Ambiguità comunicativa
Ogni segno può essere letto attraverso il suo contrario. In bel saggio di alcuni anni fa Giulio Lepschy aveva rivisitato la passione di Freud per un saggio di Carl Abel sulle parole di significato opposto: Altus, che significa sia alto che profondo, e tanti altri esempi. Lepschy è un linguista, e Freud lo aveva letto tutto, e nel chiarire gli equivoci della sua lettura di Abel, non liquidava affatto il problema principale che è al centro della teoria dell’inconscio: che le cose ci si presentino attraverso significanti che appaiono opposti (in fondo è la stessa idea alla base di Hegel) e siano sempre tese, nella loro significazione, in un ambito conteso tra polarità semantiche. Detto altrimenti, tra il sì e il no c’è tutto, e lo sforzo che facciamo in ogni comunicazione di dire con semplicità cose non ambigue, che ad esempio si passa con il verde e ci si ferma con il rosso, sono costantemente agite da una materia più ampia, non personale, che non è consapevole, dove le cose sono appunto anche il loro contrario, e altro ancora, che insomma l’atto comunicativo è un’ambizione normativa, un tentare di dire quello che pensiamo ma che se si va oltre e pensiamo a cosa effettivamente pensiamo, quale sia il mondo che attraverso noi si esprime, non c’è un sistema, che sia scienza storia o qualunque altra forma di razionalità, che possa contenere ciò che è di lei più vasto e contraddittorio. Vi alludono i miti, ma certo neppure loro possono dire.
Questi temi hanno appassionato gli esseri umani da sempre e nel novecento soprattutto i linguisti e sappiamo oggi tante cose sul linguaggio senza che, come osservava di nuovo Lepschy, la competenza possa mai confondersi con la conoscenza.
Ma l’aspetto che ci riguarda esistenzialmente su come funzionino i significati e le significazioni va oltre la linguistica ed è al tempo stesso molto privato, personale, e storico ed estrinseco ai soggetti parlanti. Nella lingua e nel modo di pensare noi siamo sempre sottoposti a pressioni a cui cerchiamo di assimilarci. Non esiste una lingua italiana e nessun’altra che sia semplicemente un sistema. I latini che conquistano e normano l’impero d’oriente e occidente sono le culture che assorbono, Tito distrugge Gerusalemme ma il cristianesimo, che all’inizio non è altro che una delle numerose sette dell’ebraismo (nel museo di Tel Aviv che si chiama “noi” nell’ebraismo contemporaneo ne conta dodici oggi attive), ridefinisce l’impero e avvia il medioevo cristiano; le popolazioni del nord Europa che sono state a lungo la periferia di quell’impero stabiliscono in Italia settentrionale diversi regni. Gli italiani di oggi sono figli di questi incroci e di tanti altri e oggi, con l’enorme influenza americana che nutre circa l’80 % dei programmi televisivi (o con traduzioni o con riproduzioni di format), siamo tutti un po’ americani. Americani, ma intendiamo con questo termine gli emigranti (dapprima soprattutto europei) anglicizzati, nonostante lo spagnolo sia altrettanto comune. Perché le eredità storiche di oppressione di un popolo su un altro si manifestano poi con l’importanza che una lingua e un modo di comportarsi hanno sulla struttura sociale di una popolazione. L’importanza che assume in Italia non solo la conoscenza della lingua inglese, ma un certo modo di pensare che affida a legge e mercato la ragionevolezza e condanna le alleanze precedenti, spesso in Italia mediate dalla chiesa cattolica o da altri poteri locali, a un ruolo arcaico.
La lingua che parliamo è un continuo tentare di assimilarci ad ambienti sociali che portano memoria antica e recente, storica e personale attraverso le famiglie, di conflitti e oppressioni, di revanscismi e adeguamenti.
Alla fine, la passione di Freud per Abel e la sua speranza di trovare un fondamento filologico alla sua intuizione sull’inconscio, che oggi forse ci fa meno impressione ma che per l’Europa positivista di fine ottocento fu una rivoluzione, e che cioè a parlare attraverso i soggetti sia una realtà complicata, in cui l’individuo vede solo una piccola parte, quando la vede, è semplicemente buon senso. Capire che contro l’oppressione si sviluppi antagonismo, e che noi siamo tracce di entrambi, dei romani che distrussero Gerusalemme ma anche delle cronache di Flavio Giuseppe, che capiva il cambiamento e vi si adattava, anzi, adattava un mondo intero alle condizioni che determinavano la politica in medio oriente e nell’Impero. Oppure che oggi il presidente del Senato italiano che chiama i suoi figli con nomi di indiani debba poi sottostare al Settimo Cavalleggeri se vuole fare politica, e probabilmente, prima o poi, sbarazzarsi anche del busto di Mussolini che gli regalò il padre. O che se si lavora in un ente pubblico controllato dalla politica come la Rai o nella diplomazia, si dovrà in qualche modo articolare la voce dei nuovi padroni e che questi padroni cambiano sempre.
Che tutto questo alla fine faccia l’Italia, un’Italia di cui fa parte, anzi per quel che mi riguarda, grandissima parte, anche il fatto che tanto di questa Italia non piaccia, di abitare una dissidenza, ben consapevoli che nulla impedirà ai ragazzi di dodici anni di assimilarsi a questo nuovo mondo, per magari domani ribellarsi, e speriamo di poter lasciare qualche traccia di una storia conflittuale e non solo pacificata, di riuscire a portare nella lingua che parliamo e parleremo le stratificazioni di questi conflitti.