Una Locandiera chiamata Desiderio
Quando Antonio Latella nel 2013 aveva affrontato il Servitore di due padroni di Carlo Goldoni, ossia la Tradizione del teatro italiano con la T maiuscola, insieme Goldoni e Strehler, aveva fatto a pezzi il testo, trasformandolo in un apologo sulla menzogna che a teatro diventa ricerca di verità. Il pubblico in molte piazze, Venezia prima tra tutte, era insorto ed erano scesi in campo i critici a difendere uno spettacolo profondo e difficile, una sfida alla pigrizia di un sistema dello spettacolo che cerca nei classici rassicurazioni, come i bambini nella ripetizione delle favole.
A vedere La locandiera con Sonia Bergamasco, che ha debuttato il 15 ottobre a Spoleto, qualcuno potrebbe dire che ora i critici dovrebbero difendere Latella da sé stesso, dall’aver composto uno spettacolo gradevole – poco “di regia” alla Latella, ossia di provocatoria contemporanea riscrittura – un lavoro addomesticato per essere consumato dal grande pubblico. Io l’ho visto al teatro Duse di Bologna, seconda tappa di una lunga tournée che toccherà Perugia, sede del produttore, il Teatro Stabile dell’Umbria, e vari centri della estesa provincia italiana, per concludersi a Milano e a Roma tra marzo e aprile. E il pubblico del Duse, costituito in gran parte di abbonati abituati alla prosa più convenzionale, è stato conquistato.
Sbaglierebbe, però, chi desse un simile giudizio liquidatorio. Questa volta il testo dell’autore, affrontato con la collaborazione drammaturgica di Linda Dalisi, è rispettato alla lettera, senza superfetazioni e con limitate impennate metateatrali. Il ritmo, incalzante, rende giustizia a una commedia del 1752 giustamente considerata un capolavoro. Gli attori sono bravissimi. La scena e i costumi, contemporanei, rivelano la storia come vicina a noi senza usarle violenza. Il regista, pur cercando di confezionare uno spettacolo capace di incontrare il favore di larghe platee, non rinuncia a certe zampate originali e geniali e a inserire qualche ingrediente segreto che rende alla pietanza un retrogusto di mistero.
Se dessimo un giudizio liquidatorio tradiremmo quello che ci è successo in sala. Nella poltrona siamo stati trasportati, abbiamo ‘sognato’ e respirato con gli altri spettatori e con la scena (oh, quanto poco gli spettacoli oggi trasportano e fanno sognare!). Poi dal sogno abbiamo provato a ricomporre un racconto per il lettore, forse tendenzioso, ma pur sempre imbeccato dal sogno del regista imbeccato dal testo dell’autore.
Questa Locandiera sembra nascere, dopo il grande successo di Chi ha paura di Virginia Woolf, come una “serata d’onore” per Sonia Bergamasco, mattatrice nelle atmosfere isteriche e di simulazione di quel lavoro di due anni fa. C’è sicuramente questo spirito, ma anche altro, perché ci troviamo di fronte a una prova di concerto di una compagnia ben assortita, con collaboratori tecnici di prim’ordine.
Mirandolina gestisce la sua locanda giostrando tra caratteri abbastanza stereotipati, unico personaggio a molte dimensioni, accentuate da una prova veramente magistrale dell’attrice. Abbassando o ispessendo i toni, ingolando la voce o portandola in testa e su altri risuonatori vocali, dando volume e sfumature, dirigendo il corpo con la voce e modificando la voce con le posture, con le accelerazioni, i trasalimenti e le pause, è capace di creare una donna complessa. Intorno a lei si assiepano un conte, un nuovo ricco che ha comprato il titolo nobiliare che per conquistarla la sommerge di regali costosi, un marchese decaduto che le offre solo la propria vanità aristocratica senza sostanze, un cavaliere che disprezza le donne e che lei cercherà di punire facendolo innamorare, diversi tipi di servitori e due attrici che non sanno recitare.
Nelle note di sala Latella dichiara che Goldoni per primo nel teatro italiano ha reso protagonista un personaggio femminile, elevato da locandiera a servizio dei propri clienti “a donna capace di sconfiggere tutto l’universo maschile” e soprattutto l’aristocrazia. Perciò vuole una Mirandolina non “scontata e terribilmente civettuola” come la tradizione spesso la ha resa, diminuendo il personaggio, riportandolo a ciò che gli uomini vogliono vedere. Cita Café Müller di Pina Bausch per l’atmosfera concentrazionaria, con tutta la storia sviluppata in un unico ambiente senza aperture, una locanda mondo arredata stile Ikea dalle scene di Annelisa Zaccheria, dove le relazioni spesso diventano scontri. Dichiara di rendere omaggio a Massimo Castri, che aveva fatto un Goldoni “rustego”, a tratti violento, interpretando una borghesia affamata, meschina ed esausta. Qui la borghesia è in ascesa: Mirandolina fa tutto per la Locanda, lasciata a lei in eredità dal padre: e per essa alla fine deluderà i nobili corteggiatori e sposerà, come nelle raccomandazioni del genitore, il servitore Fabrizio.
C’è qualche sottile inganno in questa presentazione, però, come alcuni misteri sono disseminati in tutto lo spettacolo. Il Goldoni sottratto ai vezzi di trine trame e mossette civettuole non è una novità. Ha una ormai lunga tradizione, che possiamo datare perlomeno alla Locandiera presentata a Venezia con scandalo da Luchino Visconti nel 1952, con tanto di panni stesi che richiamavano il cinema neorealista, con immagini modellate sui quadri di Pietro Longhi e sulle atmosfere luministiche di Giorgio Morandi. Poi ci sono stati Strehler, Ronconi, Missiroli e soprattutto Castri. Goldoni ha riacquistato ruvidezza, aspri sapori di ritratto senza pietà di una aristocrazia esausta e di una certa borghesia affamata, in una chiave diversa dalla lettura puramente ritmica, cantante, che lo aveva accompagnato per decenni. Ma Latella calca la mano e si prepara a disseminare sotto le dichiarazioni politiche i propri misteri.
Il regista viaggia in modo personale alle origini della borghesia e delle sue nevrosi, del suo voler essere ma non sempre potere, del dover mentire per realizzare i propri scopi. Temi che già aveva scandagliato in molti lavori e di recente, con Bergamasco protagonista, in Chi ha paura di Virginia Woolf. Il mio titolo di questo pezzo, Una Locandiera chiamata Desiderio, cita una frase attribuita a Silvio D’Amico, ma da lui probabilmente non effettivamente pronunciata, a proposito dello spettacolo realizzato da Visconti (colui che aveva introdotto in Italia Un tram chiamato Desiderio di Tennessee Williams) per certe atmosfere sospese ed esauste, da America profonda, trasportate dal regista milanese nella recitazione degli interpreti del capolavoro di Goldoni (Rina Morelli, con Marcello Mastroianni, Paolo Stoppa e altri campioni).
Anche nella Locandiera di Latella e Bergamasco le reazioni sono spesso survoltate, isteriche o, viceversa, rallentate, come raggelate; le pause scavano crepacci di distanza, affinano lo stupore, la finzione, la menzogna e la ricerca di qualche verità. I costumi di Graziella Pepe disegnano, con garbo, senza scivolare in caratterizzazioni da cine-panettone, che pure non sarebbero ingiustificate, i nobili che circondano una Mirandolina che si presenta alla sua prima apparizione molto “anni settanta”, con un camicione e con i piedi scalzi alla Sandy Shaw. Il marchese, reso con fine umorismo da Giovanni Franzoni, è sempre alla rincorsa di un prestigio perduto e impossibile; il conte di Francesco Manetti è un rude arricchito; il cavaliere di Ripafratta di Ludovico Fededegni è vittima nevrotica della sua stessa ottusa misoginia da commedia, pronto a cedere di fronte al “garbo” e alla finta sincerità di Mirandolina, che, per conquistarlo e dimostrare che nessuno può resistere alle donne, gli rivela quanto lei poco tenga in conto gli altri e di come con loro si destreggi per fare il proprio tornaconto di locandiera.
L’arrivo di due attrici incapaci di mantenere i personaggi di dame con cui si presentano (interpretate dalle divertenti Marta Cortellazzo Wiel e Marta Pizzigallo) aggiunge finzione alle finzioni, teatro nel teatro, a ribadire come questa arte si impegni a giocare a mettere e a togliere maschere di sussiego, di potere, di amore.
Le luci di Simone De Angelis sono costituite principalmente da neon che diffondono un’apparente chiarezza su tutta la scena. Ma quando avviene qualche cambiamento, qualche scontro, qualche scombussolamento interiore, i neon sbarbagliano, calano di intensità e la luce diventa suono, un friggere, un suono bianco che fa squillare nello spettatore campanelli d’allarme. E qui entra Franco Visioli, il mago creatore di musiche e atmosfere sonore, che introduce su quei luministici trasalimenti note soffuse e qualche flebile motivo jazz. All’inizio del terzo atto (qui il secondo e ultimo) fa partire un minuetto, poi una dirompente musica techno, come correlativi dello stato d’animo della donna, quindi, quando ormai vittoriosa stirando tiene a distanza, rifiuta, il cavaliere, fa risuonare un secondo movimento di sinfonia settecentesca (mozartiana?). Siamo al giorno d’oggi oggi e siamo alle origini della borghesia, prima della Rivoluzione, quando la famiglia borghese diventa àncora (anche e soprattutto economica) contro la dissipazione (libertina, di beni, di potere) dell’aristocrazia. Siamo all’epoca del Figlio naturale di Diderot e qualche anno prima delle Nozze di Figaro, in cui il protagonista trova la forza di contrastare i disegni erotici del Conte di Almaviva sulla sua promessa sposa Susanna quando ritrova la madre e il padre che lo avevano abbandonato.
Mirandolina allontanerà i nobili avventori della sua locanda, dopo una scena di mattane del cavaliere ormai innamorato furioso, e dichiarerà di voler sposare Fabrizio, il servitore (un asciutto Valentino Villa), accogliendo il disegno del padre, accogliendone l’eredità che è patri-monio.
Cosa costerà questa consapevolezza? Faccio un passo indietro: il punto culminate della seduzione del cavaliere arriva quando, alla notizia che quello vuole partire per non lasciarsi avvincere dall’amore, Mirandolina piange calde lacrime (finte: come Serpina nella Serva padrona di Pergolesi, negli anni della Locandiera furoreggiante) e poi finge lo svenimento. Lo spettacolo raggiunge qui un’acme emozionale: il cavaliere la prende in braccio e con il suo servo (il bravo Gabriele Pestilli) le suona uno struggente motivo dall’andamento assai malinconico, con l’andamento del notturno, della ninna nanna o del compianto funebre. Questo momento, come quelli di stupore e di riflessione, le lunghe pause e le accelerazioni fisiche e vocali, le cadute di tensione dei neon di cui si diceva, costituiscono i sottotesti misteriosi, le finezze, gli ingredienti ‘segreti’ di questo spettacolo.
Nel terzo atto (il secondo nella lettura di Latella) tutto questo non può non riverberare: Bergamasco, davvero “indiavolata”, capace di attingere espressività molto varie, entra in scena col minuetto e poi si slancia e si scatena quando la musica si fa violentemente percussiva in una danza quasi selvaggia. Si spoglia di uno spolverino “da signora”, lo piega e lo depone, lo nasconde, sotto la cucina dove nelle scene precedenti, diffondendo in sala un buon odore di soffritto e di sugo, ha cucinato un intingolo che ha conquistato il cavaliere.
E qui io interpreto, ‘sogno’: ripone in un cassetto quello che è stato anche un suo desiderio, perché con quel cavaliere qualcosa era scattato. Tanto ne aveva avvicinato il corpo, tanto aveva giocato a sedurlo, da rimanerne anche lei scottata. Il desiderio è pericoloso, incontrollabile: a eccitarlo infiamma, senza regole. Ma bisogna rinunciare, anche se questa rinuncia può essere amara.
Qui il regista ci mette qualcosa di profondamente suo, una malinconia che rincorre in vari spettacoli, che sgangherano le famiglie costituite e che, mi pare, cercano l’amore forte, quello che fa tremare, che strappa le maschere. Che qui alla fine vengono ricomposte, rientrando nei ranghi dell’eredità.
È lei a congedarci, intensa più che mai, Sonia-Mirandolina: il regista la staglia in una luce concentrata, mentre intorno si diffonde il buio: invita gli spettatori, con Goldoni, a trarre profitto da quanto abbiamo visto e “quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della locandiera”. Quello spegnersi, fino al controluce e al buio, incidono più fortemente l’idea di avere assistito a un sogno, a una malizia e a una malia, che riesce a nascondere, a censurare, verità diverse da quello che dicono le azioni, le parole, le risoluzioni. Un mistero più profondo, che contribuisce a scatenare il successo clamoroso che la sala tributa all’attrice, alla compagnia, al regista.
DA LEGGERE:
Due libri, non hanno a che vedere con lo spettacolo, ma possono accompagnare la conoscenza dei protagonisti.
Il primo è una confessione di Sonia Bergamasco sulle radici e il maturare della propria arte, Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice (Einaudi, pp. 142, euro 16); il secondo è un romanzo debordante, psichedelico, fuori dai canoni di Antonio Latella, Incanto (Il Saggiatore, pp. 808, euro 29), una reinvenzione contemporanea della Dorothy del Mago di Oz: ma di questo un’altra volta.
Le fotografie sono di Gianluca Pantaleo.