29 aprile 1945: un fotografo a Piazzale Loreto

11 Gennaio 2023

Una luce di vetro, una calda luce avvolgente scivola su Milano nella prima domenica di pace. È il 29 aprile 1945. Si è spento da poco lo strepito delle armi. Milano libera, finalmente, pare acquietata. 

Nelle strade c’è però un esteso trambusto, un’indefinita agitazione. Fin dalle prime ore del mattino, va circolando la voce che i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci e altri 15 gerarchi fascisti, fucilati dai partigiani il giorno prima, a Giulino di Mezzegra e a Dongo, nel corso della notte, siano stati portati a Piazzale Loreto, e lì scaricati qualche ora prima dell’alba. “Radio Milano liberata” ne ha dato notizia. E la notizia, ora, gonfia gli animi. Certo, la morte di Mussolini suona incredibile, ma alle manifestazioni dell’incredibile i milanesi sono avvezzi da tempo. 

Attorno alle 9 del mattino, Luigi Ferrario, 30 anni, fotografo dilettante, esce dalla sua casa di via Sansovino per vedere che cosa sta accadendo. Si chiede perché in quella prima giornata di quiete l’aria della città sia ancora così elettrica. Una volta in strada, perplesso, procede a passo lento, come fosse frenato da una residua incertezza. Ma si fida di quella luce di esuberante primavera, che sembra promettere un’altra vita, ignorando la riserva d’orrore nascosta nel cuore del quartiere, fra vie ben conosciute, tracciati familiari percorsi ogni giorno da migliaia di lavoratori pendolari in direzione delle fabbriche. Nell’arco di poche ore, quel paesaggio mille volte attraversato si trasformerà in una nera voragine. E lì, nella prima mattina del 29 aprile 1945, intiepidita da un leggero soffio di speranza, Luigi Ferrario comincia a inoltrarsi fermandosi per cogliere le immagini che gli si fanno incontro tra corso Buenos Aires, via San Gregorio e viale Abruzzi. 

Ma almeno l’ombra di un qualche sospetto Luigi Ferrario ce la doveva avere, se uscendo di casa porta con sé la sua macchina fotografica, una Agfa Isopan F acquistata da poco: il sospetto di trovarsi, lungo il corso di quella memorabile mattina, di fronte a qualcosa di enorme, un macabro teatro della morte, tangibile attestazione della rotta del fascismo e dei suoi protagonisti, dove vengono esibiti non solo i corpi disfatti del suo capo, della sua amante, e di alcuni fedelissimi seguaci; sulla scena di quell’arena salgono, irruenti, anche i sentimenti convulsi, tumultuosi, dell’intera umanità che si è affacciata sul piazzale. Chiunque può sputare o tirare raffiche di calci sul corpo inerme del dittatore, che per vent’anni ha tenuto in mano il destino degli italiani, e ribadire, a ogni colpo, la sua disfatta. “Adesso, fai il tuo discorso”, grida un uomo di mezza età rivolgendosi al cadavere di Mussolini come se fosse vivo.

Nessuna immagine, nessun fermo fotografico, potrà arrivare a contenere quella debordante umanità in subbuglio. “Vociavano rancori, giustificazioni, lamenti, abiure, alibi, esecrazioni, esorcismi”, racconta lo scrittore Oreste Del Buono, allora ventiduenne, appena uscito da una prigione tedesca, dove ha passato un anno e mezzo. Come tanti, ha seguito la corrente della folla, cercando di barcamenarsi nell’ondeggiante caos del piazzale.

Per arrivare al punto in cui il lungo rettifilo di corso Buenos Aires confluisce nel piazzale Loreto, Luigi Ferrario ci mette un paio d’ore. Si ferma più volte, per soppesare quello che vede, ed è solo il preambolo di quello che, poco più avanti, vedrà. A corso Buenos Aires, dove Ferrario si è immesso poco dopo essere uscito di casa, c’è un assembramento di uomini armati, poi autocarri che sfrecciano traboccanti di partigiani in festa, e a San Gregorio, appena a lato rispetto al corso, nel chiostro dell’antico Lazzaretto, tre donne rapate a zero, accusate di collaborazionismo, vengono sorvegliate a vista da un uomo armato. Si appoggiano l’una all’altra, come per proteggersi. Non manifestano segni di paura, c’è attesa piuttosto, qualche parola, e un intreccio di sguardi. Pensano forse che il peggio sia passato, e aspettano che qualcuno decida del loro destino.

Sul fondo, di spalle, un altro fotografo (ce ne sono diversi disseminati lungo le strade che portano al Piazzale). Potrebbe essere Christian Schiefer, arrivato da Lugano per incarico del suo giornale. È a Milano dalla sera prima, dopo un lungo viaggio con una scorta del CLN. A Como, nel tardo pomeriggio del 28, ha incrociato la popolazione in festa per l’avvenuta liberazione.

Ha una storia Christian Schiefer, svizzero di lingua tedesca, fotografo di professione, titolare di un negozio aperto a Lugano da oltre vent’anni. Comincia da ragazzo a riprendere le montagne attorno a Davos, poi si specializza in ritratti, cartoline, e brochures per i grandi alberghi sul Lago. Questa è la forma abituale della sua attività, che viene interrotta con un incarico di prestigio: fotografare i capolavori (Holbein, Bosch, Rembrandt…) della straordinaria collezione d’arte del barone von Thissen, conservata a Villa Favorita, vicino Lugano (trasferita a Madrid qualche anno fa). Non è facile governare la luce nell’ordito di luce e ombra della grande pittura. Schiefer pare ci sia riuscito.

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Fotografia di Luigi Ferrario.

Ma passa oltre. Nel ’43, comincia a guardare dentro la realtà che ha attorno, ben celata agli occhi dell’ordinata Svizzera. Entra in un campo di accoglienza per rifugiati, e ne documenta la vita. Ed è forse per questa particolare curvatura del suo volersi fotografo, che ora si ritrova a Milano, nell’antico Lazzaretto, in prossimità della bolgia di Piazzale Loreto. È lì per vedere, e vedrà.

Non è molta la distanza che separa via San Gregorio, dove Ferrario e Schiefer si sono fermati, dall’area del Piazzale. Ma, attorno alle 11, il muro della folla pare insormontabile, tanto che il partigiano che fa da scorta a Schiefer lo tiene per mano “come un bambino”, e ogni tanto, per farsi largo, spara un colpo di pistola in aria, gridando: “Stampa estera! Fate passare!” Così Schiefer arriva dove deve arrivare, al cospetto dell’orrore. E, con fatica, ci arriva anche Ferrario, che, spinto da ogni parte, quasi inciampa sul corpo del gerarca Alessandro Pavolini, l’irriducibile. Lo fotografa: sembra un fantoccio di pezza.  

A fine mattina, la pressione della piazza diventa insostenibile. “Schiumava convulsa la folla”, scrive Andrea Damiano. Intervengono i vigili del fuoco con gli idranti: getti d’acqua per raffreddare il furore, e arginare la calca, ma anche per rinfrescare i corpi rimasti esposti al sole durante l’intera mattinata. Non basta: viene deciso di issarli sulle travi della pompa di benzina, dove erano stati abbandonati. Ed è questa l’immagine che più di ogni altra compendia l’accaduto, e impietosamente lo fissa: i cadaveri, pesti, “a testa in giù”, che colano acqua e sangue, la folla in basso, a perdita d’occhio. “I più agitati sparavano ancora su quei corpi già morti, su quelli appesi e su quelli sdraiati”, ricorda Schiefer.

Alle 13.30 i corpi vengono rimossi e portati all’obitorio, per intervento del cardinale Schuster. “Gli urli di esecrazione e di esultanza si spensero, si diffuse un silenzio greve di sgomento, come subentrasse la volontà di Dio e quella fosse veramente la fine”, ha raccontato il colonnello Charles Poletti, commissario del governo militare alleato.

Ma dal cerchio soffocante del piazzale, Luigi Ferrario esce prima, saturo e stordito. È una fuga la sua. A San Babila incontra la sfilata delle formazioni partigiane. E termina la sua dotazione di pose (36) con un’immagine di pace che probabilmente era andata cercando fin dal mattino, uscendo di casa: il sorriso tranquillo di una ragazza che esibisce il tricolore. In quel sorriso, sente futuro. E questo è abbastanza per quella prima domenica di pace.

Più o meno alla stessa ora, Christian Schiefer fa ritorno a Lugano, sviluppa le foto, le manda al giornale, che si rifiuta di pubblicarle. Usciranno pochi giorni dopo sul “New York Times”.

Fonti:

Enzo Minervini, “Fotoracconto: Milano 29,4,1945”, in “Lombardia beni culturali.it”, 2015.
Giovanni Scirocco, “Un fotografo a Piazzale Loreto”, in Le immagini delle guerre contemporanee, a cura di Maurizio Guerri, Roma, 2017.
Andrea Damiano, Rosso e grigio, Bologna, 2000.

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Nell'immagine di copertina la fotografia è di Luigi Ferrario.

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