Giuseppe Culicchia e Andrea Pazienza / Tra la P38 e l’eroina

22 Febbraio 2021

Nella notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976 Walter Alasia, vent’anni, sorpreso dalla polizia in casa dei genitori, spara e uccide il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Giovanni Vittorio Padovani; quindi salta dalla finestra dell’appartamento del primo piano sul marciapiede, dove viene a sua volta ammazzato. Nei primi capitoli di Il tempo di vivere con te (Mondadori, pp. 162; €17) il libro che ha dedicato al cugino Walter Alasia, Giuseppe Culicchia ripercorre rapidamente gli eventi sanguinosi degli anni settanta. Non è una ricostruzione critica o storica, è piuttosto un elenco. Il quadro che ne esce è impressionante. Cose note, ma non per questo meno tragiche: negli anni della guerra fredda l’Italia è in una posizione geopolitica centrale, frontiera aperta su molti fronti, e quindi si trovano a operare da noi tanti servizi segreti che armano, sfruttano e si scontrano attraverso vari gruppi di giovani che militano in organizzazioni spesso paramilitari. Questo è l’esoscheletro di quegli anni, le condizioni internazionali al cui interno viviamo. Quattordicimila arresti e oltre quattromila condanne, migliaia di mitra e bombe sequestrati: è chiaro che siamo in una guerra a intensità limitata, come scrive Culicchia. O se vogliamo, uno dei capitoli della guerra fredda. Fredda per USA e URSS, meno per noi, e questo bisognerebbe ricordarlo quando si fantastica di secessioni nazionaliste dall’Europa. 

 

Tutta italiana è invece la guerra civile che in modo altrettanto sanguinoso è durata per noi dalla marcia su Roma del ’22 fino ai primi anni ottanta e di cui le BR hanno sempre rivendicato di essere un capitolo. 

La scelta di Culicchia, di non offrire un commento, è molto efficace, e forse raggiunge meglio lo scopo di creare un contesto per la vicenda di Walter Alasia di quanto non farebbe uno stile saggistico maggiormente riflessivo. Sono fatti. Il ventenne reagisce, non riflette e non capisce. Che il padre di Walter Alasia sia stato deportato a Mauthausen richiama subito alla mente i genitori di Petra Krause, tra i protagonisti della RAF (Rote Armate Fraktion), il terrorismo rosso tedesco degli stessi anni. La seconda guerra mondiale penetra nella generazione successiva a furia di disastri, lutti, debiti, sudditanze pubbliche e private. Il senso della sconfitta, tra resistenza tradita e nostalgie littorie, si trasmise allora in una rivolta contro padri e madri che non potevano certo rispondere di cosa fosse accaduto, ma venivano inevitabilmente e comunque interrogati. La storia, come racconta la Morante, è uno scandalo che dura da diecimila anni.

 

 

Qui il ruolo che Culicchia dà alla Zia Ada è importantissimo. Sentiamo attraverso lei non solo la perdita del figlio, ma del futuro del movimento operaio di cui lei si sentiva parte. Scrive a un certo punto Leopardi a Fanny Targioni-Tozzetti (5 dicembre 1831): Sapete che io abomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli uomini sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura, che ha fatto gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta di individui non felici

Sono pensieri come questi che irriteranno Mazzini proprio perché le illusioni della storia sono necessarie anche a lui per La giovane Italia. Del resto non possiamo capire noi stessi, e in questo Culicchia è molto bravo, se non comprendiamo in quale modo quei conflitti (non solo militari, ma anche e soprattutto sociali e culturali) ci hanno reso quello che siamo. Persino un bambino di undici anni, senza capire nulla di cosa stia accadendo in Italia, avverte il buio della morte del cugino e delle sue vittime. Riusciamo oggi a vedere oltre quel buio? Ci sono fatti che continuano a emergere e confermare una storia nota da sempre: la bestialità dei miliardi su conti svizzeri gestiti da Gelli per organizzare le stragi di quegli anni o i ricordi tardivi di chi nella stanza della questura di Milano fece volar giù Giuseppe Pinelli, che innescarono la spirale di violenza del decennio successivo. Ma questo spiega cosa ci sia oltre il buio?

 

La fragilità del giovane Alasia, appena sfiorato dalle idee che trasformeranno profondamente l’Italia di quegli anni, è il primo dato disarmante: c’è qualche traccia di femminismo, qualche vaga idea su rivoluzioni in paesi lontani, ma non si intravede molto delle grandi trasformazioni che cambiano l’Italia di allora. 

Per quanto tutti i brigatisti abbiano sempre rivendicato di essere espressione dei movimenti sociali di allora, le loro scelte appaiono del tutto avulse dal mondo che avevano intorno. Diventano attraverso la clandestinità un mondo parallelo e non c’è quasi nulla che faccia pensare che essi partecipino in alcun modo al mondo dei loro coetanei. Musica, libri, piazze. Walter Alasia è un ragazzo come molti, affettuoso in famiglia e disponibile con il cuginetto più piccolo, cresciuto tra famiglie operaie della periferia milanese, gente per bene, in contesti umani che nella prosa del libro ci avvicinano agli affetti dell’autore. Pochi mesi, forse un anno, e questo ragazzo diventa un assassino. 

 

 

Il vero dramma, come dice Hannah Arendt, è che il male è banale. Sull’assenza di pensiero prevale un’azione che pare necessaria, addirittura un ordine a cui obbedire, l’adeguamento a un contesto. Come per Walter Alasia, per tanti brigatisti l’unica forma di disciplina morale appare l’obbedienza, appartenere alla rivoluzione. Eppure sono anche gli anni in cui Don Milani scrive L’obbedienza non è più una virtù. Probabilmente queste letture da lì non passano, ma allora cosa significa sentirsi espressione di movimenti sociali? Tutto appare necessario, per condizioni dettate dalla storia, dalla società, perché hanno ricevuto un ordine. Per la “politica”, che nelle interviste dei brigatisti diventa un polpettone che si inghiotte tutto. Come non ci fossero altre forme di pensiero. 

 

Scenari diversi, ma in qualche modo paralleli, li ritroviamo nelle storie di Andrea Pazienza (Storie 1977-1980, e Storie 1981-1983, Fandango e Coconino press). Riesce difficile pensare che in quegli anni a Bologna insegnavano professori come Umberto Eco, Gianni Celati, Carlo Ginzburg. I personaggi di Pazienza, sono completamente smarriti e svuotati. C’è una foto nel libro di Culicchia scattata a Bologna; mi sembra di riconoscere Gigi, che porta tanta vita e avventura in Boccalone, e che riappare in qualche tavola di Andrea Pazienza. Gigi è morto l’estate scorsa. Era un uomo simpatico e affascinante, a piangerlo, in un funerale affollatissimo, c’era un nutrito gruppo di ex fidanzate. In quell’occasione sua figlia disse scherzando a chi si alzava per ricordarlo con un aneddoto o un ricordo, quasi sempre al limite e anche un po’ oltre la legge: non vi preoccupate, è tutto in prescrizione! Io lasciai Bologna quando finii l’università, mentre Gigi restò e restò proprio in tante storie di Pazienza, o che avrebbero potuto esserlo. Spesso al limite della prescrizione. Anche Andrea Pazienza era bellissimo, pieno di vita e molto attraente. Quando l’ho incontrato io era al culmine del successo, aveva appena illustrato i manifesti per La città delle donne di Federico Fellini e pareva che gli si aprissero davanti tante strade. Quello che racconta in questi due volumi di storie è al contrario la vita ridotta ai minimi termini: ospiti indesiderati da buttar fuori di casa, magari a sprangate, esami a cui un poveraccio arriva impreparatissimo, qualche pistola che gironzola non si sa bene perché, vicende amorose ridotte a piagnucolio sentimentale dove non c’è mai invenzione o prospettiva. Il mondo dell’eroina. Gli slanci vitali appaiono tutti velleitari, condannati in partenza, proprio perché vitali. Amare, partire per un viaggio alla scoperta del mondo, voler fare una cosa qualunque. 

 

Il vero fascino terribile di quegli anni è proprio il nichilismo. Da una parte si vedono i dover essere dei padri (lo studio, il lavoro, la famiglia) dall’altro una pernacchia a questi doveri perché nulla conta nulla, si è stufi di competizioni, ambizioni, dover essere questo o quest’altro e che quindi la nostra debolezza si incammini serena verso il nulla, il desiderio di morte. Il coraggio non è più qualcosa che porta a cercare di dar forma a quel che si è, ma un sottrarsi allo sguardo che ci giudica, che abbiamo interiorizzato e che una volta rifiutato consente di vedere negli altri la vanità, il vuoto, il perbenismo. E siccome, come osserva Leopardi nello Zibaldone, negli altri vediamo noi stessi, quel rifiuto degli altri diventa rifiuto di se stessi. Se quindi non si possono seguire le strade che si aprono davanti non c’è che la radicalizzazione del proprio sottrarsi al mondo. Nascondersi per non essere quello che noi stessi ci aspettiamo da noi. E qui c’è persino una sensazione euforica di liberazione. È finita la scuola, liberi tutti!

Le armi e la droga apparivano allora due precipizi paralleli che si aprivano intorno a noi dopo questo momento di euforia. Davanti solo un sentiero strettissimo, che appare quasi impossibile. Non dipende neppure dalle condizioni sociali o dall’educazione, un nichilismo simile è diffuso infatti anche nell’ultimo Leopardi, che pure aveva inventato Silvia, Nerina, Aspasia, aveva interrogato il futuro degli umani e le illusioni. La vanità di tutto, dell’essersi creduto eterno, l’oscuro male del potere. L’azzeramento del futuro, delle illusioni del Risorgimento, dei nazionalismi, del socialismo, di cosa farò mai di me stesso che non posso essere amato.

 

Qui le scelte di quegli anni sono familiari anche alle generazioni successive. La disperazione si affaccia nella vita di tutti, anche senza droga o filosofia, gli psichiatri la diagnosticano come depressione, nel leggere queste storie è semplicemente tristezza. Alle passioni e le idee subentra un senso di impotenza. Professori straordinari e straordinariamente aperti, con cui ci incontravamo anche fuori dalle aule, potevano apparirci un giorno magnifici esempi, il giorno dopo abitanti di un altro pianeta. Lo scontro generazionale tra chi aveva vissuto la guerra e quei giovani che non riuscivano a uscirne, si era esaurito negli ultimi tentativi di rivolta. In parte oggi capisco che questo era dovuto all’esoscheletro di cui parlavo prima. Come potevano i nostri padri, che avevano visto i tedeschi radere al suolo villaggi interi e l’ottava armata risalire lo stivale distribuendo cioccolate e calze di nylon, che nella sconfitta erano dolorosamente cresciuti, immaginare che nei giovani ci fosse altro che una continua sudditanza ai vincitori? Che potesse esserci altro da un umorismo servile e rassegnato per raccontare l’Italia di allora?

 

 

Ma il discorso è anche più difficile quando perdiamo qualcuno che amiamo, come accade al bambino Culicchia. Si cerca di resistere, di affidarsi a quel che ci riesce di vivere per non venire travolti dal nulla. Alla fine degli anni settanta quella disperazione attecchisce rapidamente ovunque, come si vede in maniera impressionante nel documentario di cui ha parlato su doppiozero Daniela Brogi, Sanpa: si dissipano gli entusiasmi così creativi che avevano avvicinato tanti cani sciolti nei corsi dell’università, inventando radio, libri, fumetti, amori, tutti artisti e musicisti. Tutto questo era avvenuto in un’Italia piena di bombe e mitragliatori. Quasi un miracolo, o piuttosto una tregua del conflitto. Una tregua di cui avevamo tutti bisogno. L’omicidio di Moro ripiomba l’Italia nella aria greve che le storie di Pazienza e Culicchia raccolgono così bene. L’intelligenza che era stata accumulata nelle discussioni di quegli anni impedisce di diventare l’ennesimo piccolo consumista e lo sconforto, la delusione attraggono verso la morte come carta moschicida. 

 

Allora i racconti di Andrea, che a me appaiono oggi quasi surreali, erano cronaca. Qui la violenza di quegli anni esplode, per Pazienza in un verso autodistruttivo piuttosto che nella guerra allo stato. Alasia probabilmente non capisce e lo scrive bene Culicchia quando racconta il risveglio dei due funzionari che saranno uccisi da suo cugino, tirati giù dal letto all’alba, strappati a vite così simili a quelle delle famiglie di Culicchia e Alasia.

Sono subito arrivati gli anni ’80 e gli italiani, attraversati per più di mezzo secolo da conflitti fratricidi e feroci, sono scappati verso il paese dei campanelli. Molti in quegli anni, spero almeno alcuni dei personaggi intorno a Walter Alasia del libro di Culicchia e lo stesso scrittore, riescono invece a credere nei propri affetti, a costruire, mettere al mondo altra vita, amare e tenere in piedi il mondo. Non c’è virtù in questo, forse solo circostanze diverse. Il male è banale anche nella scelta casuale che fa delle sue vittime. 

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