Tonya per la prima volta ho pensato che fosse un lavoro interessante, ispirato a una vicenda davvero significativa, ma che fosse, al tempo stesso, un’opera a tratti faticosa. Un film sgangherato (talvolta per scelta, in altri casi senza intenzione), che tiene assieme almeno tre storie di violenza. Riguardandolo, però, ho apprezzato maggiormente questo effetto di scucitura, perché non è soltanto un risultato d’insieme, ma un espediente all’opera per mostrarci la compresenza faticosa, nel personaggio di Tonya, di tre linee narrative che squilibrano di continuo il suo destino, quasi fosse un abito dai colori sbagliati e dalle proporzioni troppo corte, che tirano da tutte le parti: «I want to look pretty. Tulle’s classy, no?».

 

In primo luogo, infatti, c’è la storia del rapporto ossessivo con il proprio talento, l’unica cosa che Tonya possiede e può possedere. La macchina da presa, con i carrelli, i primi piani sui sorrisi sforzati alla fine della performance, non la molla mai nel racconto di questa tensione. Tonya ci mostra e ci fa vivere la rabbia di affermazione di chi non ha niente da perdere perché nessuno, a parte la madre, aveva previsto che lei potesse arrivare fin lì. Il pattinaggio, le dice il marito, funziona come un superpotere, alimentato dalle ansie da prestazione e di riuscita continuamente indotte dai messaggi anaffettivi e dittatoriali della madre – per certi aspetti la vera protagonista del racconto. «You fuck dumb, you don’t marry dumb!» protesta LaVona, alla festa di nozze della figlia, rimproverandole di aver sposato giusto il primo che le aveva detto che era carina.

 

Allison Janney nei panni di LaVona Golden.


In secondo luogo, Tonya è una black comedy, la storia di un crimine legato a una competizione: l’aggressione all’avversaria Nancy Kerrigan, nel 1994, alla vigilia dei Giochi Olimpici invernali di Lillehammer. Ma soprattutto, e in terzo luogo, Tonya è un film dagli esiti disordinatamente riusciti perché usa una parabola di affermazione legata allo sport – e in particolare il topos della “vecchia gloria decaduta” – per raccontare una storia “sporca”, non convenzionale, degli Stati Uniti. Come ne Lo spaccone (Robert Rossen, 1961), o in Toro scatenato (Martin Scorsese, 1980), per fare solo un paio di esempi tratti dalla cinematografia storica; o come nei più recenti The Wrestler (Darren Aronofsky, 2008) e Foxcatcher - Una storia americana (Bennett Miller, 2014), uno dei film più belli di questi ultimi anni.  


«Tonya was totally America», dice di lei la sua allenatrice, la prima volta che appare intervistata. Per questo Tonya è tenuta ai margini dal sistema delle gare, che non vuole che sia lei a rappresentare gli Stati Uniti. Con i suoi cappotti di coniglio spellato nel cortile, con il suo white trash, con la sua assoluta mancanza di buone maniere, Tonya è il ritratto vivente, ma non patetico, dell’America di provincia, della vita in periferia, delle violenze domestiche che si consumano nelle case dove i nostri sguardi entrano solo quando accade un fatto di cronaca nera; dell’impasto di sogno e rabbia che fermenta sotto la maschera sforzata del sorriso, dentro un costume di scena troppo stretto, troppo colorato per farti davvero prendere il volo. Anche se sei stata la prima a eseguire un triplo Axel.

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