Vincenzo Consolo. Mare, dove mi porti?

20 Giugno 2022

Nella primavera del 1999 avevo 22 anni e frequentavo Scienze Politiche. Prendevo parte a scombinati gruppi di studio autorganizzati e militavo, anche se la parola è un po’ troppo invadente rispetto all’appartenenza fluida di quegli anni, in una formazione della sinistra universitaria. Fu in questo contesto che, insieme a Barbara Borlini, organizzai una rassegna di appuntamenti pubblici sul tema delle migrazioni. La svolta multiculturale (insieme alla crisi ambientale) era la vera nuova questione sociale che la nostra generazione si trovava di fronte. Da almeno un decennio Milano, come le altre grandi città italiane, aveva incominciato a cambiare volto, la presenza straniera nelle vie e nei quartieri era ormai una realtà quotidiana, mentre il Mediterraneo, dopo l’improvviso arrivo delle navi cariche di fuggiaschi albanesi (Lamerica raccontata da Gianni Amelio), prendeva ad essere solcato da fragili corpi in movimento. Stava delineandosi quella feroce politica di chiusura dei confini, invisibili ma sacri, che avrebbe segnato i decenni successivi (è del 1997 il naufragio della Katër i Radës, causato da una motovedetta italiana, in cui 81 profughi morirono e 27 furono i dispersi) e la paura degli immigrati, alimentata da un linguaggio violento e aggressivo che avrebbe via via pervaso la scena, faceva la sua sinistra comparsa nella politica italiana.

Il programma di incontri era fitto e comprendeva, com’è giusto, sociologi, antropologi, mediatori culturali. Ma anche presenze meno scontate. Invitammo ad esempio un giovane, bello e ancora sconosciuto regista romano, che aveva da poco esordito con due piccoli film sull’immigrazione che ci erano piaciuti molto, perché raccontavano, con sguardo originale e una già forte impronta registica, una Roma marginale e neo-pasoliniana. Il suo nome era Matteo Garrone.

Per aprire il percorso scegliemmo invece un documentario che Gianni Amelio aveva da poco realizzato a partire da materiali d’archivio, Poveri noi, con il quale volevamo proporre una ideale staffetta tra la vera e propria ondata di genti, che dal Sud e dal Veneto, aveva trovato approdo a Milano negli anni del Boom economico, e la nuova migrazione straniera. Fu in quella occasione che contattammo Vincenzo Consolo, per chiedergli di provare a raccontare agli studenti quella zona in ombra della memoria collettiva, fatta di emancipazione e riscatto ma anche di rifiuto e sofferenze rimosse.

Consolo era forse lo scrittore italiano della sua generazione che aveva perseguito con maggiore tenacia una ricerca letteraria e linguistica meticolosa e pura, se quest’ultimo aggettivo non si prestasse a interpretazioni fuorvianti. Perché Vincenzo Consolo, e le due cose sono meno in contraddizione di quanto sembrino, era anche un intellettuale che non si tirava certo indietro quando sentiva la necessità di partecipare al dibattito pubblico, con polemiche anche aspre a difesa della giustizia sociale e della dignità. “Uno scrittore isolato, e solitario, sciolto da legami politici, quale io sono, quali credo dovrebbero essere gli scrittori: liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici”, così si definiva in un intervento sul “Messaggero” del 1993 in cui, a ridosso dell’elezione del primo sindaco leghista di Milano, denunciava la degenerazione culturale e politica che avrebbe connotato i decenni a venire.  

Il modo in cui lo contattammo – “Buonasera, parlo con Vincenzo Consolo, lo scrittore?”, ci sembrava impossibile potesse essere raggiunto così facilmente, spulciando l’elenco telefonico – la sua immediata disponibilità, che si tradusse nell’invito ad andarlo a trovare nella bellissima casa di corso Indipendenza, tra pastis e dolci di marzapane offerti da sua moglie Caterina, cosa che facemmo più volte, la curiosità con cui si informava delle nostre vite e interessi, tutto questo racconta forse un altro tempo e un’altra città, in cui un grande scrittore e intellettuale, che si era formato con nomi che noi studiavamo a scuola (Vittorini e Sciascia, per limitarci ai suoi conterranei), aveva voglia, tempo ed entusiasmo per rispondere alle richieste di due ragazzi.

Quel giorno dell’aprile di ventitré anni fa, in un’aula un tempo barocca di via Conservatorio, Consolo ci propose una rilettura di lungo periodo del Mediterraneo come storia di continue migrazioni, per arrivare alle sue prime memorie di Milano, studente alla Cattolica che incrocia e osserva lo scorrere degli emigranti siciliani in transito per le miniere del Belgio. Un bellissimo excursus, che Consolo raccontò con la sua voce ironica e attenta, appoggiandosi a un dattiloscritto che è riportato per la prima volta di seguito, e che letto oggi rende ancora più vere le parole amare dello scrittore siciliano sulla crudeltà e l’indifferenza che continua a colpire il destino dei profughi.

 

VINCENZO CONSOLO

Intervento scritto in occasione dell’incontro “Milano: Vecchie e nuove migrazioni” presso l’Università Statale di Milano, Facoltà di Scienze Politiche. Aprile 1999.

“Addio città

un tempo fortunata, tu di belle

rocche superba; se del tutto Pallade

non ti avesse annientata, certo ancora

oggi ti leveresti alta da terra.”

(Euripide: Le Troiane)

 

"Presto, padre mio, dunque: sali sulle mie spalle,

io voglio portarti, né questa sarà fatica per me.

Comunque vadan le cose, insieme un solo pericolo,

una sola salvezza avrem l'uno e l'altro. Il piccolo

Iulio mi venga dietro, discosta segua i miei passi la sposa"

(Virgilio: Eneide) 

 

Questi versi da Le troiane di Euripide e dall’Eneide di Virgilio sono dedicati ai fuggiaschi di ogni epoca, agli scampati di ogni guerra, di ogni disastro, a ogni uomo costretto a lasciare la propria città, la propria patria e a vivere altrove. Sono dedicati oggi alle infelici popolazioni del Kosovo. 

La storia del mondo è storia di emigrazione di popolazioni – per necessità, per costrizione – da una regione a un'altra. Nel nostro Mediterraneo, nella Grecia peninsulare, gli Achei lì emigrati nel XIV secolo a.C. danno origine alla civiltà micenea che soppianta la civiltà cretese, che a sua volta viene offuscata dalla migrazione dorica nel Peloponneso.

Con questi Greci cominciò, nel XII secolo a.C., la grande espansione colonizzatrice nelle coste del Mediterraneo – in Cirenaica, nell'Italia Meridionale (Magna Grecia), in Sicilia, Francia (Marsiglia), Spagna. La colonizzazione greca nella Magna Grecia e in Sicilia avvenne con organizzate spedizioni di emigranti, di fratrìe, comunità di varie città – Megara, Corinto, Messane... – che sotto il comando di un ecista, un capo, tentavano l'avventura in quel Nuovo Mondo che era per loro il Mediterraneo occidentale. Si conoscono i nomi degli ecisti, almeno delle colonie che avrebbero fondato Siracusa e Megara Iblea: Archia e Lamis.

Ma non voglio certo qui fare – non saprei farla – la storia dell’emigrazione nell’antichità. Voglio dire soltanto che l'emigrazione è fra i segni più forti – oltre quelli delle guerre, delle invasioni – della storia. Segno forte, l'emigrazione, della storia italiana moderna. 

"Dall'unità d'Italia non meno di ventisei milioni d'italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che, per vastità, costanza e caratteristiche, non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo." Questo scrive Enriquez Spagnoletti in un numero dedicato all'emigrazione della rivista, fondata da Calamandrei, Il Ponte.

Sull'emigrazione italiana nel Nuovo Mondo, esiste, sappiamo, una vastissima letteratura, storico-sociologica, documentaria, ma anche una letteratura letteraria. Il racconto “Dagli Appennini alle Ande” del Cuore di De Amicis è il più famoso. Ma anche Sull'Oceano, del I889. Meno famoso è invece il poemetto “Italy” di Pascoli.  

“Sacro all'Italia raminga ne è l'epigrafe.

A Caprona, una sera di febbraio,

gente veniva, ed era già per l'erta,

veniva su da Cincinnati, Ohio.” 

Vi si narra di una famigliola della Garfagnana che ritorna dall'America per la malattia della piccola Molly. Nel poemetto compare Enriquez Spagnoletti ed è la prima volta nella letteratura italiana – il plurilinguismo: il garfagnino dei nonni, lo slang della coppia e l'inglese della bambina. 

Venne, sapendo della lor venuta,

gente, e qualcosa rispondeva a tutti.

Joe, grave: "Oh yes, è fiero... vi saluta...

molti bìsini, oh yes... No, tiene un frutti-

stendo... Oh yes, vende checche, candi, scrima...

conta moneta! può campar coi frutti..."

Non era allora solo nelle Americhe, o nella Mérica, l'emigrazione, essa avveniva anche, soprattutto dal Meridione, dalla Sicilia, nelle coste maghrebine, e in Tunisia particolarmente. Comincia questa emigrazione nei primi anni dell'Ottocento. Ed è di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: "Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti". In Tunisia si fa esule Garibaldi. C’erano banchieri che venivano da Livorno, tutti di origine ebraica, che erano quegli ebrei sefarditi che erano stati cacciati dalla Spagna nel 1492 e che si erano stabiliti in Toscana, perché la Toscana dei Medici era il regno più liberale e tollerante che c’era allora. 

immigrati

La grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell'Ottocento e i primi del Novecento con la crisi economica, legata anche alla malattia della filossera, che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Susa, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa.

Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell'interno, v'erano popolosi quartieri che erano chiamati "Piccola Sicilia" o "Piccola Calabria". Si aprirono allora scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale, fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria, per togliere all'Italia questa supremazia. Tutto questo portò al trattato del Bardo del 1881 e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilivano il protettorato francese sulla Tunisia. La Francia cominciò così la politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti la cittadinanza francese. Frequentando le scuole gratuite francesi, il figlio di poveri emigranti siciliani, Mario Scalesi, divenne francofono e scrisse in francese Les poèmes d'un maudit, fu così il primo poeta francofono del Maghreb, un poeta straordinario che è morto giovanissimo in un modo tragico. Anche sotto il Protettorato l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. 

Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell'attraversamento del canale di Sicilia su mezzi di fortuna. La Reggenza francese, di fronte a quel continuo affluire di diseredati, ricorse ai rimpatri. Nei primi cinque anni del '900 ben 13.000 furono rimpatriati (vedete come la storia dell’emigrazione, nelle sue dinamiche, negli effetti, si ripete). Nel 1914 giunge a Tunisi Andrea Costa, in quel momento vice-presidente della Camera. Visita le regioni dove vivono le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: "Ho percorso la Tunisia da un capo all'altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi alla vostra sorte".

I riflessi che la guerra di Libia, la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra e il dopoguerra poi hanno avuto sulla comunità italiana di Tunisia è storia molto complessa per poterla qui riassumere.

La fine degli anni Sessanta, nell'Italia del miracolo economico, segna la data fatidica dell'inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, segna l'inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra.

A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, perché c’era il traghetto Tunisi–Trapani, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.

A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie quei vuoti, nella pesca, nell'edilizia, nell'agricoltura, che l'emigrazione interna italiana aveva lasciato. I primi magrebini a Mazara trovano lavoro come scapozzatori, coloro che puliscono i gamberetti, gli tolgono la testa prima che vengano surgelati e mandati nei mercati del Nord. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la guerra del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani e le autorità libiche e tunisine. In questi conflitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi, i quali, oltre ad essere sfruttati, venivano di tempo in tempo perseguitati. Odiosi episodi sono avvenuti, in quella parte sud-occidentale della Sicilia, di "caccia al tunisino".

Su questa prima emigrazione maghrebina in Sicilia, un giovane sociologo di Mazara, Antonino Cusumano, ha scritto un libro ben documentato, Il ritorno infelice, pubblicato nel'76 da Sellerio.

Sono passati trent'anni dall'inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna programmazione, nessun accordo fra Governi c'è stato. Si è operato solo sull'emergenza. E si è giunti all’emigrazione massiccia, inarrestabile, da ogni parte del Mediterraneo nel nostro paese, di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare ricorrendo spesso a metodi duri, drastici – come quelli dell'estate scorsa, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell'uomo.

Di fronte agli episodi di Lampedusa, di Pantelleria, di Caltanissetta o di Agrigento, di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe dai centri cosiddetti di accoglienza, scontri con le forze dell'ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci ritornano allora in mente le parole sempre attuali – alla luce anche di quello che sta accadendo nella ex Jugoslavia – che Braudel riferiva a un'epoca passata:

"In tutto il Mediterraneo l'uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari". 

Vecchie e nuove migrazioni a Milano recita il titolo di questo incontro. Non essendo io uno storico né un sociologo, ma solo un narratore, devo mettere allora in campo l'ingombrante e spesso irritante pronome io per poter raccontare della mia esperienza riguardo all'emigrazione a Milano.

Una mattina velata di nebbia del novembre del '51, arrivai a Milano ed entrai nel convitto Augustinianum di via Necchi, presso la piazza Sant'Ambrogio, per frequentare l'Università Cattolica. La Cattolica era allora frequentata dai figli della buona borghesia milanese e lombarda e da una massa di meridionali e di veneti, in gran parte mandati qui dai parroci e dai vescovi, spesso muniti di certificato di povertà che permetteva loro di alloggiare gratuitamente nel convitto. Io pagavo 20 mila lire al mese per la stanza-cella e per il vitto. Dal Meridione erano approdati alla Cattolica in quegli anni i due fratelli De Mita, Ciriaco ed Enrico, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi; dall'Emilia i fratelli Prodi. Nella piazza Sant'Ambrogio, oltre alla basilica romanica e all'Università, c'era, e c'è tuttavia, direbbe il Manzoni, un grande fabbricato, un ex convento settecentesco. In questo fabbricato era il COI, il Centro Orientamento Immigrati. Era in atto in quegli anni la grande emigrazione italiana, il grande esodo dal Sud verso il Nord, verso il centro Europa. "Imparate una lingua e andate all'estero" era stato il consiglio di De Gasperi. Ma questi emigranti prima che una lingua straniera, avrebbero ancora dovuto imparare l'italiano. Andavano dunque, come prima altri, chiusi in una doppia barriera linguistica. Gli emigranti venivano prelevati alla Stazione Centrale, caricati su appositi tram che non avevano numero e scaricati in piazza Sant'Ambrogio. Accolti nel Centro, erano sottoposti a visita medica da delegazioni straniere, francesi, svizzere, belghe (per gli emigranti che andavano in Germania il Centro di smistamento era a Verona). Al Centro di piazza Sant'Ambrogio gli emigranti restavano tre o quattro giorni. Quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, a Milano venivano già equipaggiati di casco, lanterna e mantellina cerata. I minatori siciliani passavano così dalle zolfatare del Nisseno e dell'Agrigentino, che allora chiudevano per la crisi dello zolfo, alle miniere del Belgio. Alcuni di loro avrebbero trovato lì la morte nell'incendio della miniera di Marcinelle. 

In piazza Sant'Ambrogio, nello stesso ex convento, accanto al Centro degli emigranti, c'era una caserma della Celere. A noi studentelli privilegiati poteva capitare d'incontrare in quella piazza o nelle latterie e trattorie delle vicine via Terragio o via Nirone il compaesano che emigrava o quello in divisa da poliziotto, col manganello alla cintola (c'erano molti scioperi in quegli anni e la polizia del ministro degli Interni Scelba caricava gli operai che scioperavano). A me è capitato di incontrare, vestito da poliziotto, Giacomino, uno che giocava con me al pallone all'oratorio. Non so se gli studenti della Cattolica che poi sarebbero diventati famosi uomini politici, classe dirigente italiana, non so se hanno visto allora in piazza Sant'Ambrogio gli emigranti e i poliziotti.

Durante gli anni universitari avevo deciso di fare lo scrittore, di tornare in Sicilia per scrivere. Volevo raccontare la realtà contadina siciliana con una scrittura di tipo sociologico, di estrema comunicazione. Le mie letture allora erano prevalentemente storico-politiche, di autori meridionali e meridionalisti.

In Sicilia, mi misi a insegnare nelle scuole agrarie. Andavo in sperduti paesi di montagna. Insegnai a Mistretta, a Caronia, grossi centri sopra i Nebrodi che una volta erano vivi e fiorenti e che in quegli anni si andavano svuotando. I padri dei miei alunni erano emigrati, i figli avrebbero seguito la stessa sorte. A Caronia, mi colpì il gran numero di suicidi, soprattutto di donne, che si verificarono nell'arco di un anno. Il mondo contadino che avevo pensato di raccontare si dileguava, mi spariva sotto gli occhi. La scuola in cui insegnavo, in cui gli alunni, una volta diplomati in agraria, sarebbero stati costretti ad emigrare e a trasformarsi in operai, a Torino, a Cinisello Balsamo, a Sesto San Giovanni, in Svizzera o in Germania, mi sembrava una finzione, un'impostura. La Sicilia era ormai chiusa nelle strettissime maglie di un potere politico-mafioso. L'alternativa, anche per me, era quella di consegnarmi nelle mani di quel potere, farmi complice di esso, accettando magari un incarico di tipo culturale, oppure fare la valigia, salire sul treno del Sole ed emigrare. "Vai" mi disse Sciascia. "Vai. Qui non c'è più speranza. Fossi più giovane, senza famiglia, partirei anch'io". C'era anche la sollecitazione di una rivista letteraria come Il Menabò, diretta da Vittorini e Calvino, che dibatteva sul rapporto tra letteratura e industria, a conoscere la nuova realtà industriale italiana, la nuova realtà sociale delle grandi città del Nord in seguito all'immigrazione meridionale, a rappresentarla.

Vittorini preconizzava la nascita di nuove lingue, nuove koinè che sarebbero sorte dall'incrocio di dialetti settentrionali con quelli meridionali. Non aveva previsto che su tutto sarebbe passato il rullo compressore della nuova lingua mediatica italiana, la nuova lingua analizzata nel '61 da Pasolini.

Ritorno dunque a Milano nel '68. Il primo di gennaio del '68, viaggiando nella notte di San Silvestro. Arrivo in una Milano fredda, piena di neve.

Cercai allora di capire la realtà di una città industriale qual era Milano. Studiai allora il fenomeno dell'emigrazione interna. Lessi i libri che allora venivano pubblicati su questo fenomeno. Come L'immigrazione nel triangolo industriale a cura di Giovanni Pellicciari o Milano Corea di Franco Alasia e Danilo Montaldi.  In questo ultimo libro, dopo la prima parte di carattere sociologico, redatta da Montaldi, vi è la parte testimoniale, di vari emigrati che raccontano la loro vita. C'è quella, emblematica per me, di Salvatore C. 48 anni, prov. Caltanissetta. (Mazzarino). Altri libri erano La terra in faccia Gli immigrati raccontano e Gli immigrati a Milano di Alda Marchetti.

Dopo quelli che avevo visto negli anni Cinquanta in piazza Sant'Ambrogio, altri immigrati ho visto a Milano, rifugiati questa volta, quindici giorni dopo essere giunto in questa città. Ho visto quelli che erano fuggiti dalla Sicilia, dalla Valle del Belice, a causa del terremoto del 14 – 15 gennaio 1968 e dei giorni seguenti, che erano stati spinti anche con una sovvenzione ad andarsene per toglierseli dai piedi. Sono andato a vedere questi fuggitivi, questi emigranti che stavano in un rifugio nei binari della Stazione Centrale, con un mio amico fotografo che si chiama Fernando Scianna. Insieme siamo riusciti a documentare l’arrivo di questi esuli del terremoto. Questo fenomeno migratorio è stato analizzato dettagliatamente da Baglivo, Marchetti e Pellicciari nel libro sopra citato. Il titolo dello studio è: Lo shock degli immigrati giunti a Milano dalle zone terremotate della Sicilia. I problemi dell'assistenza: parole e fatti. 

In quel periodo lavoravo per il Tempo Illustrato, un giornale libero e molto vivace, dove scrivevano Pasolini, Giorgio Bocca, Davide Maria Turoldo, e per il quale feci molte inchieste. Ne feci una, ad esempio, su una comunità di immigrati che da un paese siciliano, che si chiamava Pietraperzia, si erano trasferiti tutti a Pioltello Limito. 

Altri fuggiti, altri emigranti giungono oggi nel nostro paese, in questa città. Altri ne giungeranno. Perché i disastri della natura, e soprattutto quelli della storia, non finiscono mai. Voglio finire questa conversazione ancora con dei versi, questa volta dall'Ecuba di Euripide.

“Vento, vento di mare / che rechi sul gonfio dell'acqua / navi che

rapide varcano mari, / dove, povera me, mi vuoi portare?”

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