La paura dei nostri sentimenti quotidiani / Vittime senza compassione
E noi qui? Non ci sono luoghi immuni, né anime tranquille. Nessuno di noi si può chiamare fuori. Quello che sentiamo dentro ognuno di noi e per strada, anche qui da noi, in queste ore, di fronte all’orrore terroristico, corrisponde più o meno alla domanda: e perché qui da noi non succede ancora? Quando succederà? Un senso indefinito di paura pervade i nostri sentimenti quotidiani. È proprio l’indefinitezza una delle cause principali del nostro disagio. Nel momento in cui l’altra persona, un cestino dei rifiuti, persino un bambino, possono diventare un’arma, non riusciamo più a controllare il disagio e l’angoscia. Se si aggiunge a tutto questo la mediatizzazione della distruttività che fa ricadere nel nostro mondo interno, goccia a goccia, la paura, ne ricaviamo un effetto problematico che, nella psicologia individuale e collettiva, può essere definito di vittimizzazione secondaria. È come se intorno ai crateri delle esplosioni, dove purtroppo ci sono vittime dirette delle tragedie, si creasse un effetto alone, un processo a catena, secondario appunto, che porta a noi che siamo qui e a chi è in altri luoghi “sicuri” simili al nostro, uno stato di angoscia che agisce sul nostro senso di libertà, sulla nostra sicurezza, sul nostro senso del possibile, come un’ombra. Quell’ombra della sicurezza genera disturbi più o meno intensi a seconda della nostra sensibilità, della nostra capacità di lettura e reazione, della nostra disposizione ad affermare una differenza rispetto alla barbarie.
Dovremmo allora finalmente considerare almeno due aspetti del tutto che possono aiutarci. Da un lato possiamo fare un esame di realtà delle nostre responsabilità in quello che sta accadendo: responsabilità indirette e dirette che riguardano quanto abbiamo fatto e continuiamo a fare, ciechi di fronte al rapporto tra nord e sud del Mediterraneo, ad esempio, e tra le nostre azioni in quei paesi e nei nostri, che stanno alla base del risentimento distruttivo. Un esame di realtà che ci porti a cambiare orientamenti e strategie. D’altro lato sembra proprio tempo di riconoscere il valore del processo di civilizzazione delle nostre città e dei nostri paesi, in cui abbiamo creato forme di vita fondate sulla convivenza e la libertà, sui diritti e sulla cultura, che devono essere la base della nostra azione e reazione. Non si tratta di accampare un principio di superiorità di qualche tipo. Bensì di riferirsi a quello che Heinz von Forster ci ha insegnato essere il principio etico fondamentale: agisci in modo da aumentare il numero delle possibilità per te e per gli altri. Un disegno di forme di vita che minorizzano e vogliono ridurre o annullare libertà, diritti, cultura, mortificando l’essere e l’agire, è il contrario di quello che siamo e di quello che vogliamo.
Abbiamo la responsabilità di fare di quel principio la base della nostra reazione e della nostra azione. In questo proposito abbiamo non solo un nemico esterno che ci tiene in tensione e che aizzando gli orientamenti reattivi e distruttivi nostrani riesce, con la sua provocazione, ad aumentare le nostre ansie, le nostre paure e i nostri desideri di reazione reciproca e vendetta. Abbiamo anche e soprattutto un nemico interno: la nostra disposizione ad assuefarci e a scivolare lentamente in uno stato di terrore. La chiamiamo compassion fade quella disposizione. La compassione mostrata nei confronti degli eventi catastrofici e critici e verso le vittime spesso diminuisce all’aumentare del numero degli eventi e delle persone che necessitano di aiuti. Tale "dissolvenza della compassione" può ostacolare la presa di coscienza individuale e la capacità di risposte collettive, soprattutto a fronte dell’estendersi di situazioni di crisi su larga scala. Fino ad oggi, la ricerca sulla questo fenomeno si è concentrata sulle sfide umanitarie; non vi sono ricerche che abbiano studiato se e in quale misura esso emerge quando le vittime sono altri non umani, mentre abbiamo prove che si verifica nel settore ambientale, ma solo tra i non ambientalisti.
Questi risultati suggeriscono che la dissolvenza della compassione può vincolare la nostra capacità collettiva e la volontà di affrontare i gravi problemi ambientali che abbiamo di fronte, tra cui il cambiamento climatico. L'effetto di moderazione osservato con la sua diffusione può rappresentare una barriera psicologica significativa alla costruzione di un ampio sostegno pubblico per affrontare questi problemi. Gli stessi risultati emergono a proposito di eventi terroristici. Non solo tende a dissolversi la compassione, ma crescendo la paura sembra che tenda ad aumentare l’individualismo egoistico e a calare il comportamento pro-sociale. Il rapporto tra giudizio e decisione è, insomma, decisamente alterato e influenzato dalla dissolvenza della compassione e, come spesso accade, si afferma la forza dell’abitudine e la neutralizzazione della spinta a cambiare qualcosa nei nostri comportamenti. Siamo di fronte all’ennesima prova che la consapevolezza non basta per generare un cambiamento. Non solo perché la sua forza immediata sfuma, ma anche perché tendiamo prevalentemente a rassicurarci nella consuetudine. Mentre di fronte alla prima manifestazione di un evento la sensibilità e la reazione tendono ad essere elevate, abbastanza presto la rassicurazione che ci deriva da un adattamento alla consuetudine prende il sopravvento. La stessa consuetudine si trasforma e quello che ci pareva impossibile da sostenere e contenere viene progressivamente normalizzato, fino alla prossima escalation. Questa tendenza non è ineluttabile e necessaria, anche se molto influente e pervasiva. Per essere messa in discussione richiede alcune condizioni. Tra esse, un deciso investimento in eccedenza rispetto al trend della dissolvenza della compassione; una leadership in grado di proporre i vantaggi di comportamenti responsabili e attivi intorno a problemi sociali e pubblici; un’etica della responsabilità civile che metta al centro la partecipazione attiva e il bene pubblico, la libertà, la giustizia e il valore delle differenze.