Alfonso Cuarón. Gravity
Quando si parla di libertà bisogna sempre fare molta attenzione. Si tratta di una parola particolarmente scivolosa e sfuggente; uno di quelli che Lacan avrebbe definito “significanti fluttuanti”. Più che avere una vera e propria definizione condivisa, individua un campo semantico (e quindi ideologico) di contestazione. La definizione di “che cosa sia” la libertà, quanto meno nella modernità, è diventata una delle poste in palio più rilevanti della lotta e del dibattito politico. Non stupisce allora che da quando il capitalismo è diventato davvero “the only game in town”, come dicono gli americani, la libertà sia stata definita quasi esclusivamente nella sua accezione liberale, ovvero come libertà negativa.
Che cos’è la libertà negativa? Negli Stati Uniti, dove la parola “freedom” è davvero sulla bocca di tutti, è ormai senso comune: anche l’uomo della strada si definirebbe libero quando è sciolto dai vincoli, dalle determinazioni, dai limiti, dalle imposizioni. Non c’è bisogno di scomodare Easy Rider, basta ognuno e/o qualunque dei film della storia del cinema americano per capire che quando si parla di libertà c’è sempre una strada che va verso ovest, una macchina (o un cavallo), e una situazione che ci si lascia alle spalle, dietro di sé. Per ricominciare da zero senza l’ombra di un passato.
Proviamo allora a pensare a che fattezze avrebbe un’immagine di una tale radicalissima e assoluta libertà se portata all’estremo. Una libertà capace di recidere ogni vincolo, ogni limite, in grado persino di abbandonare la società degli uomini e la natura. Alfonso Cuarón, con una trovata davvero stupefacente, se la immagina come libera persino dal più universale di tutti i vincoli: quella forza che ci tiene legati alla terra. La gravità.
Gravity è infatti la metafora dell’ultimo dei vincoli che ci pone un limite. Oltre quella soglia possiamo essere finalmente liberi. Ovviamente se pensiamo che essere liberi voglia dire essere liberi da qualcosa. L’incredibile sequenza con cui si apre il film ci mostra i due astronauti protagonisti, Matt Kovalsky (George Clooney) e la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) vagare fuori dalla propria astronave per lo spazio. La terra è lontana, lo spazio è nerissimo, i loro corpi si muovono sinuosi e goffi come solo quelli degli astronauti sanno essere. E il 3D per una volta non è una furbata, ma è il modo migliore per mostrarci questi oggetti che non hanno più né una collocazione né uno sfondo. Perché questa libertà vuol dire anche che ogni cosa è irrelata a ogni altra: tutto si muove senza incontrare nient’altro. Non sono solo i protagonisti, è l’universo intero a essere solo.
“La vista della terra da qui è meravigliosa – dice Clooney. – Cosa le piace di più dello stare qui?” chiede a Sandra Bullock. “Il silenzio”, gli risponde lei. La contemplazione e la solitudine dunque. Il soggetto sciolto da ogni vincolo è un puro nulla. Ma basta un attimo perché questo nulla si tramuti improvvisamente in incubo. L’espediente drammaturgico è una pioggia di detriti che si scaglia a gran forza contro la navicella spaziale dei due protagonisti. Perché si può provare a fuggire da tutti i vincoli, ma anche nel puro vuoto dello spazio non è possibile lasciarsi alle spalle quel vincolo fondamentale che è il proprio essere un soggetto (nel senso che ce ne dà la psicoanalisi di essere “assoggettati”). E dunque i propri fantasmi sono destinati a tornare.
Ma l’espediente non è casuale. Jonás Cuarón, figlio del regista e co-sceneggiatore di Gravity, in conferenza stampa a Venezia ha ammesso di essersi rifatto alla “sindrome di Kessler”: uno scenario, proposto nel 1991 dal consulente NASA Donald J. Kessler, che prevede un possibile rischio derivante dall’accumularsi di detriti spaziali nell’orbita bassa intorno alla Terra. La collisione tra rifiuti spaziali (il numero dei satelliti attorno alla terra ormai è molto elevato) può così portare a una reazione a catena di detriti su detriti e collisioni su collisioni, che renderebbe inagibile la bassa orbita terrestre per molte generazioni.
Indipendentemente dalla verosimiglianza o meno di tale scenario, la reazione a catena della sindrome di Kessler è tutt’altro che pretestuosa. Ha qualcosa di emblematico il fatto che sia proprio una catena infinita e incontrollabile di cause a risvegliare i due protagonisti e far tramutare il loro sogno di libertà in un incubo.
Chi si immagina di poter recidere i propri vincoli (e quindi le proprie cause) è destinato a vederli riemergere nella forma deformante della minaccia. Il rimosso non può che ritornare. Cuarón costruisce da lì un film teso e pieno di inquietudine, che ribalta l’immensità che vediamo nella sequenza iniziale in un progressivo e incombente senso di morte. Lo spazio non è più sinonimo di fuga e libertà, ma si trasforma in una cappa claustrofobica, tanto più soffocante quanto più ha le sembianze del suo opposto, l’infinitamente aperto. L’ossigeno è sempre poco, le astronavi sono sempre avariate, senza carburante, i detriti spaziali ritornano con spietata puntualità. Siamo nello spazio, eppure sembra non esserci via di fuga.
Non vogliamo svelare al lettore gli snodi fondamentali della drammaturgia di questo film. Ci basti però fare cenno al fatto che per Cuarón se ci può essere un’esperienza vera della libertà, non può che passare dal culmine della propria nullificazione. Non si tratta più però della nullificazione di chi vuol fuggire dai vincoli e dai legami, e si pensa sciolto e solitario; ma del baratro del proprio essere un niente.
Non il niente della libertà dunque, ma il niente assoluto, ovvero la morte. È solo guardando in faccia la morte, e in un certo senso facendone direttamente esperienza, che è possibile trasformare la libertà negativa del da in una libertà positiva, immanente eppure infinita. È solo lì che il vincolo non avrà più le sembianze dell’ostacolo che dev’essere oltrepassato (verso un oltre che in definitiva non esiste, nemmeno nello spazio), ma che diventerà definitivamente possibilità del qui e ora.