Dialoghi, monologhi, urla in classe / Va in scena il prof.

9 Maggio 2022

Il fatal error per un prof è entrare in classe stanco, fiacco, mogio: i giovani vampiri che lo attendono hanno sensori sottilissimi che avvertono che la preda in quell’ora sarai tu, urlante o meno; del resto, loro sono 25 e tu sei solo. Non sono poi così convinto che ai vecchi tempi le classi fossero così miti per default. C’erano le punizioni corporali, il sarcasmo umiliante dei docenti («No dark sarcasm in the classroom!» cantavano i Pink Floyd in Another brick in the wall, 1979), ma se esiste un ribelle è perché esiste un’autorità; e le sfide all’autorità e i ribelli sempre esisteranno. Il prof, spiegano Mario Maviglia e Laura Bertocchi nel loro L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento (Milano, Mondadori Università), dovrebbe rendersi conto che quando entra in classe entra in scena.

 

 

C’è un pubblico sufficiente per definirlo una platea, per cui deve interpretare un copione; il copione, se non è più l’insegnamento con lezione frontale, il versar sapienza in teste vuote, resta il suo armamentario, la sua preparazione, quello che sa e come sa trasformarlo in apprendimento. Non sarà sempre un combattimento, o una seduzione, ma se attiverà dialogo e tutta la missilistica delle più eterogenee metodologie didattiche ce la farà. Ma se il cosa insegnare è obbligatorio apprenderlo, il come comunicarlo rimane del tutto spontaneo e individuale. E non è “libertà di insegnamento” ma rischio di fallimento.

 

 

Nella didattica universitaria c’è un autore che da tempo lavora su nuovi paradigmi, Pier Cesare Rivoltella, che da fine anni Novanta ha scritto libri che avrebbero dovuto trasformarsi direttamente in direttive ministeriali, in criteri della selezione dei docenti (che si chiama ancora con orrendo lessico militare “reclutamento”): Teoria della comunicazione, Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende sono le basi della sua metodologia EAS (Episodi di Apprendimento Situato), che dal 2014 ha cominciato ad essere sperimentata qua e là; si propongono agli studenti esperienze di apprendimento «situato e significativo», che portano alla realizzazione di «artefatti digitali»; i nonni sacri di questa didattica sono Freinet, Montessori, Dewey, Bruner, Gardner, Don Milani, la Flipped Lesson…

 

Non ci mancano i modelli didattici e pedagogici avanzati: il problema, in una scuola italiana che strangola il 70% del tempo e dell’energia dei docenti in una ragnatela asfissiante e demotivante di riunioni, procedure, consigli, collegi, funzioni strumentali, procedure e normative è come riuscire a non perdere di vista l’unica cosa che conta, ovvero l’accadere di un apprendimento vivo, dinamico, emotivo nella vita degli studenti. 

C’è chi “sa tenere la classe” e chi no. Non saper tenere la classe ha remunerazione karmica istantanea: ti faranno saltare i nervi, ti stancherai come una bestia e dopo qualche anno darai i numeri (tecnicamente si chiama “burn-out”). Quindi, dobbiamo saper tenere la scena. Sempre è stato così, e non potrà cambiare. Ma i recenti decenni di life coaching e guru della comunicazione verbale, para verbale e non verbale hanno moltiplicato la strumentazione per arrivare a sapere cosa stiamo facendo, cioè alla “metacognizione del docente”: più che saper indossare la maschera dell’attore classico greco, i due autori nei fatti convincono che la maschera va gettata, invece.

 

 

Possiamo mettere insieme ciò che hanno scritto Jacob Levi Moreno dagli anni Quaranta con il suo psicodramma e la sostanziale invenzione del “role playing”, Albert Mehrabian in antropologia dal 1967 (solo il 7% della comunicazione si veicola nel contenuto detto, la gran parte passa dalla voce con cui lo diciamo e dal para verbale del nostro corpo emozionale), Michael Argyle in psicologia sociale (Bodily Communication, 1975). Maviglia & Bertocchi hanno insegnato e insegnano a Brescia, dove il Centro Teatrale Bresciano diretto da Camilla Baresani da anni propone ai docenti stages sui linguaggi teatrali, sugli aspetti dinamici del linguaggio poetico, sulla comunicazione tramite corpo, voce, dialogo.

 

Parafrasando Jean Léon Jaurès gli autori arrivano alla quintessenza del mestiere del prof: «Non si insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere, ma si insegna e si può insegnare solo quello che si è»; l’attore-insegnante deve saper modulare la prossemica (sto vicinissimo, vicino, distante dagli studenti? E quando?), la voce (non sarò mono-tono, ma dovrò articolare drammaticamente picchi e pause, e silenzi, per mantenere la loro attenzione), la scaletta di ogni ora (quanto parlo io? Quanto dialogo? Quanto ascolto? Quanto sto seduto? Quanto mi muovo? Come mi muovo?) eccetera.

La praticabilità di questo breve manuale può dire molto all’autoformazione sul campo di ogni prof, e chiudo con due invettive.

 

È assurdo che nella scuola oggi Teatro non sia una “disciplina” curricolare praticata da docenti e da studenti: leggere un testo, impararlo a memoria, metterlo in scena, interagire con altri studenti-attori, creare i costumi, le scene, le luci, la regia, affrontare un pubblico mette in grado ogni studente di lavorare su gran parte delle otto competenze chiave proposte universalmente dall’ONU, poi dall’UE, ora pervasive nella scuola italiana; che senso ha che ci siano Musica e Arte e non ci sia Teatro? Il male endemico della scuola secondaria italiana è l’astratta separazione delle discipline: Musica, Arte Teatro, lettura e scrittura, parlato e ascolto dovrebbero operare in continua progettazione e condivisione creando l’artefatto per eccellenza, ovvero la rappresentazione con i propri corpi dei propri saperi e delle proprie emozioni! il Social Emotional Learning (SEL) che nella scuola italiana sta ancora fuori dalle mura.

Il concorso ordinario che si sta svolgendo in queste settimane ha falciato il 90% dei candidati (una prova scritta a quiz con quattro risposte chiuse) in modo vergognoso; in due anni il Ministero dell’Istruzione ha sparato all’impazzata sei concorsi (ordinari, straordinari, STEM…) con criteri di prova completamente diversi l’uno dall’altro. Nelle ultime cinquanta domande dell’ordinario 2022 si riportava un sonetto di Shakespeare con un verso mancante e occorreva scriverlo, oppure bisognava dire da quale romanzo di Calvino o Vittorini o Pavese erano tratte tre righe, o di quale poeta duecentesco erano due strofe, e via così, nell’apoteosi della memorizzazione nozionistica; quando la gran parte dei candidati ogni giorno a scuola come supplente precario lavora con ben altre competenze. Come è possibile (lo scrivono anche Maviglia e Bertocchi) che l’unico momento di formazione al comunicare agli studenti e con gli studenti siano alcune ore nell’anno di prova (dopo la vittoria in un concorso), in cui un collega tutor ti osserva in compresenza in classe per eventualmente suggerirti modalità più efficaci? Insegnare a portare in azione una lezione, insegnare a lavorare su voce, corpo, prossemica, tornare a retorica e oratoria, a efficace dizione non sarebbero le vere “audizioni” su cui formare e selezionare i nuovi insegnanti?

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