Umano, ma no
Tanti odiano la sabbia che sgrincia tra i denti. Anch’io un po’. Un giorno quest’estate, in spiaggia, mentre spostavo l’asciugamano, il vento l’ha mandata proditoriamente anche tra le pagine di un grosso libro caduto ai piedi del lettino dell’ombrellone davanti al mio. Nessuno se ne curava, la gente dell’ombrellone stava in acqua tutto il tempo, e il libro, un volume di almeno mille pagine, era caduto aperto, e la linea di lettura era disposta sull’asse est-ovest, proprio quello lungo il quale soffiava un vento insistente e impetuoso che faceva schioccare le sue pagine.
Il vento portava anche qualche goccia salata che condiva il libro come un’insalata. Mille pagine di parole esposte a fronteggiare le furie del mare. Io volevo leggerlo. Era una cassa piena di parole (di chi?), che stavano per consumarsi, che sarebbero sparite in mancanza di un soccorso, come un antico papiro, stavano per andarsene, senza di me se ne sarebbero andate. Ho avuto un trasporto affettivo per quel libro (chissà di chi era?).
Così come avevo un trasporto affettivo per la mia pelle, perché non mi piaceva che stesse male, che non fosse nutrita, protetta, abbellita da un velo di abbronzatura. Era un trasporto affettivo di cui solo io mi facevo carico, per la mia pelle, per quel libro: occuparmene mi interessava, mi stava a cuore conservarli, mantenerli puliti. Era la forza dell’accudimento, per un libro (di chissà chi…), per la mia pelle bisognosa. Ed è stato così anche per i miei figli quando, piccoli, è venuto il momento.
Nella primitività in vitro di una spiaggia non particolarmente affollata veniva fuori anche questo. Perché? Non so di chi fosse quel libro né chi l’avesse scritto, ma il bisogno di occuparmene materialmente era diventato insopprimibile. Io non sapevo farne a meno. Io non so fare diversamente.
Quell’episodio di poca o nulla consistenza mi ha messo davanti repentinamente ciò che da tempo insistentemente continua a colpirmi e cioè il contrasto violento tra la nostra dimensione primordiale, quella del battere cardiaco, del respirare, del deambulare, dell’udire e del masticare, dell’accudire le fragilità, appunto, da un lato e, dall’altro, la dimensione estremo-evolutiva, quella per così dire della digitalizzazione, che ci dispone su un diverso piano assiale.
Se sulla spiaggia fosse stato un e-reader a cadere sulla sabbia forse sarebbe scattato solo un meccanismo “quantitativo” di valutazione dell’oggetto (quanti libri conterrà? di chi è? come restituirlo? potrei raccoglierlo e vendermelo? quanto sarà costato?). La sua immobilità oggettuale, la sua perfetta riproducibilità, non avrebbero prodotto, credo, alcuna vera emozione, perché lì in quell’oggetto non ci sarebbe stato niente da “accudire”. Perché il libro sì e l’e-reader no? Il libro di carta è sentito più vicino al dato corporeo?
Noi seguitiamo a oscillare tra questi due piani, quasi che l’uno non voglia abbandonare l’altro, come per conservare un legame affettivo tra i primordi e il complessivo esito ultimo del nostro sviluppo tecnico-scientifico. Gli umani sembra abbiano bisogno di tutto ciò che hanno prodotto e questo tutto evidentemente confluisce ancora nel fiume delle azioni primordiali. Tutto ciò che abbiamo e conosciamo mi serve a far meglio agire i nodi vitali del mio funzionare primitivo, tutto serve al mio buon battere cardiaco, respirare bene, deambulare bene, udire bene, masticare bene e accudire bene le fragilità, tutte cose con le quali poi percepisco (bene) e conosco (bene).
Il dispendio tecnico-scientifico, in fondo, sembra in ogni caso diretto principalmente all’incremento di certezza del vivere, ogni acquisizione è rivolta al creare confortevoli condizioni di benessere, di salubrità del corpo/anima. In questa unione necessaria e dinamica tra umano-primitivo e umano-altotecnologico, sta forse il terreno in cui si costruisce l’odierna gestione del nuovo reale. Non siamo ancora in grado di dominare gli imbarazzi (da che parte sto?) che spesso si creano nel considerare gli uni aspetti e gli altri, il valore fondante delle fissità primordiali (il libro sulla spiaggia) da un lato, e i rischi (tutti a comprare l’e-reader…) delle fluttuazioni evolutive dall’altro.
Sentimenti contrastanti, oppositivi, che diventano ora fondamentalismi ora smarrimenti indistinti nel mare dell’incertezza valoriale: salviamo l’impulso primario o il suo “naturale” sviluppo? Nel turbinare di suggestioni che transitano qua e là (vedi, ad es., il dibattito dello scorso giugno-luglio in Doppiozero sul libro di Roberto Casati Contro il colonialismo digitale), sovente si annusano riflessioni del genere, si vedono queste ombre, della tensione tra il nudo primitivo che persiste e l’ipersviluppo, il sudore della pelle e il rampollare di App.
C’è un punto dell’intervento in cui il cardiochirurgo deve prendere con le sue mani il cuore ed estrarlo grondante di sangue dal torace del paziente donatore e metterlo in un gelido contenitore per spedirlo nel nuovo torace del paziente ricevente in attesa di salvezza. Prima e dopo quel gesto c’è la scienza medica moderna, la ricerca più sofisticata, ma quel gesto così spoglio e decisivo, nella sua evidenza, mostra tutta la sua supremazia. La superiorità di quell’atto cruciale contiene la misura umana, per così dire. Non si può fare diversamente.
Oggi noi stiamo sbattendo il muso sui limiti oggettivi dello sviluppo, ci siamo dentro, non è più una-questione-vecchia-come-il-cucco, ma un solido grandissimo guaio per tutti. E la fune è tirata un capo dalla nostra sana primitività e l’altro dall’esaurimento delle risorse energetiche unito alla distruzione dell’atmosfera per eccesso di CO2. E noi in mezzo immersi in un’“ipertrofia cognitiva che oscura i problemi morali”, a perseguire una ricerca che tende ormai alla “produzione di uomini costruiti come organismi solo mentali fatti di pure informazioni, senza Io, esseri che si autoevolvono” (Giuseppe Longo, teorico dell’informazione, “Repubblica”, 9 settembre 2013).
Ora, se il patrimonio arcaico delle nostre “funzioni base” non ri-dimensiona tempestivamente la massa incontrollata dello sviluppo, se cadiamo nell’“assuefazione all’idea di sottrazione di futuro” cioè nella “disperanza” (così la chiama Mario Galzigna in Rivolte del pensiero, Bollati Boringhieri, 2013), l’orizzonte in cui si inscrive l’azione umana risulterà compresso al punto da impedirla. Non basta più probabilmente che l’essere contemporaneo percepisca il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda (Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo, nottetempo, 2008), e non serve più semplicemente “interpellarlo”, bisogna piuttosto aggredirlo con una nuova subitanea e violenta intelligenza, violenta come un primordiale istinto di sopravvivenza. Non si può fare diversamente.
E il libro sulla spiaggia, nessuno ci crederà, era Infinite Jest di Foster Wallace. Non vuole dire nulla, ma tant’è. E io l’ho rubato dalla spiaggia, così condito di sale marino, e me lo sono portato a casa.