Un libro di Francesco Stoppa / Adolescenza e vecchiaia nella società dell'eterna giovinezza

15 Marzo 2021

Forse fra giovani e vecchi è arrivata l’ora di fare i conti. L’aria che tira è piuttosto pesante, volano recriminazioni, e il setaccio pandemico fa sì che ogni cosa sia soppesata e valutata dal punto di vista assoluto della sopravvivenza, in un generalizzato mors tua vita mea. Sembra che i guai combinati dai nuovi vecchi (dopo li vedremo) stiano venendo a galla tutti d’un colpo e che i ragazzi ne stiano prendendo coscienza e comincino a reagire. La questione è divenuta ormai cruciale poiché intacca direttamente il farsi quotidiano dei rapporti umani in senso lato, e, se non focalizzata, rischia di manomettere le dinamiche più essenziali di un indispensabile equilibrio generale della società.

Le indicazioni generiche di un malessere intergenerazionale si avvertono ormai da tempo, che i rapporti e le specifiche assunzioni di responsabilità di giovani e vecchi siano cambiati lo si vede nelle più comuni situazioni di convivenza di cui la comunicazione onnipresente dà conto nelle maniere più o meno appropriate. Ma ora sempre più c’è il bisogno di una diagnosi il più accurata possibile, che mostri con precisione dove stanno le rotture, le faglie, gli inceppi, e che indichi una strada che aiuti a produrre soluzioni. 

 

Va in questa direzione il lavoro che lo psicoanalista (lacaniano) Francesco Stoppa sta svolgendo da tempo: osservando il muoversi sociale nello spettro temporale degli ultimi dieci anni individua proprio nel rapporto intergenerazionale una delle chiavi di lettura del nostro tempo. Il primo passaggio riguarda la “rottura del patto” tra le generazioni e il secondo l’individuazione di un terreno di lavoro comune in cui provare a ritessere la trama esistenziale del nostro tempo. In un libro di qualche anno fa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni (Feltrinelli 2011), Stoppa ricostruiva – quasi fosse uno storico –, le fasi in cui si è realizzato il distacco tra giovani e vecchi.

L’incapacità di concepire il proprio tramonto, secondo Stoppa, è probabilmente il peccato originale della generazione adulta di oggi. A compromettere la tenuta del patto tra giovani e adulti è “l’eccesso di copertura e garantismo con cui i genitori hanno allevato i propri figli”; recludendoli in una campana di vetro che li ha esclusi di fatto dal campo delle responsabilità familiari e sociali (p.47). La generazione della contestazione, che oggi si trova alle prese con la fase della transizione intergenerazionale, ha steso il suo ombrello protettivo sul presente dei propri figli e anziché passare il testimone e affrontare il “tratto traumatico” del passaggio, “tende a mantenere i suoi legittimi successori in una condizione di dipendenza […]. In questo modo salta la possibilità stessa del patto, e il processo che dovrebbe garantire la trasmissione simbolica e il reciproco riconoscimento tra le generazioni risulta invalidato a monte” (p.48). E allora come potrà la nuova generazione restituire a sua volta ciò che non le è stato trasmesso? Omero diceva (libro ottavo dell’Odissea) che “gli dèi tessono disgrazie affinché alle future generazioni / non manchi di che cantare”: sarà così.

 

 

Nel nuovo libro Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza (Feltrinelli 2021), Stoppa individua nell’adolescenza e nella vecchiaia “le età per antonomasia della vita”, intendendo per età “quelle soglie critiche che ci costringono a rinegoziare il rapporto con noi stessi e col mondo” e per vita “ciò per cui non siamo mai pronti”. Ma proprio in quanto età della vita, adolescenza e vecchiaia, – che sono “tempi logici” e non solo cronologici –, inevitabilmente sono anche “le età del desiderio”. Una definizione di che cosa sia il desiderio non è facile: per desiderio, dice l’autore, non dobbiamo limitarci a pensare semplicemente “alle nostre voglie o ai nostri bisogni”; non è la speranza di tornare a un “prima”, di recuperare o ricostituire un qualcosa di smarrito o rotto che di fatto è perduto per sempre (l’infanzia o l’età adulta); e non è neppure un segno delle stelle che l’oroscopo sembrerebbe suggerire (de-sidera è “un venir meno delle stelle”). C’è un’altra dimensione del desiderio, che riguarda “ciò che si muove in noi nel momento in cui ci troviamo in uno stato di smarrimento conseguente alla perdita delle nostre certezze” (p.11-12).

 

È questo, sostiene Stoppa, che definisce lo status in cui adolescenti e vecchi sperimentano le loro “identità incerte e residuali”; per loro il desiderio “è l’ospite inatteso e spesso ingombrante o recalcitrante che non viene a chiudere il cerchio e a confermare le aspettative, ma che spariglia i buoni propositi costringendoci a ritornare sui come e sui perché” (p.14).

Fra tutti gli esseri viventi siamo i soli ad avere i titoli per prenderci cura della vita grazie a ciò che ci permette di fare il linguaggio (“l’unica patria reale, l’unico suolo sul quale possiamo camminare, l’unica casa in cui possiamo fermarci e trovare riparo”, come diceva Michel Foucault). Noi guardiamo la vita con diffidenza, la temiamo anche perché essa si trasforma e ci chiede sempre di più per seguirne gli sviluppi, ma è grazie alla parola, appunto, che noi possiamo esercitare il nostro tocco umano che è l’“arte di esserci senza imporsi, la capacità, al momento giusto, di sapersi sottrarre per lasciare spazio all’imprevedibile evoluzione delle cose”. Questo è il nostro “dire di sì alla vita”, ed è in questo che troviamo il “congegno invisibile che regola il fatto umano per eccellenza, il passaggio tra le generazioni” (p.13). Da questa esperienza può ricavare la gioia (gaudium) chi si ritrova dopo aver attraversato angoscia e dolore di esistere. 

 

Nel momento in cui adolescenti e vecchi sono alle prese con la rinegoziazione della propria vita essi divengono dei veri laboratori di “scrittura e riscrittura della condizione umana”, ma proprio in questa fase della loro vita appaiono, al mondo adulto, gli esseri più avulsi, i meno adatti. Come il Wakefield di Nathaniel Hawthorne (1834): “Gli individui sono così finemente ingranati in un sistema, e i sistemi l’uno nell’altro in un tutto, che, facendosi per un momento da parte, un uomo si espone allo spaventoso rischio di perdere per sempre il proprio posto. Come Wakefield, egli potrebbe diventare, diciamo così, il Reietto dell’Universo”. 

 

La riflessione di Stoppa si sofferma sul “nòcciolo del nostro essere” (Freud), il “nostro mistero”, su ciò che sta tra noi e la vita e che solo il linguaggio della Poesia giunge talvolta a esprimere: “un fulmine che squarcia il cielo e poi si spegne, a riprova di come il nostro sia un essere senza fissa dimora che si concede solo in dissolvenza o per intermittenza negli intervalli del discorso cosciente, grazie al prodursi di un taglio nella continuità dell’esistenza” (p.163). Il punto è che mentre gli antichi avevano messo a punto una “capacità di elaborazione collettiva” di ogni manifestazione problematica della vita che permetteva loro di incassare i colpi più duri e andare avanti, “la sacralità di tipo feticistico” di oggi, orientata dalle merci, crea l’illusione di abitare una eterna stabilità. 

 

La stabilità della società, dunque, è fatta anche di instabilità e, se il tocco umano (“esserci senza imporsi”) agisce, spinte e controspinte si armonizzano, consentendo il transito equilibrato delle generazioni, nell’umanissima dimensione del sacro, “punto di convergenza di forze e tendenze opposte”. Di questo si tratta, del lato oscuro della nostra natura, che non è una semplice questione di quantità sociali, di economie, di convenienze di categoria. È in gioco l’umano in senso assoluto: adolescenti e vecchi, nella loro arte di crescere e di tramontare, scrivono il mondo perché in realtà del mondo sono l’incarnazione più dinamica.

 

Le età del desiderio è la diagnosi di un malfunzionamento, ma suggerisce anche elementi di terapia. Se per gli adolescenti il percorso è comunque “ascensionale” (vedi qui Sentimenti adolescenti), diversa è la prospettiva dell’invecchiamento, che rimane uno “scenario di guerra” (vedi qui l'articolo Che vecchio potrei essere?). A mio avviso, va massimamente esplicitato il volto acido della vecchiaia, quello che chiude tutto lo spazio esistenziale nell’empiria vitale, quello dei milioni e milioni di individui immersi negli stenti economici, nel nudo dolore dell’acciacco. Vecchi la cui saggezza è solo fittizia, un banale buon senso figlio di una riflessione povera, altro che “armonie autunnali”. Proprio questo dato di fatto generale e insidiosissimo deve imporre alla vecchiaia contemporanea di essere in ogni senso attiva e reattiva, pena l’autoflagellazione. Ma una volta che ci si è messi al riparo dall’incultura patogena (“al botulino”) delle innaturali mitologie mercantili, è certo che per chi invecchia, oggi più che mai, cogliere tempestivamente la consapevolezza di sé come fattore socialmente indispensabile, come parte di un prezioso transeunte collettivo, significa arricchirsi di un essenziale passaggio verso il proprio compimento umano. A maggior ragione in un’epoca in cui la scienza ci mette a disposizione qualche decennio in più da vivere, l’“estate indiana della vita”, come la definisce Pascal Bruckner nel suo bel saggio Una breve eternità. Filosofia della longevità (Guanda 2020). Insomma, come dei vecchi giocatori di poker incalliti abbiamo l’opportunità di rilanciare. 

 

E i segni di umanità possono giungere persino dagli animali domestici, esseri non propriamente umani ma “umanizzati” che ci stanno molto vicini nella vita, e dei quali impariamo non di rado le movenze. Stoppa riferisce – è un dovuto riportarlo – del grande toccante atto d’affetto, e nobile esempio di restituzione, che Alidoro, il vecchio cagnolino di famiglia giunto al termine, offre con un ultimo slancio vitale alla sua componente più giovane, in un gesto di gratitudine estrema: “Teneva ancora gli occhi aperti, quel piccolo e valoroso naufrago della vita. ‘Muoiono così i cani’, fu la risposta del veterinario interpellato sul fatto. Così, con gli occhi aperti davanti alla vita”.

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