Abbassa il cielo e scendi. La follia negli occhi di un fratello

4 Ottobre 2022

La mia fallace natura fa sì che io non ascolti mai le didascalie, quelle di chi camminando in un bosco vede un fiore un animale un monte e subito deve dirti nome e dati scientifici. Io preferisco guardarmi in santa pace le cose così come si presentano e basta, constatarne la bellezza o meno, ma per favore niente didascalie seduta stante. Lasciatemi un minimo di spazio tra me e la conoscenza. Prima voglio un po’ di sensazione, di ignoto, di odore coscienziale… Non so, una sorta di musica prima della musica (un momento che immagino con il sottofondo sonoro della magnifica ouverture di “Nel Cielo E Nelle Altre Cose Mute” del Banco del Mutuo Soccorso, 1978).

 

Il romanzo Abbassa il cielo e scendi di Giorgio Boatti (Mondadori 2022, pp.262), secondo me, va affrontato così, come fosse uno sforzo potente di catturare il senso della vita per quella che è, senza didascalie, appunto. Ma prima vale la pena di accennare al percorso dell’autore, che è un percorso di avvicinamento, per così dire, progressivo alla realtà individuale. Un giornalista impegnatissimo a “rendere conto” agli italiani delle storie più spinose della loro società, dai grandi disastri naturali (terremoto di Messina del 1908), alle vicissitudini degli illustri accademici che si opposero a Mussolini, alle inquietanti vicende dei servizi segreti nazionali fino agli anni Ottanta, alla strage di Piazza Fontana (per cui ha sfidato i responsabili in un processo che lo ha visto pienamente assolto).

Poi nel 2012 con Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni (Mondadori, 2012-2022) Boatti giunge a una fase più riflessiva, di meditazione, che in Abbassa il cielo e scendi trova in qualche modo una sistemazione. Come fa Davide chiedendolo a Dio, nei Salmi (144/5), anche lui dice a ciascuno di noi “abbassa il cielo e scendi”, invitandoci a uscire e cercare la vita là dove e come si dà.   

Il romanzo è la storia di un uomo a cui è stato dato di vivere nella follia, e di chi ne percepisce pian piano la verità; è un inno alla vita nel suo mentre, al di là della storia, dei costrutti culturali, delle convenzioni e dei compromessi. Chi narra racconta di suo fratello più grande, Bruno, e del suo rapido precipitare nella malattia mentale. Da piccolo avverte la gravità della situazione, mentre i genitori escono con grandi fatiche dalla povertà del secondo dopoguerra e lasciano la campagna per la città alla ricerca di una condizione di vita migliore. “Noi due fermi, per pochi istanti, sulle bici, e all’orizzonte, in fondo alla strada provinciale, la città…” così il fratellino di Bruno racconta il momento straziante dell’addio al paese, cioè alla sua infanzia, sepolta pochi giorni prima con il suo cagnolino Tumin, amico fidato e morto ingiustamente.

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È il momento del miracolo del boom economico, che per la povera gente tanto miracolo non è, la metamorfosi avviene, certo, ma ha i suoi alti prezzi da far pagare a coloro che nella povera vita contadina si sono materialmente e culturalmente strutturati. “Famiglia unita – Casa di proprietà – Studio per i figli”, questi sono i valori del padre disposto a tutto per realizzarli. Anche a lavorare gratuitamente nel giardino del manicomio dove Bruno, “la pietra scartata”, è stato ricoverato, e suo papà vuole ingraziarsi i medici affinché lo curino meglio.

La malattia mentale di Bruno fa da controcanto alla lenta e faticosa ascesa verso il benessere: il narratore assiste ai primi “fallimenti” del fratello espulso dal seminario, alle sue avventure in un improbabile servizio militare, al lavoro come impiegato comunale. L’Italia, che ha acquisito la TV e le automobili (e la lingua italiana parlata fuori dalle scuole), è attraversata dalle tensioni sociali dei Sessanta e Settanta, e la famiglia di Bruno è attanagliata dai suoi primi ricoveri in ospedale psichiatrico ancora prevalentemente pre-basagliano (su questo torniamo dopo). Sono due treni che corrono su due binari paralleli, ma a diverse velocità, e trasportano realtà molto distanti, pur avendo lo stesso mentre.

Il fratellino piccolo, che ora racconta, nel frattempo cresce e diventa uno studente molto coinvolto nella lotta politica di allora, sta dalla parte dei lavoratori e frequenta persino la scuola di partito (alle Frattocchie), da cui però prenderà le distanze quando l’U.R.S.S. occuperà Praga nel ‘68. Si costruisce una vita mentre i genitori se ne vanno, prima il padre, poi la madre, con i loro lontani segreti che aiutano a spiegare le origini della malattia di Bruno.

È questa assenza che induce “il fratello più piccolo” ad avvicinarsi senza più riserve e timori a Bruno, assistendolo in ognuno dei suoi passaggi, tra uscite e rientri nelle case di cura che lo accompagneranno, le fughe e le sue “quasi morti”, tra una lebbra immaginaria, fantasmi e voci intollerabili. Vedrà Bruno soffrire e perdersi sempre più, ma anche conoscere l’amore. È lui che porterà sulle proprie spalle i fardelli della società italiana, vissuta professionalmente, e della vita “assoluta” di Bruno; due pesi e due misure grazie a cui arriverà alla consapevolezza più profonda sull’esistenza.

La riflessione sull’orientamento contemporaneo della psichiatria che il libro offre è quanto mai utile. Boatti dice che “Siamo tornati tutti indietro. Malati e famiglie, medici e operatori che a qualsiasi titolo hanno a che fare con la salute e la malattia mentale: siamo scivolati nelle vicinanze di dove eravamo partiti. Non esattamente alla clinica degli elettroshock e al manicomio dei primi ricoveri ma, fatte le dovute proporzioni, tira una brutta aria di restaurazione”.

E ancora: “La ritirata, col tempo, si è fatta sempre più vertiginosa, scandita dal succedersi dei DSM (Manuale diagnostico dei disturbi mentali) che, un’edizione dopo l’altra, hanno moltiplicato diagnosi e classificazioni di patologie. Più che insegnare a chi cura il chinarsi sulle persone, il saperle ascoltare, l’approccio prevalente è stato quello di classificare, come se ogni caso non fosse un pezzo unico e prezioso, anche se fallato, una creatura irripetibile, nel suo modo faticoso e spiazzante, di stare al mondo” (p.234).

Qui la mano dell’indagatore sociale e dello storico si fa sentire, la piaga di un’Italia che ancora oggi non sa adeguatamente affrontare il problema dei malati di mente nonostante la rivoluzione di Franco Basaglia, è ancora una volta denunciata. A questo proposito ricorderei il libro di Paolo Milone, uno psichiatra che ha deciso di far vedere, per via letteraria, il dentro di quel mondo. In L’arte di legare le persone (Einaudi 2021) ci mostra le contraddizioni di quel sistema di brutture coercitive ma anche le risorse (di poesia, di tenera sensibilità, di dolcezza nuda) che da lì possono derivare.

Senza entrare nel merito specialistico (il libro di Milone è stato anche severamente stigmatizzato da taluni addetti ai lavori), si tratta qui, credo, di ribadire la dimensione pur tuttavia umana che il mondo della malattia mentale contiene ed emana. Per questo mi pare doveroso segnalare, per la sua coerenza al tema e la sua particolare intensità, anche il libro di Massimo Ammaniti, Passoscuro (Bompiani 2022), dedicato alla sua esperienza con i pazienti psichiatrici bambini.

Ma poi c’è lo scrittore, il lato poetico da cui Boatti guarda quella vita, quelle vite, che perdute non sono. La conclusione, a cui è molto bello arrivare dopo le asperità e gli orrori della malattia, è una dichiarazione illuminante di accettazione di ciò che, comunque, ci sorregge, del pulsare vivido di cui siamo fatti. “Forse c’è davvero un altro modo di abitare la vita. Forse c’è un mondo possibile dove ciascuno fa semplicemente la sua parte affinché le cose vadano al meglio. Come dovrebbero andare sempre, schivando quanto è dannoso, inutile, complice del male. Spianando ostacoli. Chinandosi su chi, fragile o smarrito, inciampa, tendendogli la mano per rialzarlo.” 

C’è persino una poesia, una versificazione, non so quanto involontaria: si tratta dell’indice, dei titoli dei capitoli (poco didascalici…) in cui si sente quella “musica prima della musica” di cui parlavo prima. Ne trascrivo solo alcuni come fossero versi (non me ne voglia l’autore): “Apri le mie labbra / Porgi l’orecchio / La pietra scartata / Con cuore doppio / Intorno a me sia la notte / Sul suo dorso hanno arato / Le sue foglie non cadranno / Pecore da macello / Anche il passero trova una casa”. Io credo che il “coefficiente” di poeticità di tutto il romanzo sia espresso con grande forza da quell’indice. Sono le essenze vitali, le energie nitide dell’umano, che l’autore ci mette a disposizione come fonte di immaginazione ulteriore.

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TAGGED: Giorgio Boatti

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