L’avanguardia catalana e la scena politica / Agrupación Señor Serrano, l’arte di contraffarre le immagini
Quante insidie si nascondono dietro a un’immagine? Siamo in grado di individuarle e di difenderci? La questione, in una società che affida proprio all’immagine la maggior parte delle sue narrazioni, è cruciale e profondamente politica. Ed è questo il tema che l’ensemble catalano Agrupación Señor Serrano affronta da alcuni anni, con leggerezza solo apparente. Dunque non fidatevi troppo di Àlex Serrano e Pau Palacios (due dei fondatori) quando parlano con understatement della loro poetica, disinnescandola tra battute e sorrisi sornioni: in realtà il gruppo, premiato con il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2015, opera con precisione chirurgica su alcuni dei più delicati nervi scoperti del contemporaneo.
Il merito di averli riportati in territorio italiano va a Zona K di Milano: una piccola realtà che, pur muovendosi in un territorio sovraccarico di proposte come quello meneghino, mostra ormai da qualche anno una notevole personalità curatoriale e un lodevole coraggio nella programmazione. Questa volta in cartellone, tra fine novembre e inizio dicembre, è stato presentato un prezioso focus dedicato all’avanguardia catalana: non solo Agrupación Señor Serrano, ma anche uno dei primi esperimenti di ingaggio partecipativo dello spettatore attraverso le cuffie, cioè il fortunatissimo Domini Pùblic di Roger Bernat (una creazione del 2008, vista a Santarcangelo nel 2010, cui hanno guardato da subito con interesse, tra gli altri, anche i Rimini Protokoll). Zona K ha offerto al folto pubblico della rassegna la possibilità di vedere due lavori di Serrano e compari: uno dei cavalli di battaglia della compagnia, Katastrophe (2011) e una delle creazioni più recenti, Birdie (2016).
Uno sguardo parallelo sui due lavori rivela chiaramente con quanta coerenza, ma anche con quanta disponibilità al cambiamento, si stia dispiegando il percorso della compagnia. Il linguaggio scelto resta il medesimo: i performer operano in presenza movimentando una scena in miniatura, abitata da piccoli animaletti e da infiniti altri ammennicoli, e riprendono in diretta il dettaglio delle loro azioni proiettandole ingrandite su uno schermo, a beneficio del pubblico.
Potrebbe sembrare una raffinata e disimpegnata versione 2.0 del teatro di figura, ma c’è ben di più: lo spettatore si trova alle prese con un triplo piano costantemente attivo (gli oggetti concretamente presenti in scena; la trasposizione di quello stesso scenario nell’immagine proiettata; i performer in carne ed ossa che agiscono davanti al pubblico) ed è invitato a ragionare sugli scarti e le contraddizioni che vengono a crearsi tra i tre piani. In Katastrophe, per esempio, viene proposta una al pubblico una ‘dolce favola’ che è tutta da scomporre e decostruire: nel video di dispiegano le vicende comico-epiche di una colonia di orsetti Haribo che fronteggia una lunga serie di disgrazie naturali e di migrazioni alla ricerca di un posto dove stare.
Naturalmente i fuggiaschi di oggi diventeranno gli intransigenti imperialisti di domani (come testimoniano le immagini dei leader capo-orsetti, con le sembianze di Bush e Hitler); ma non risiede soltanto qui, nella doppia lettura un po’ prevedibile della fiaba, la chiave politica dello spettacolo. È piuttosto il registro emotivamente carico con cui le immagini ci vengono proposte il punto su cui vale la pena riflettere: le peripezie degli orsetti diventano drammatiche perché riprese e proiettate in un certo modo, e ci scopriamo nostro malgrado a empatizzare con un gruppo di caramelle gommose che si sciolgono pateticamente al suolo. Il pubblico ride di gusto della demenziale saga Haribo, i performer sorridono e, tra una ripresa e l’altra, si aprono una birra e brindano: qui, in teatro, è possibile giocare a carte scoperte. Ma cosa accade quando i protagonisti di queste vicende non sono orsetti e, soprattutto, quando non abbiamo la possibilità di sbirciare direttamente il meccanismo e i burattinai non ci mettono la faccia come l’Agrupación Señor Serrano?
Birdie mostra chiaramente l’evoluzione della medesima ricerca e continua implacabile a porre la stessa domanda: siamo davvero capaci di leggere le immagini? Al centro del racconto, non a caso, un fotografo attivo in una località di frontiera (Melilla, città autonoma spagnola situata in Marocco) e uno scatto che si rivelerà il vero asse di senso delle performance. Alcuni uomini giocano a golf, mentre alle loro spalle un gruppo di clandestini scavalca il recinto del confine.
Ogni dettaglio dell’immagine viene isolato, analizzato, ingrandito, accostato in parallelo ad altri oggetti e ad altri elementi visivi. Alla fine del percorso niente è più quello che era: né l’immagine, che ha ampliato a dismisura il proprio potenziale significante, né l’osservatore, che ha acuito il proprio spirito analitico. Infine, un attore in carne ed ossa si pone al centro del palco, facendosi copia vivente di uno dei clandestini fotografati: il qui ed ora della rappresentazione teatrale si impone d’improvviso in tutto il suo potenziale empatico.
Interpellati sulla scelta del loro codice espressivo, e sulla scomparsa dell’attore dalla scena, Àlex Serrano e Pau Palacios amano rispondere che oggi, sul palco, non c’è più spazio per i personaggi né sospensione dell’incredulità. Ma il nesso, così caro alle riflessioni e agli studi sul teatro, pare in questo caso uscire da un contesto puramente scenico per farsi sprone politico per i cittadini 2.0: sarà il caso di non sospenderla affatto, l’incredulità, se vogliamo provare a essere spettatori consapevoli del nostro mondo.
Zona K ha vinto ieri, 14 dicembre 2016, il premio Rete Critica per il miglior progetto organizzativo